di Francesco Bonicelli Verrina
Capita che mi svegli e mi dica: ma lei c’è davvero stata? È stata qui tra noi, con me, tutti questi anni?
Settembre è un mese che per anni ho visto con una certa ansia, tra malinconia e riluttanza.
Settembre, il mese che annuncia irrevocabilmente l’approssimarsi di ottobre e quindi dell’insuperabile novembre, sebbene inganni con le sue giornate talvolta ancora estive, anche se progressivamente più corte, in maniera subdola e quasi impercettibile.
A settembre contemplavo dalla finestra della classe il cielo sotto il quale avrei voluto vendemmiare fin dal mattino, come se la vendemmia fosse per me un privilegio a cui potevo partecipare solo al pomeriggio, assolti i doveri scolastici. A causa di svariati fattori non ho mai amato gli sport come qualcosa di organizzato e come competizione, piuttosto come un moto occasionale e solitario, senza chi ti spinga a farlo o ti prenda in giro, più come una sfida con sé stessi. Ma camminare nella vigna, sotto il sole, la prova di resistenza collettiva, con gli altri vendemmiatori molto più vecchi, fra “filosofia” varia e battute scurrili, portare i pesanti cavagni, assaggiare l’uva, mutilare gli insetti sui grappoli da tagliare, quale gioia! Per non parlare poi del mosto…
Il nonno mi aveva regalato, a cinque anni, delle forbici verdi, per me preziosissime (ero pagato a grappolo tagliato!), piccole ma formidabili, e mi aveva detto che bisogna sempre lavorare con chi lavora per te.
In fondo quindi settembre è stato sempre il mese della vendemmia, finché ci sono state le vigne, anche dopo la morte del nonno. Il mese malinconico, ma della serena nostalgia di qualcosa che si va compiendo, attivamente. Niente a che vedere con la depressione novembrina che ha un ché di definitivo, passivo, grigio e soffocante.
Da quando non c’è più la nonna, settembre mi è venuto più caro, non solo perché l’autunno si è spostato più in là negli ultimi anni, anche nel mio tempo interiore, ma perché a ben guardare, in effetti, settembre era e rimane il suo mese.
Non soltanto lei era nata il 4 settembre del 1933, ricorrenza nella quale, in certi anni, mi capitano cose speciali, ma passava settembre a preparare fantastici manicaretti che non ritroverò mai più: risotti rossi, minestroni alla genovese, gnocchi, gnocchi alla romana, pastasciutte varie, frittate, arrosti, dolci, per i vendemmiatori ai quali, anche se non ne avrebbe avuto più voglia, ogni anno non faceva mancare il suo “pentolare”, uno dei suoi migliori neologismi che fa avvertire tutto il peso del cucinare (altro che Master Chef), malgrado la naturale (mai nascosta) propensione alla pigrizia e il mal di schiena (che di anno in anno s’incattiviva). Ma non voleva tirarsi indietro. E in realtà per la famiglia cucinava tutto l’anno. Soprattutto per me. E anche se sono sempre stato molto solitario non mi pesava mai stare con la nonna. Era sempre lei a spingermi ad uscire.
Non c’è gran merito nel naturale iper-attivismo, ma quando si conoscono e apprezzano le gioie della pigrizia, il piacere di cincischiare fumando una sigaretta e risolvendo parole crittografate (con l’immancabile biro cancellabile Replay), o leggendo, o seguendo qualche poliziesco, magari in compagnia delle pignolate o di una fetta di tarte Tatin, allora è davvero ammirabile il dono che si fa agli altri preparando tante cose. “Se mi avessero pagato un centesimo a bicchiere lavato sarei diventata miliardaria” era una delle grandi massime che si potevano sentire da lei.
Pensare a cosa fare da mangiare era per lei, a volte un peso, ma di solito quasi una spinta propulsiva, inventiva, anche per uscire e superare la solitudine, passando in un bar fra una spesa e l’altra.
Successe così, che da quando il nonno se ne andò, incominciai ad andare da lei sempre a pranzo dopo la mattinata di scuola, fin da quando avevo undici anni, per più di un decennio. Ovviamente mi colmava di cibo, salvo alcuni brevi periodi nei quali mia mamma riusciva ad instillarle un certo senso di colpa per il mio sovrappeso. Anche la nonna si dispiaceva di ingrassare, ma allo stesso tempo, spesso, non riusciva a rinunciare alla sua golosità. Alla sera spesso cenava con pane e marmellata o pane e salame o un pezzo di gorgonzola con i grissini, davanti a qualche quiz televisivo, sul divano. Quando in quello che aveva mangiato c’era già qualche minima recondita traccia di frutta o verdura era solita usarla come escamotage per non dover mangiare altri vegetali.
Se ad uscire ho spesso preferito la compagnia di un buon libro (se non sotto minaccia), a casa della nonna potevo tranquillamente esplorare la sua biblioteca, le enciclopedie, le mappe, i libri antichi di famiglia, il tempo sembrava una vasta pianura fissa e interminabile. Abbiamo passato per anni pomeriggi interi insieme, raccontandoci molte cose, a volte (perché mi è sempre piaciuto ascoltare storie di famiglia, i suoi ricordi e la sua filosofia), ma altre volte potendo stare in silenzio assorti nelle rispettive attività, sentendoci sempre più profondamente uniti, insieme, come se comunicassimo semplicemente attraverso una rispettosa compresenza, l’uno accanto all’altra, senza bisogno di troppe parole, anche quando talvolta discutevamo per qualcosa, come capita anche (e forse soprattutto) nei migliori connubi. La nonna non amava la prolissità, né l’enfasi ed era sanamente scettica su quasi tutto, senza però essere diffidente.
Era generosa nella fiducia verso le persone, anche quando la sua fiducia era stata minata, ma scettica verso nozioni non verificate o inverificabili. “Se uno ha mangiato due polli e il suo vicino zero, per la statistica hanno mangiato un pollo a testa”. Statisticamente possono essere “vere” tante cose, ma è quello che succede a me, proprio a me, che fa la differenza, anche se forse solo per me. Verso la nuova tecnologia era piuttosto scettica, si arrabbiava a volte con il telecomando (che chiamava “aprino”, un altro dei suoi neologismi), altre con il cellulare, verso alcune cose aveva una riserva pregiudiziale (come del resto ho io, pur essendo di due generazioni più giovane), o le piaceva usarle a modo suo, come imparava ad usarle lei anche con l’intuito, anche se conservava “religiosamente” tutti i libretti delle istruzioni.
Diffidava del computer ma apprezzava enormemente Skype. L’idea che ci si potesse vedere e parlare, in tempo reale, da qualsiasi parte del mondo, la incantava. Alcune cose avevano davvero migliorato la vita delle persone, sarebbe bastato applicare un sereno buon senso alla tecnologia, alla tecnica, in funzione dell’uomo, non permettere ad essa di dominare ogni cosa umana, come se l’uomo fosse solo un surrogato o un’estensione di essa.
Per quattro anni lei e il nonno, da giovani, si erano scritti quasi ogni giorno lettere o cartoline, che ho scoperto nell’angolo di un cassetto di biancheria, un mese dopo la sua dipartita; chissà se avessero potuto parlarsi e vedersi su Skype, forse pensava. Ma la lontananza fa divampare i grandi fuochi. Per un anno non si erano né sentiti né scritti né visti, ma poi si erano ritrovati.
Le faceva ridere chi si ostinava a lavare tutto a mano, pur essendoci le lavatrici, e apprezzava molto che in DVD potesse rivedere i film che aveva amato da giovane (L’amore è una cosa meravigliosa, Ninotchka, etc..) e ce li guardavamo insieme, anche se non voleva imparare ad usare il lettore DVD. Amava anche alcuni film più recenti, come La vita è bella o La ladra di libri, e altri. Non disdegnava i Simpsons, ma la preoccupavano i Minions, era curiosa di vedere cose nuove, senza essere fanatica delle novità, alcune la innervosivano semplicemente.
Rimpiangeva di non aver potuto viaggiare di più, anche se era stata in Marocco, in Spagna, in Turchia, in Inghilterra, in Repubblica Ceca, in Francia, in Austria, etc e in molti altri posti in Italia. Mi incoraggiava a viaggiare (ogni volta mi dava qualcosa per partecipare alle mie spese di viaggio) e poi le raccontavo al telefono e quando tornavo, qualche volta spedivo una cartolina, di solito le portavo un mazzo di carte con le vedute più significative o un uovo dipinto, ma soprattutto la portavo sempre con me nel pensiero e sentivo che lei mi seguiva sull’atlante, dal suo divano, con i suoi grandi occhiali, scorrendo il dito nodoso su fiumi, montagne e città, cercando i luoghi che le avevo comunicato. Insieme eravamo stati in Liechtenstein, più volte sulle Dolomiti e a Praga, Venezia, Roma e Parigi, quando ero piccolo.
Amava tanto la radio, che da sempre accendeva al mattino presto, mettendosi a fare il primo solitario a carte in cucina, con il primo caffè e la sigaretta Rothman’s slim, passando alla tv negli ultimi anni. Aveva sempre fatto l’abbonamento a teatro e quando aveva vent’anni era andata in treno fino a Verona, all’arena, a vedere l’Aida, “con gli elefanti veri!”, viaggiando di ritorno tutta la notte. Adorava l’opera, mi aveva regalato un cd con le arie più famose cantate dalla Callas e io a lei una raccolta di libretti. Per il mio compleanno del 2014 l’avevo portata al Carlo Felice, a Genova, a vedere Madame Butterfly.
Dubitava ma non sospettava, e sono due atteggiamenti molto diversi, il dubbio è sete di capire, con-tenere quello che ci viene in-contro, dovendo ammettere che a volte ci sono cose per noi incomprensibili, o generalmente imprendibili, mentre il sospetto è un costante stato di diffidenza verso qualsiasi cosa venga da fuori. Il dubbio in fondo è un abbraccio che sta per spalancarsi, vuoto che aspetta di essere riempito, la diffidenza è voltare la schiena, chiuder-si. Da un punto di vista filosofico, si può quasi dire che il dubbio sia il sale della vita umana, se non, per alcuni, la vita umana stessa. Dubito, cerco, quindi sono.
Dicendo il Credo, a messa, taceva al punto: “…aspetto la resurrezione dei morti e la vita del mondo che verrà…”. “Credi alla resurrezione della carne, alla vita eterna?” “Non credo”, diceva fra sé a bassa voce. Di Dante e della Divina Commedia amava rileggere l’Inferno (citava spesso: “non ragioniam di lor ma guarda e passa” oppure “il cul fece trombetta”), su cui ricordava le lezioni del suo professore Ficus (“un vero figo” diceva, con un figlioletto che gli chiedeva se era “liscio”, per dargli un bacio) al convitto “Vittoria Colonna”, dell’ENAM, a Fano, la bella cittadina di Fabio Tombari.
Cercava la fede, ma non poteva credere ciecamente. Era andata ad accompagnare gli ammalati a Lourdes, forse per dimenticare un po’ sé stessa, “per umiliare il suo spirito ribelle e polemico” diceva lei e infatti le erano toccate cose umilianti, ma fatte con spirito di sacrificio. Sulla via del ritorno però, aveva concluso che la Madonna non era decisamente solo a Lourdes, anzi era rimasta quasi più scossa negativamente da quell’esperienza. Anche casa nostra è Lourdes. La vita non deve essere solo sacrificio, la sofferenza non è bella, si può pregare ovunque anche stando seduti a casa.
Le sue zie avevano avuto i calli sulle ginocchia, per quanto tempo passavano inginocchiate in chiesa a pregare e scrivevano anche poesie sulla Madonna: Vent’anni son passati, da quel dì felice e santo, quando la Vergine Maria mi accogliea sotto ‘l suo manto… e così via. Erano le figlie nubili di colui che aveva fondato la casa vitivinicola. Si chiamava Ferdinando e nel paese i suoi discendenti e la sua roba erano comunemente “Quei di Ferdinando”. Competeva con il conte locale. L’unica figlia che si sposò, con un mercante, ebbe tanti figli da morir di parto. Molti morirono piccoli, uno crebbe e si suicidò per amore, quattro figlie crebbero con i nonni, Ferdinando, appunto, e sua moglie Cecilia, una donna molto in gamba (vedova del primo marito, un cugino di Ferdinando), che lasciò una tale impronta nella mia bisnonna, Maria, che desiderò chiamare sua figlia (mia nonna) con lo stesso nome.
Quella Cecilia era pronipote del drammaturgo Paolo Giacometti, molto famoso e celebrato nell’Ottocento, sostenitore del divorzio, suo padre era stato nel Consiglio Napoleonico di Genova.
Mia nonna odiava sentire le prediche pretesche sulle “belle famiglie numerose di una volta”, lei che, da maestra di provincia remota e bricchi, sapeva bene cosa volesse dire. Odiava il moralismo, in particolare sulla contraccezione, la sessuofobia in genere. Era insofferente ad ogni adesione fanatica o eccessivamente enfatica e entusiastica, fosse politica o religiosa (di qualunque religione), quella che aveva fatto dire a un genitore comunista poco informato sulla differenza fra critica e autocritica e sul programma scolastico: “Veniamo a fare l’auto-critica alle maestre: perché indugiate per mesi sulla storia antica e non fate la Costituzione?” e avevano appena concluso un’unità didattica proprio sulla Costituzione della Repubblica Italiana. O quelli che allarmati le chiedevano: “Signora maestra, e se viene il divorzio?”. Odiava l’ignoranza saccente e, visto che anch’io ho sempre voluto insegnare, mi metteva in guardia: “Sapere è saper di non sapere”, a ogni risposta corrispondono altre domande, ad ogni nuova scoperta o lettura si scopre a maggior ragione quanto non si sapeva e ancora non si sa. Ma soprattutto: “La testa degli alunni non è un sacco da riempire”. Uno dei libri preferiti della nonna era “La scimmia nuda”, di Desmond Morris, accanto a “Il mestiere di padre”, del suo direttore alle elementari di Arenzano, Bruno Ball (maestro e pianista, ebreo, perseguitato durante la guerra, un mito di mia nonna, “una di quelle poche persone veramente fuori dal comune”, diceva, “che sei sommamente felice di aver incontrato nella tua vita, quando fai i conti con quello che hai fatto”). Due libri da cui ho tratto molta ispirazione, nel mio percorso da insegnante e “piccolo baccelliere”. Un altro suo libro preferito (ancora sul suo comodino) era “La Casa di San Michele”, di Axel Munthe, un medico filantropo svedese, la cui casa, oggetto del libro autobiografico, è ancora a Capri.
Che nostalgia oggi provo, ripensando a quella saggezza, da insegnante disoccupato, costretto a frequentare questi insulsi corsi di formazione per scimmiottare, forse, la carente scuola statunitense, nell’illusione che metodo, tecnica, migliaia di ore di corsi di formazione metodologica tenuti da non-insegnanti, dogmatici e fanatici dei loro volumi, nuove tecnologie e informatizzazione, ore e fondi strappati al sapere e alla ricerca vera e viva, al capire e com-prendere, possano restituire efficienza ed efficacia alla scuola, quando servono insegnanti pronti a mettersi alla prova, che abbiano voglia di continuare a studiare la materia, che abbiano una cultura ampia e varia, in espansione costante e apertura mentale, che abbiano il fuoco della propria materia, affetto, empatia e un po’ di necessaria iconoclastia e autoironia, desiderosi di farla conoscere ed amare, di scoprire cose nuove con i propri studenti, imparare, coinvolgere e trasmettere attivamente. Nessun metodo renderà mai insegnante chi non se lo sente sottopelle, chi lo fa per ripiego o per parlare da una torre eburnea, chi ha un sapere che sente completo, chi crede troppo nelle categorie e che quindi ci siano tecniche universali e non esseri umani, individui singoli, unici e palpitanti di fronte a lui, menti e cuori pulsanti assolutamente degni di un rispetto supremo, talvolta insopportabili, vendicativi e sul piede di guerra, ma è proprio questo il nostro lavoro, costruire la fiducia e l’amore, aiutarli a trovare la loro strada, ascoltarli, anche quando si sa o si pensa che sia una “battaglia persa”. Niente è più inutile e odioso di un sapere trasferito identico, scrive Canetti.
Anche all’ultimo, per la nonna, andare al bar, quello che le aveva per anni fatto animo, l’aveva stufata, tra chi predicava di prendere a cannonate i barconi dei migranti, chi era contento che affondassero e annegassero e chi si preoccupava del pesce che aveva mangiato che forse avesse divorato prima qualche migrante affogato. Questi sono i discorsi del Bar Sport di oggi, purtroppo.
Se le chiedevo scherzando una preghierina, magari per un esame o una prova difficile, lei mi rispondeva che non pregando molto e non disturbando Dio di continuo, per qualsiasi cosa, forse sarebbe stata ascoltata.
Forse per tutto questo l’ho sempre pensata eterna e non ho mai potuto pensare alla sua morte come a qualcosa di reale e imminente, nemmeno negli ultimi istanti. Perché il tempo con lei non esisteva quasi, il tempo ha iniziato a essere una sostanza sfuggente da quando non c’è più lei, per me. Tant’è vero che quando un anno dopo la sua morte me ne andai a lavorare per un semestre in Australia, mi sembrava come fare un viaggio nel tempo e avevo continuamente l’impressione che l’avrei ritrovata tornando. Mi veniva spesso a trovare in sogno anche se ero tanto lontano, in luoghi tanto diversi e remoti per noi o sognavo di telefonarle. Ho sempre avuto un pessimo rapporto ansiogeno con il telefono, ma la nonna era l’unica persona a cui telefonavo sempre volentieri quando ero lontano e alla quale rispondevo al cellulare senza mai sbuffare, anche quando ero impegnato. E lei mi capiva sempre.
Lei era anche abituata a scherzare sulla sua morte (“forse che sia la volta buona?”, diceva ridendo), proprio perché amava la vita dentro di sé, penso, anche quando non le piaceva del tutto o non la convinceva. Non si ama quello che è perfetto. La leggerezza della vera saggezza. “Ci vuole anche un po’ di inattività” rispondeva a chi si lamentava di non aver fatto niente.
Partecipava sempre profondamente alle ansie di tutti, senza trasferire la sua propria ansia, vissuta intimamente, senza lacrime, senza impeti (solo una volta l’ho vista piangere in ospedale per il nonno, andando insieme, io e lei, a messa, nella cappella dell’ospedale). Aveva una grande capacità di immedesimazione empatica. Il suo pensiero guariva e seguiva tutti noi (forse in qualche modo continua a farlo), probabilmente per quello soffriva tanto di sentirsi dire: “Ma come, non ti ricordi?!”. Lei in realtà conservava tutto. Quando riceveva le trasfusioni, nell’ultimo anno di vita, si domandava se fosse giusto a ottantadue anni usare tutto quel sangue per lei, che sapeva di andare verso la fine. Le dava fastidio essere controllata, non poter fare le cose a modo suo, ma alla fine si rassegnava.
Era di quelle persone che anche quando si stizziscono e tengono il muso, pensano in fondo in fondo di essere nel torto, di aver mancato. “Odiamo noi stessi negli altri”, mi diceva, anche quando accusavo altri di miei difetti, come lei stessa sapeva di aver fatto nella sua verve e vis polemica giovanile, propria di chi vorrebbe poter amare tutti e si rende conto che è impossibile. Chiacchierando una volta mi confidò che avrebbe preferito essere uccisa che uccidere, anche se come tutti i buoni talvolta aveva “istinti omicidi”.
Se a volte mi addormento sul suo divano, mi capita di risvegliarmi chiedendomi dove sia. Per questo, dico, ancora oggi, a distanza di tempo, nella sua casa, anche la sua assenza fisica, mi sembra ancora presenza.
La nonna era una presenza fisica affettuosa, non eccessivamente affettuosa, come a volte tenderei ad essere io, in una sorta di ansia da distacco perdurante. Lei era una costante presenza spirituale (niente a che vedere con santoni, santini e altri materialismi di questo genere), già in vita, con tutta la leggerezza e la libertà che la parola spirito dovrebbe farci avvertire e non ho finora mai trovato nessuno che avesse la sua incredibile dote di far sentire unico qualcun altro ed essere unica per ciascuno. È un dono di natura che lei indubbiamente aveva. Infatti, chiarisco fin da subito, che parlo della mia nonna, così come l’ho conosciuta e veramente vissuta io e come si è lasciata conoscere e vivere da me e per me, e potrebbe forse essere un po’ diversa dalle altre Cecilie conosciute da ciascun altro.
“Non esagerare, non farla tanto grossa” erano spesso i moti di insofferenza verso gli eccessi di enfasi e di agitazione immotivata che le capitava di avere intorno, lanciandomi occhiate e tirando sospiri. C’era sempre una spontanea, immediata e naturale intesa visiva fra di noi, su certe cose.
La nonna si connotava spesso per una certa adesione a una sorta di cinismo scettico, a una flemma fatalista che risparmia le energie per le cose davvero importanti. Anche quando ero ancora piccolo non mancava di esprimermi la sua personale filosofia come: “Ah potessi andare a dormire e non svegliarmi più!”, frase dei momenti di scoramento massimo che non mi era ben chiara quand’ero piccolo (e che oltre che un po’ triste, mi lasciava perplesso), ma che ebbi modo di capire meglio e interiorizzare negli anni. Lei la diceva senza commozione, senza tragedia, come una specie di provocazione da stoico: Perché se l’uomo che è, o si crede, il frutto di continui atti di volontà, non può anche non volersi più svegliare, nel momento in cui il calice è più amaro, ritirarsi, annullarsi? Ma è proprio questa quieta consapevolezza dell’amarezza intrinseca della vita, acquisita fin da giovanissima, che di contro le permetteva di assaporare con gusto anche le cose più piccole, trasformare in gioie dello spirito anche le piccole cose materiali: un buon dolce, una sigaretta (anche quando smise di fumare, ogni tanto fumava di nascosto, dalla finestra del bagno, e quando cessò definitivamente continuò a dire che se avesse saputo di morire il giorno dopo, se ne sarebbe fumata un pacchetto), una barzelletta sulla Settimana Enigmistica, una scoperta sull’enciclopedia, un viaggio sull’atlante, un bel ricordo lontano illuminante all’improvviso, un bel film, un bel libro, una ricetta ben riuscita, grazie a qualche personale aggiustamento creativo (mai rigidità scientifica nelle ricette), una pentola nuova, una pianta nuova sul terrazzo, un vestito nuovo o una borsa, talvolta. Quelle che le davano più gioia fra gli oggetti materiali erano sicuramente le numerose e variopinte collane, uscendo senza una collana si sentiva nuda, diceva. Come il nonno senza un cappello.
“Che cosa stupida dire: che Dio ci salvi dalla morte improvvisa! La morte improvvisa e inconsapevole è una benedizione” “Gesù Cristo morto in croce, con tanta sofferenza, ma chi glielo ha fatto fare?” (diceva nei suoi mesi di malattia) nella sua percezione, difficilmente smontabile, acquisita in tanti anni di insegnamento, che l’umanità fosse alla fin fine più stupida che intelligente, che, come pensava Einstein, la stupidità avesse più probabilità di essere infinita dell’universo. Questa umanità si espande senza limiti, dimenticando che un uomo senza cultura ed empatia è peggio di una scimmia con un mitra in mano. E l’universo, le stelle, i pianeti, che sua mamma tanto amava, erano una delle poche cose che davvero inquietassero mia nonna.
L’infinita stupidità la spaventava, le cose cattive si dicono e si fanno più per stupidità che per cattiveria infatti, diceva. Quando un uomo ha un raptus, esce fuori da sé e diventa letale ai suoi simili. “Dei vivi bisogna avere paura non dei morti”.
La sofferenza non serve a niente e sono d’accordo, ma è una verità umana senz’altro che a lei, come a tanti altri scossi e feriti, fra gli esseri umani, la sofferenza, pur nella sua ingiustizia insopportabile, doni una ricompensa speciale, un’empatia e una profondità uniche e quasi incomunicabili ai non-feriti. Kosztolanyi ha scritto: “Senza lacrime non vedo”.
La nonna era sempre generosa a donare amicizia, senza barriere sociali o culturali, e rimaneva però spesso offesa dalla superficialità e dall’ingratitudine, ma non per questo disdegnava la compagnia varia di un bar, dosata con parsimonia ogni mattina, non rinunciando mai completamente alla propria solitudine indipendente e autonoma, come radice della vita. L’uomo è per parlare, ascoltare e comunicare in vari modi con gli altri, è fra gli altri e per gli altri, ma in quanto individuo, chi non si conosce nella solitudine e non la sa sopportare, non sarà mai, se non superficialmente, con gli altri e per gli altri. Non si può far sentire gli altri al centro, se non si è trovato il proprio centro.
Senza enfasi, senza tragedie, la nonna si consumava in silenzio per gli altri. Settembre è il suo mese perché fu anche il mese in cui morì il nonno ed iniziarono i suoi quindici anni di vedovanza e me la ricordo con la sua cinquecento andare e tornare, anche di notte, dall’ospedale.
Quell’estate vidi una stella cadente, ad agosto, le confidai di aver espresso il desiderio che il nonno guarisse. Lei sperava che non facesse troppa fatica a morire e perdeva chili ogni mese, insieme a lui, divorato da un tumore. Mia mamma la spingeva a mangiare qualcosa, lei si dimenticava di mangiare.
Quando ero con i nonni, fin da piccolo ho sempre pensato che non ci fossero al mondo persone più felici di loro due insieme. Sono convinto di aver ritrovato quella felicità nella mia vita con Patricia ed è la nostra felicità di sentirci insieme sempre anche quando siamo lontani.
Quando mia nonna è volata in cielo, la nonna di Patricia se ne era già andata da più di un anno e lei mi ha detto: “Le nostre nonne se ne sono andate quando hanno saputo che eravamo entrambi in buone mani”.
L’amore dei nonni è unico, come quello delle mamme, quello coniugale, fraterno, amicale, ognuno a sé, e come ciascun amore importante, essendo uno dei primi, insieme a quello genitoriale, incondizionato come ogni vero amore, è destinato ad accompagnarci sempre, a darci la spinta e deve irradiarsi in tutti gli altri amori diversi che incontriamo lungo la nostra strada, il suo compito, sono convinto, non è star fermo.
In questa luce settembrina, nei deserti pomeriggi di provincia, sento la nonna particolarmente qui, nella sua casa, come fosse sempre qui, ma è una presenza serena, nei suoi mobili, nei suoi libri, nei suoi tappeti, nella sua cucina, che danno un odore permanente alla casa, esattamente come quando c’era, un odore buono “di casa”, di pace, per me difficile da definire altrimenti. A volte però, una casa vuota, è come un corpo vuoto, gli oggetti restano tutti lì, ma non parlano più, come sotto una coltre di malinconia che dà il nome ad ogni cosa.
Parte della sua essenza più intima e profonda è rimasta qui, in qualche modo. La nonna amava le cose belle, non troppe ma durature e di valore, diceva sempre, ma se ne sapeva anche staccare con tranquillità e generosità. Non era per niente avida, era stata a suo tempo l’unica a pagare le ferie alla donna delle pulizie, innescando una sorta di mini-rivoluzione salariale locale, perché poi anche le altre famiglie si erano dovute adeguare a questa buona pratica.
Da giovane aveva letto Guareschi (che le aveva dedicato un libro, ad una presentazione in Galleria a Milano, nel suo anno all’università), ma anche Cronin, Pirandello, Svevo, Dostoevskij, Freud, Chaplin, Jerome, Shaw, Ibsen, Levi, Prus, Sienkiewicz, Fallada, il Libretto rosso di Mao (!), e tanti altri, si sentiva un po’ “liberal-socialista”, come diceva lei.
Si era diplomata con una tesi su Mark Twain e adorava Giorgio Gaber. Al collegio aveva imparato a suonare l’arpa e nel suo ultimo sonno muoveva elegantemente le mani in aria, dormendo, quasi come la stesse suonando.
Era stata così brava al collegio che, all’ultimo anno, aveva avuto l’onore di far parte di una piccola delegazione di studenti in visita al presidente della Repubblica Luigi Einaudi, che lei ricordava con tanto affetto, come la Principessa Mafalda e, ovviamente, De Gasperi, ma anche Saragat. Ricordava con fastidio (e a ragione!) Vittorio Emanuele III e Badoglio.
Conservava il De Amicis, donatole da suo padre, con una affettuosa dedica, affinché conservasse il suo tesoretto interiore e rimanesse buona com’era. Anche il piccolo libro di preghiere che le aveva regalato sua mamma, prima di partire per il collegio, dopo la morte del padre. Lo ha donato a me e mi segue sempre, nei viaggi.
Due cose mi incuriosivano da sempre, particolarmente, nella sua biblioteca: una enciclopedia geografica del 1830, che mi regalò per un compleanno, con descrizioni meravigliose, luoghi scomparsi, completamente diversi o ribattezzati, di tutto il mondo, e il dizionario di tedesco di suo padre, Camillo, che era stato prigioniero degli austriaci, nella Prima Guerra Mondiale. Un suo zio ci era morto.
Camillo studiava per diventare notaio, come i suoi avi erano stati fin dal 1700, prima a La Spezia e poi a Genova, due città di porto, di grande passaggio, dove scrivevano atti e contratti per gente proveniente da ogni angolo della terra. I Maggiani erano stati anche nel Consiglio di Stato della Repubblica di Genova e del Governo Provvisorio del 1797. A inizio Ottocento si erano trasferiti nell’interno, acquistando due ex Palazzi feudali della Val Borbera, Palazzo Spinola a Rocchetta, dove nacque mia nonna, Palazzo Doria a Cabella, dove era nato suo padre Camillo. Dissipati in successioni e vicissitudini familiari, fino a diventare, il secondo, addirittura proprietà di una principessa indiana. Di quei palazzi sono rimasti nel salone della nonna un pendolo secentesco, che funziona ancora, e una enorme mappa della Repubblica di Genova, del 1796.
Il mio bisnonno Camillo, aveva il nome del nonno materno, che aveva comprato il Palazzo Doria e poi se n’era andato a fare il notaio negli Stati Uniti. Il padre di mia nonna era figlio di una Maggiani, Irene e di un funzionario di Stato, Pietro Ratti. Questo è stato l’unico nonno conosciuto da mia nonna, morì che lei aveva vent’anni, fuori di sé, non riconosceva più sua nipote, ma quando la vedeva le sorrideva e la riconosceva come “una dei nostri”.
Camillo, tornato dalla guerra aveva abbandonato gli studi e intrapreso la professione di segretario comunale, faceva parte di una famiglia della borghesia statale illuminata europea in decadenza. Conobbe Maria, una giovane maestra, arrivata da un’altra valle. Ebbero due figli maschi (uno morto diciannovenne, in procinto di partire per la Campagna di Russia), ma alla figlia femmina, inaspettata, Maria non poté non ricordarsi della nonna che l’aveva cresciuta e le diede il nome di Cecilia.
Mia nonna bambina appare vestita da “maschiaccio” e birichina in una foto, con le mani in tasca. In quelle della comunione è già “angelicata” e in una foto della maturità sembra una giovane attrice dei suoi tempi. Da piccola era già tanto curiosa da spaccare le teste delle bambole per scoprire come funzionassero i meccanismi degli occhi.
Suo padre, Camillo, aveva una posizione assai esposta durante la Seconda Guerra Mondiale, dopo l’8 settembre e l’occupazione tedesca, con la guerra civile. Operò per alcuni anni a Costigliole d’Asti, dove abitavano sopra il cinema comunale. La piccola Cecilia, mi raccontava lei da vecchia, si infilava nel cinema, passando di nascosto dal sottoscala. Ma poi con l’inasprirsi della guerra civile, il padre la lasciò dalla zia, che dirigeva il minuscolo ufficio postale, nel microscopico villaggio appenninico di Carrega. Aveva impressi negli occhi gli stivali delle SS che venivano a chieder conto a suo padre e nelle orecchie i colpi dei fucili, nelle sparatorie. A Carrega faceva tranquilla vita di montagna con una zia nubile che le voleva bene come ad una figlia. Carrega era un centro della Resistenza, ma difficilmente raggiungibile dai tedeschi, arrivavano solo impervie mulattiere, ai monti Carmo e Antola, dove furono paracadutati infatti i primi anglo-americani nel Nord Italia. La zia Pia, fece un vestitino rosso, di tela di paracadute, alla nipotina Cecilia.
Poco dopo la Liberazione il mio bisnonno, fra i primi lettori de “L’Uomo Qualunque” di Giannini, fu sospeso dal servizio, ma poi riabilitato grazie al fatto che non era mai stato crudele o ingiusto nel suo difficile operato, da funzionario pubblico, durante la guerra. Si era anche dato da fare, inutilmente, per salvare degli uomini dalla fucilazione, nessuno se lo ricordò mai in paese come “un fascista”, nessuno ebbe rancori nei suoi confronti. Ma poco dopo la sua riabilitazione, si ammalò di tumore ai polmoni. Era un grande fumatore, soprattutto da quando aveva perso il figlio, pochi anni prima.
Con la morte del marito, la mia bisnonna, Maria, si trovò improvvisamente con tante proprietà super tassate, con un umile stipendio da maestra e due figli da mantenere. La piccola Cecilia, mia nonna, non poté proseguire gli studi classici, e fu mandata al collegio di Fano, per orfane di servitori dello Stato, provenienti da tutta Italia. Un figlio la faceva tribolare e per l’altro, sepolto, metteva via parte dello stipendio ogni mese per poterlo traslare nella tomba di famiglia, da quella in cui era “ospite” a Costigliole. I mezzadri non potevano più essere assunti, per le nuove leggi, e se ne andarono. Si sbarazzò di molte terre, tranne quelle messe a noccioleto, per fare le nocciole da vendere per il torrone. Come se non bastasse, c’erano anche i parenti tornati alla mal parata dall’Eritrea.
La quindicenne Cecilia, con una grande valigia, attraversava nottetempo mezza Italia per andare in un collegio fra sconosciute, nell’Italia del dopoguerra, con treni affollatissimi, sui quali si viaggiava in piedi o seduti sul bagaglio, per ore.
Più difficile, per me, è concentrarsi per sentire ancora la sua voce, riesco a sentire un “Ciao Chicco!” se mi sforzo. Ho come l’impressione, che fa parte di numerosi sensi di colpa che seguono la perdita, che ogni nuova voce, ogni nuova cosa ascoltata, mi allontanino dal ricordo della sua voce.
La sua voce l’ho sempre ascoltata anche dentro di me. Per questo mi continua a parlare, anche se ad alcuni può sembrare una superstizione, un’assurdità. Lei stessa lo diceva, pur essendo scettica sulla vita ultraterrena, che quando un nostro caro se ne va, “ci si sente poi su di sé una protezione tutta particolare”. Quasi come se non fosse davvero importante una resurrezione vera e propria, in carne ed ossa, per continuare a essere per gli altri. “Si fa già fatica a credere a questa vita e tutti vogliono vivere ma nessuno sa perché. Ti trovi a ottant’anni, ti guardi allo specchio e dici, ma sono io questa qua? Ma mi sento come se avessi appena iniziato, era davvero tutto qui? Che fregatura!”. A una sua vecchia compagna del collegio, molto credente, aveva chiesto, quando fosse morta (se fosse morta prima ovviamente), di venirla a trovare, se avesse trovato qualcosa di là. Non era mai venuta, come forse si sarebbe aspettata la nonna, ma l’aveva sognata, scoprendo poi che era morta davvero, dopo alcune ricerche. Era una amica che abitava lontano, in Basilicata, e prima di diventare una grande credente era stata una liceale ateista impenitente.
In fondo viviamo già in vita nell’anima dei nostri cari e non moriamo, finché qualcuno ci ricorda. Ivan Jablonka, nel suo libro “Storia dei nonni che non ho avuto”, ha scritto ai suoi nonni: Potrete star certi, penserò a voi per tutta la vita. Anche quando la mia vita sarà a sua volta finita, i miei figli vi avranno conosciuto. Anche i loro figli vi conosceranno quando anche io sarò nella tomba. Per me, voi sarete i miei dei, le mie divinità adorate, che veglieranno su di me, solo su di me. Sentiamo i loro passi nei nostri e cerchiamo di farli nostri, ci porteranno sempre sulle spalle in qualche modo. Ci parlano nei palpiti del silenzio, la lingua universale del cuore.
Nasciamo e moriamo ogni giorno, come sostenevano i pre-socratici, insieme a tutto il mondo, negli elementi che ci costituiscono e accomunano, che hanno inizio e fine, in ogni punto della natura.
La nonna sapeva che l’essenziale si vede con il cuore e non dava eccessiva importanza all’aspetto esteriore altrui, non notava volontariamente certe cose che tanti notano da distante. Capiva le ragioni altrui, ma teneva molto al suo aspetto, non per motivi superficiali o vezzosi, ma per un gusto nel presentarsi bene, che non significa apparire, ma far emergere. La cura esteriore come manifestazione della propria interiorità. Quando andai a portare la notizia della sua dipartita all’estetista da cui non andava da un po’ di tempo, lei, una ragazza simpatica, mi abbracciò commossa, anche se non l’avevo quasi mai vista, dicendomi: “Non ho mai conosciuto una persona così tenera e cazzuta!”, chiedendomi poi scusa per l’espressione colorita, ma in realtà quell’espressione dice tutto della nonna, meglio di tante parole. Aveva speso il suo primo stipendio da maestra per comprare una vera a sua mamma, che l’aveva donata per la Patria (nell’infausta occasione della Guerra d’Etiopia) e per aiutare suo fratello, uno scavezzacollo all’epoca.
La nonna del resto non amava le parolacce a sproposito, l’abuso gratuito di scurrilità, “ma quando ci vuole, ci vuole!” diceva, e non si scandalizzava per quasi niente.
Quando si concedeva qualche piccolo lusso o di andare a mangiar fuori, provare qualche nuovo ristorantino di cui aveva sentito parlare, si diceva “E insomma, non ho mica mai ammazzato nessuno! Può darsi in qualche altra vita, ma in questa di sicuro ancora no!”.
La nonna mi diceva che ho un carattere difficile, ma un po’ tutti in famiglia lo abbiamo, direi. Infatti spesso mi difendeva. Sapeva che alcuni caratteri talvolta erano persino più complicati del mio, e del suo. Ma mi diceva sempre e comunque di non rispondere male, anche quando potevo avere ragione e gli altri potevano essere nel torto. Anche lei, in fondo, però, rispondeva male, a volte ed era polemica, ma mi voleva mettere in guardia. Ogni essere umano è complicato, non ho mai sopportato chi si presenta dicendo: “Sono una persona molto semplice”. Detestava l’invidia. La nonna non era semplice, era meravigliosamente complessa, inconsapevolmente, come tutti. Aspettava il momento di andarsene a letto come il momento migliore della giornata (citando Andy Warhol). La giornata era una interessante interruzione talvolta, ma spesso piena di grane e dolori. La nostra compagnia ci allietava reciprocamente, anche nei momenti difficili, e quando, raramente, non riuscivamo a salutarci in tutto il giorno, qualche sera salivo tardi da lei, dopo una giornata di studio magari, o tornando da qualche viaggio, e lei spesso era ancora sveglia, oppure dormiva con la coperta tirata su fino alla fronte, tutta rannicchiata. Spuntavano solo quattro dita, un ciuffo di capelli, come in un fumetto di Schulz. Un fazzoletto sempre nella manica del pigiama.
Non cadeva mai nella “glorificazione” della propria gioventù a discapito di quella altrui, che si dice essere uno dei primi segni di vecchiaia. Se l’originalità significa scoprire relazioni inedite fra oggetti esistenti, lei ne era straordinariamente inconsapevolmente dotata, l’originalità non è “far gli strani”. Tirare a campare, lasciandosi sorprendere di tanto in tanto. “Aiutati che il ciel ti aiuta”. Per questo le due migliori amiche della sua vecchiaia non si potevano vedere, perché se la contendevano. Si chiamavano entrambe Anna, una professoressa di latino (la sorella di un grande grecista, Antonio Maddalena, che mi diede ripetizione tanti anni) e una maestra elementare come la nonna, che mi faceva sempre andare a casa sua a prendere libri dalla sua biblioteca e perdeva sempre il bastone, ma anche quando se lo ricordava lo teneva sotto il braccio. Nessuna di loro comunque sopportava “le messe per signore”.
Mi domandavo cosa sognasse e talvolta faceva sogni davvero divertenti. Come quando mi raccontò di aver sognato di essere in mezzo a tante scatolette colorate per le dentiere, cercando la sua e non la trovava. Poi rideva a crepapelle raccontando questi sogni. Si gustava molto il riso e il riso di sé. Avrebbe voluto sognare più spesso il nonno. Il nonno raccontava vecchie barzellette genovesi immortali, che ancora oggi, ripensandole, mi fanno scompisciare. Sono la preistoria della mia scrittura, dei miei personaggi grotteschi, insieme alle filastrocche demenziali, con personaggi come la moglie di Toro Seduto, Vacca Stanca, che ci inventavamo mio nonno ed io.
I libri preferiti del nonno, che essendo rimasto orfano, aveva fatto solo l’avviamento per sostituire suo padre in macelleria (ma si ricordava Dante, Fogazzaro, Carducci e Pascoli a memoria), erano stati forse quelli che aveva letto con la nonna e si erano scambiati: “Via col vento”, “Il vento non sa leggere”, “Rapsodia ungherese” e altri (in un’epoca in cui si traducevano e pubblicavano libri da tutto il mondo veramente). Da giovane la nonna leggeva Nino Salvaneschi, un grande aforista, ormai dimenticato, tra i primi studiosi di filosofie orientali, che scriveva aforismi come: “Non tutti sono astri che illuminano il firmamento, ma ciascuno può essere una fiaccola per scaldare un cuore” oppure “Agli uccelli per fare una casa, basta un ramo”.
Il nonno amava Tex, i western, Stanlio e Ollio, Totò, Govi, Bud Spencer e Terence Hill, che invece innervosivano la nonna. Amava molto anche seguire il ciclismo, essendo andato molto in bicicletta. Il nuoto, essendo stato campione nazionale di pallanuoto, nella squadra voltrese Mameli, di Genova. Ma la cosa più spassosa era guardare con lui le televendite, per prendere in giro i telepredicatori.
Il nonno, che era un vero liberale secondo me (aveva amato Malagodi), mi parlava fin da piccolo come a un grande, gli altri mi trattavano più o meno come un bambino, ma lui no, mi raccontava della guerra, dei bombardamenti a Genova, dei rifugi antiaerei, del fatto che non tutti i “buoni” fossero stati sempre buoni, né tutti i “cattivi” sempre cattivi. Mi parlava di politica e attualità, quasi come a un suo coetaneo. Se prendevo una nota a scuola e la mamma e la nonna mi sgridavano, lui subito le rassicurava, diceva: “Ma vabbé ha capito, non lo farà più”. Non amava i gatti, mentre aveva avuto cani da caccia. Ma nella vecchiaia si innamorò della gattina, Saretta, che abitava con loro. Una gatta bianca a macchie grige, che passava i pomeriggi a passeggiare avanti e indietro sulla ringhiera del terrazzo, diventando attrazione della piazza sottostante.
In campagna si faceva aiutare da me a pulire il giardino, mi portava nella vigna, facevamo falò altamente tossici, mi insegnava a sparare con la carabina a pallini, a otto o nove anni. Mi disegnava gli indiani, lui stava dalla parte degli indiani, come Aquila della Notte, si inventava nomi bellissimi, mi insegnava il genovese, che mi sembrava da piccolo che suonasse come il modo di parlare di Paperino. Era felice che sapessi cantare tutta “Ma se ghe pensu”. Mi diceva che gli uomini di casa devono difendere la famiglia, e la nostra famiglia erano la mamma e la nonna, a cui portava dei fiori, ogni domenica, tornando dalla nostra passeggiata. Come un vero romantico.
Gli piaceva andare a camminare la sera tardi, durante la settimana invece. A volte mi veniva a chiamare ma era troppo tardi, e si svegliava in piena notte a leggere il giornale. D’inverno mi comprava per strada le caldarroste. Era anche molto sensibile e a volte da bambino mi capitava di offenderlo, incoscientemente ma me ne cruccio ancora oggi che sono adulto. Da lui mi sentivo sempre protetto. Mi portava a vedere le stalle, le mucche, i vitellini, le cucciolate di cani e gatti, in campagna. Facevamo lunghi giri sulla sua Cinquecento.
Ogni domenica camminavamo su un ponte sotto il quale una volta vivevano le anatre, oggi non ci sono più. Andavamo a gettargli il pane secco.
Quando era giovane aveva speso giornate a cacciare anatre, le aspettavano in mare, al largo della spiaggia di Genova Voltri, lui e i suoi amici, con la loro mitica imbarcazione dal nome famigerato: il Barracuda. Le anatre scendevano dai monti in autunno, dirigendosi verso sud, per andare a svernare. Ne facevano vere e proprie stragi, una volta presero persino una sula, evidentemente smarrita, che portarono al museo di scienze naturali, dove si trova ancora oggi.
A distanza di tanti anni, tuttavia, avendo così a lungo vissuto a contatto con la natura e con gli animali selvatici, in campagna, lavorando le vigne, da quando aveva lasciato perdere la macelleria, dove doveva sottostare agli ordini della sua invadente famiglia, aveva riscoperto un rapporto rinnovato con il mondo animale. Era sempre stato un esperto ornitologo e ormai li contemplava solo da lontano, i volatili, pur non disdegnando di tanto in tanto un galletto alla piastra. Una volta costruimmo una casetta per gli uccelli, da appendere al pruno, che aveva pavimentato con i sassolini che avevo raccolto alla spiaggia. Ebbe successo e ci venivano ogni anno a fare il nido le cince o le ballerine. Contemplavamo le anatre e mi raccontava cose della sua vita e della vita secondo lui, in generale. Una volta avevamo visto un’anatra più grande attaccare un anatroccolo, chissà per quale ragione, e lui mi aveva detto che le aveva sputato in un occhio. Io ovviamente gli credevo. In questa e in altre occasioni mi trasmetteva un senso di autodisciplina e di necessità di difendere i più piccoli e i più deboli, che ancora oggi mi accompagna, insieme a tante altre cose, che in quel tempo, consapevolmente o no, mi sono entrate sotto pelle per diventare parte di me. Come andare nei locali disertati per mera maldicenza, moda effimera e concorrenza sleale.
Ammiravo tanto anche il suo continuo fare creativo, il suo profondo e autentico senso della libertà, mai egoistico, la sua consapevolezza, la schiettezza e correttezza nelle relazioni, il suo senso del dovere superiore al mondo oggettivizzato, la sua fantasia, la sua resistenza, la sua capacità di contrattare, la capacità e curiosità di vedere dalle altre prospettive. Il suo essere cavalleresco. Quando gli chiedevano come stava rispondeva: “Tiro a campa’”. Mentre la nonna amava il tartufo, il nonno cercava i ristoranti dove si fermavano i camion, perché in quelli sicuramente si mangiava bene.
Quando ero piccolo mi raccontava dei bombardamenti a Genova. Era in caserma a Savona quando l’8 settembre riuscì ad abbandonare la città passando per i boschi, sui monti, abbandonando la divisa, per strada, per evitare di diventare prigioniero dei tedeschi.
Arrivò a Voltri e lì, per sua fortuna, un cliente della macelleria di famiglia, gli procurò un posto nella Croce Rossa.
Conobbe la nonna quando aveva trent’anni e lei andava alla spiaggia con la sua cuginetta e la invitò a fare un giro in barca e le aveva insegnato a nuotare (lei diceva di tuffarsi come le galline quando fanno l’uovo). Nelle lettere le scriveva di offrirle “un cuore caldo per amarti, uno spirito forte per proteggerti”. La nonna aveva conservato tutte le buste delle sue lettere, lui le buttava via e teneva solo le lettere. All’epoca la nonna insegnava in un villaggio di quattro case, perso nei monti dietro Savona, che si chiama Sorba. Faceva così freddo lassù, che le gelava il latte. Erano contadini così poveri che al posto dell’olio aggiungevano il peperoncino alla minestra, che comunque è buonissimo e oggi di gran moda.
Non bisognava mai stare senza far niente secondo lui, anche quando da vecchio si addormentava, lo faceva come se fosse sul piede di andare, sulla poltrona ma in procinto di alzarsi.
Dopo la vendemmia, di notte controllava le botti bollire, non si fermava mai. Anche quando è morto, dalla sala dove venne esposto, sentiva le botti bollire. Quel lavoro di viticoltore che aveva scelto, già più che adulto e nel quale aveva messo l’anima e aveva raggiunto tanti successi.
Odiava la massa e il baccano. Insieme facevamo viaggi immaginari e grandi falò in campagna. Quando tergiversavo e facevo andare le cose per le lunghe mi chiamava Sciù Lunghin (Signor Lentino). Ricordo un pomeriggio nel quale voleva interrogarmi, alle elementari, su una paginetta che avevo da preparare di scienze e io non avevo studiato e rimase molto male. Capii in quel momento forse quanto era importante lo studio e quanto fossi, anche se piccolo, responsabile delle mie azioni e fosse importante essere attivi.
Mi sorprendeva sempre per quello che conosceva, mentre leggeva il giornale io gli bussavo sul giornale e gli facevo altri dispetti, a volte si arrabbiava un po’, ma anche lui era dispettoso con me, si strofinava la barba ruvida sulle mie guance e mi faceva tanto arrabbiare. Quando volevo sposare la nonna lui diceva che era anche sua moglie però. O ancora quando inventavo le mie storie da solo e per l’eccitazione delle mie avventure immaginarie mi strufugnavo le manine, lui mi diceva che esisteva una clinica per districare le mani dei bambini che si erano incastrate. E mi faceva ridere un sacco.
Suo padre, uno dei primi aviatori, amante di opera e caccia, gli era crollato davanti agli occhi mentre scherzava, cucinando due bistecche, nel 1939.
Mio nonno aveva avuto una vita fuori dal comune. Ricordo quando mi guardò senza voce per salutarmi l’ultima sera della sua vita. Quando lo vidi freddo la mattina dopo, sapevo che in realtà non era davvero lì. Era sempre in ritardo per fare tante cose, voleva sempre dilatare il tempo, per fare il più possibile. Quando la nonna si era rotta l’anca ed ero rimasto a dormire con lui perché la mamma era in ospedale dalla nonna, mi portò tardi a scuola perché ci eravamo messi a pulire e mettere in ordine la cucina e la notte prima avevamo fatto tardi. Ci eravamo addormentati in sala, sul divano, guardando la tv. Era molto spaesato senza nonna.
Nel primo libro che pubblicai inserii un racconto ispirato ad un sogno estremamente realistico che avevo fatto sul nonno.
Ho incontrato, fin da piccolo, tanti adulti molto diversi e credo che fondamentalmente buona parte del mondo degli adulti si regoli con relazioni superficiali, meccaniche, senza un fine in sé, in cui non ci si dà e non si scambia niente per davvero, dal profondo, ma si tiene tutto finchè qualcuno non squarcia il velo dell’ipocrisia e fa emergere quello che non emerge mai. E gli uomini pur essendo animali sociali e individuali, tendono a prediligere l’omologazione attraverso la sopraffazione, anziché lo scambio e il confronto, sicchè si può solo o sottomettersi o fuggire e chiudersi. Purtroppo ho imparato presto ad argomentare civilmente, ma anche ad alzare la voce (non più degli altri) per difendermi e farmi le mie ragioni, ma ho sempre voglia di sentire nuove conoscenze, idee, opinioni, e discute, di solito, chi ha voglia di capire e comprendere e non si accontenta, questo di solito viene frainteso.
Talvolta ci sono persone che approfittano di questo “romanticismo”. Se si vuole capire si è disposti a dare a piene mani del proprio pensiero (e del proprio cuore) e a correggerlo, ma a patto che chi ci ascolta provi sinceramente a capirci, anche se siamo in errore. E così viceveversa. Spesso invece si incontrano solo muri e ignoranza compiaciuta, ignoranza affettiva e creativa, che costringe, anche chi vorrebbe comunicare, alla gabbia sofferente dell’incomunicabilità e dell’incomprensione. Si vorrebbe amare, dare, scambiare, invece si ricevono solo indifferenza e giudizi superficiali sulla propria persona. Ma l’amicizia umana non può che essere: sentirsi e darsi nel profondo, essere disposti a questo.
La nonna amava soprattutto le mie poesie, mi incoraggiava a scrivere, ma di solito non la convincevano i miei racconti surreali picareschi, troppo metafisici o grotteschi, cercava di dissuadermi dal pubblicarli, poi però era orgogliosa dei miei premi e di qualche successo e anche degli articoli e dei saggi di storia che scrivevo e li leggeva sempre, facendomi tanti complimenti anche se magari mi diceva: “Non sono riuscita a seguirlo proprio tutto, ma l’ho letto tutto Chicco, bravo!”. Si sforzava sempre di leggermi e trovare qualcosa, anche quando scrivevo cose troppo noiose e pedanti. Poi anche lei, come Pennac, era una sostenitrice del diritto del lettore a leggere quello che vuole, a non leggere tutto e a saltare le pagine.
La nonna sapeva che gli dei sono invidiosi, come dicono i cinesi antichi, e bisogna sempre dire al cielo: “Carestia! Carestia!”, anche quando tutto va bene bisogna dirselo a bassa voce, non si sa mai che gli “dei invidiosi” ci possano sentire.
Quando la nonna partorì la mamma aveva sofferto tanto che, prendendo l’anestesia, si sentì morire e si ricordava di essersi epicureanamente detta: “Pazienza, muoio, ma tanto stavo troppo male”.
Mi sorprendeva quante cose sapesse. Poteva sentire “Bandiera bianca” di Battiato e dirmi illuminata che in fondo era la canzone risorgimentale della resa di Venezia, scritta da Fusinato. Oppure sorprendersi che da storico non sapessi che i Romanov fossero emofiliaci, o che non conoscessi Brenno, Pier Capponi, il cimitero polacco di Cassino, etc. Usava parole in via d’estinzione, come “adirarsi”. Le dava gusto leggere i menù al ristorante, ad alta voce. Da piccolo gaudente, come lei, le promettevo che da grande l’avrei portata in vacanza ad Ortisei, in Val Gardena, e in tanti ristoranti.
Quando ero piccolo, la mamma ed io tornavamo a trovarli, nei fine-settimana, e loro mi aspettavano sempre con qualche giochino nuovo, che mi infilavano nel lettino. Quei giochini mi accompagnavano quando ero portato dove non volevo andare, ma questa è un’altra storia. È grazie a loro che fin da piccolo, quando mi capitava qualcosa di brutto, ho sempre potuto dirmi: “Io non ti lascio da solo, Franci, sono con te. Io sono io, nessuno mi può rubare me stesso”. Ancora oggi mi capita di ripetermelo a volte, anche se riesco a scolpirmelo con meno forza e fiducia di quanto facessi allora, malgrado quello che affrontavo allora (che mi ha lasciato malinconia e insicurezza) mi sovrastasse in tutti i sensi. Avevo solo undici anni quando ho deciso finalmente di scappare da dove stavo contro la mia volontà, a subire insulti e cattiveria, prendendomi un treno da solo. A volte sono ancora quel bambino davanti a un muro, che riceve una sberla perché chiede “Dove stiamo andando?” o perché non vuole fare qualcosa o lasciare la mamma. Solo la nonna mi lasciava chiamare con il giusto nome queste cose e persone. Della serie: “Quando ci vuole, ci vuole!”. Mi ha insegnato anche che il perdono è qualcosa di inumano a volte, ma si può accettare, dopo tanto tempo, di ricevere qualcosa di buono anche da chi ci ha dato tanto male, senza augurare del male a nessuno.
Per tutti questi motivi la casa dei nonni è sempre stata anche la mia casa.
L’anno che la nonna se ne è andata ho voluto viaggiare sulle sue tracce.
Gennaio 2019,
Francesco Bonicelli Verrina