Stelle cadenti: Di Maio, Salvini, Renzi – la liberazione del Paese dai capetti bambocci

per Gian Franco Ferraris
Autore originale del testo: Fausto Anderlini

Pensiero della notte: Thymos e stizza

L’era renziana ha sdoganato non solo i nomi propri ma anche un altro sequel ossessivo: quello dei ‘capi’. Un vero e proprio slang generazionale. Salvini parla sempre di sé (io faccio, io brigo, io sono….) ed è celebrato dai suoi addirittura come un fhurer. Renzi nel suo egolatrismo personalistico arrivò a concepire una riforma elettorale ipermaggioritaria dove le liste erano guidate dai ‘capi’, addirittura certificati sulla scheda neanche fosse una gara fra tribu primitive. Calenda è ossessionato dall’idea di essere riconosciuto come la promessa di un capo e per questo si muove da un raggruppamento politico all’altro sorretto da una incontenibile adrenalina. Nessuno vuol fargli fare il capo e allora lui prende cappello e se ne va. Di Maio si presenta al cerimoniale quirinalizio come il ‘capo’ del movimento, e parla di sè quasi in terza persona. Esce dal colloquio col presidente incaricato e con aria proterva detta condizioni. Del paese, del suo stesso movimento se ne fotte. Tutto quel che gli preme è di mettere in risalto come per ben due volte (la seconda in via privata, nell’intimità del rapporto col Salvini dopo che per un anno si è divertito a brutalizzarlo) ha dovuto rinunciare alla premiership. Il suo destino. Infanzia di un capo incapace di diventare adulto.

La cifra identificante di questi sedicenti ‘capi’ è l’infantilismo regressivo. Con loro sovvengono immediatamente quei flashback della vita in cortile dove nelle bande di ragazzini si finiva sempre in lite sul tema cruciale di chi doveva fare il ‘capo’. In effetti anche per questo si chiamano per nome, come era in uso all’asilo e nei cortili, mentre salendo sino alle superiori, sino all’apice della vita di partito, era semmai costume chiamarsi per cognome, Il cognome: emblema della maturità istituzionale, ovvero della sottomissione dell’intimità individuale e interpersonale al vincolo sociale collettivo.

Sono leader bambini. La parodia infantile e sadico anale della guida carismatica. Individui del tutto ordinari, senza ‘gesta’ alle spalle, sacrifici, accumulo culturale, talvolta anche figli di papà o allevati in chissà quale aspettativa di grandezza, come tipico della piccola classe media frustrata, sono totalmente privi di visione e di convinzioni profonde. Vivono delle sole opportunità che occasionalmente si offrono al loro ego autocentrato. Opportunisti, cioè intimamente trasformisti. Meglio; transformer come certi giocattoli meccanici.

I greci identificavano con thymos (o thumos) l’energia vitale sorretta dall’ambizione e bisognosa del riconoscimento. Mancando il quale si apriva la dimensione tragica dell’ira.
La timotica dei nostri bambocci, dannosi per gli altri ma innanzitutto per sé, è invece di tipo grottesco. Vorrebbe compiersi in un’ira funesta, ma in realtà inclina inesorabilmente alla stizza. Pestano i piedi e strillano, come avveniva nei cortili, quando il mancato ‘capo’ prendeva il pallone e se lo portava a casa per fare dispetto ai mancati sudditi.

Salvini, Di Maio, Di Battista e Calenda sono letteralmente patetici, mentre Renzi, che a tutti gli effetti è il vero capo putativo di questa compagnia da cortile, almeno non demorde dal fare il gradasso e il millantatore. Ma a ben pensarci anche i giovani reporter dell’Huffington non si allontanano di molto dalla genia antropologica dei capetti. Anche loro presi dalla smania di voler fare i capi burattinai. Dettando legge (in campo politico e morale) non dalla cattedra ma dalla televisione.

Se tutta questa vicenda arriverà alla fine come si deve Conte e Zingaretti dovranno essere celebrati nella loro immensa e matura pazienza come i veri liberatori del paese. Quelli che avranno finalmente messo in castigo questi dannosi ‘capetti’ del cazzo.

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