Fonte: Limes
UCRAINA: IL BUIO OLTRE LA GUERRA
Il costo provvisorio della ricostruzione si aggira sui 500 miliardi di dollari. Chi e come li garantirà all’Ucraina? La questione delle armi disperse. I vantaggi per l’industria bellica americana. I vecchi oligarchi hanno perso. A Kiev la partita per il potere è già cominciata.
1. E dopo? Che sarà dell’Ucraina alla fine della guerra? Durante ogni conflitto la preoccupazione principale dei contendenti e dei loro alleati è la definizione dello scenario post-bellico. Alle condizioni migliori per ciascuno. E dunque confliggenti. Lo è più che mai adesso che un conflitto regionale, innescato nel Donbas, ha assunto i connotati della sfida esistenziale per i due universi che sono tornati a scontrarsi. Erano Est e Ovest, sono adesso «Sud Globale» e «Occidente collettivo».
Lo schema che aveva ridisegnato il mondo a Jalta ha retto per quasi mezzo secolo prima di crollare come un castello di carte, con il cupio dissolvi dell’Unione Sovietica. Da allora, per strappi successivi, una ricomposizione generale si è rivelata aspirazione vana.
E allora, che succederà dopo, visto che è saltato quasi tutto quello che era stato costruito prima, in termini di relazioni tra insiemi geopolitici? Gli strateghi sono all’opera, con le mappe, i grafici, gli indicatori che rilevano i punti di debolezza e possibilmente di sofferenza dell’avversario tornato nemico. Un lavorio che si coglie costantemente a Washington e a Mosca. E con sempre maggiore evidenza anche a Pechino. Con affacci crescenti di potenze declassate come Giappone, Francia e Germania. La partita sul campo ucraino è del resto globale e s’incrocia con altre che potrebbero già essere calendarizzate nel campionato dell’autodistruzione.
2. «Rimpiangeremo la guerra fredda», diceva uno che l’aveva combattuta e vinta come Brian Jenkins 1, berretto verde, poi Kroll Consulting, poi ancora Rand Corporation: le majors del pensiero strategico privato americano. Eccola che ritorna, l’araba fenice della impossibile coesistenza pacifica. Col corollario della nuova cortina di ferro, così simile a quella smantellata con la caduta del Muro nell’Ottantanove e con la dissoluzione dell’Urss due anni più tardi. Solo più spostata di un buon meridiano – un migliaio di chilometri – verso est. La vecchia barriera correva dall’Oder-Neiße alla Turchia. Quella che si sta alacremente costruendo va sempre dal Baltico – acque dolci del Nemunas che divide l’exclave russa di Kaliningrad dalla Lituania – al Mar Nero. In quale punto esatto, sarà l’andamento del conflitto sul campo a dirlo, con molte varianti importanti.
Nel contesto euroatlantico che si allarga a est per presenza e influenza quale sarà la sorte dell’Ucraina? Astro nascente dell’Eurosfera sotto ombrello americano o residuo ammaccato di uno scontro scontatamente impari? Di sicuro ci sono i numeri. L’Ucraina di inizio 2014, prima del capovolgimento politico determinato dalla rivolta di Jevromajdan, si stendeva su 603 mila chilometri quadrati. Il doppio dell’Italia, con una popolazione che sfiorava i 40 milioni di individui. Oggi, senza la Crimea e le regioni ex autonomiste e ormai indipendenti di Donec’k e Luhans’k, ha perso 80 mila kmq. Una riduzione che non comprende le aree a ridosso di Kharkiv e i territori controllati dalle truppe russe nelle oblast’ di Kherson e Zaporižžja. Complessivamente la geografia ucraina registra circa il 20% di territorio in meno sotto la giurisdizione di Kiev, con relativa perdita di sbocchi sul Mar d’Azov. Mutilazione che avviene, paradossalmente, per difendere l’integrità territoriale che gli ultranazionalisti ucraini vedevano messa in discussione dagli accordi di Minsk, in cui si riconosceva l’autonomia alle due regioni chiave del Donbas. In proporzione, è come se l’Italia si ritrovasse nel giro di due anni senza Lombardia, Veneto, Trentino-Alto Adige e Liguria.
Ne consegue un vistoso ridimensionamento demografico. Persi i circa 4 milioni di abitanti della Crimea, gli oltre 6 milioni complessivi delle regioni di Donec’k e Luhans’k ormai cittadini della Federazione Russa, un’altra emorragia va registrandosi nelle aree di Zaporižžja e Kherson occupate dalle truppe di Mosca. Il Cremlino spinge per la russificazione di territori anche solo parzialmente controllati, con il rilascio di documenti per la nuova nazionalità. Questo processo sta determinando una migrazione interna quantificata dall’Unhcr in 3,7 milioni di individui. A questi vanno aggiunti i 6,5 milioni che hanno deciso di emigrare a causa della guerra 2.
Altri numeri da mettere a bilancio di un conflitto impari sono quelli relativi ai danni, alle distruzioni, alla devastazione delle infrastrutture ucraine, a cominciare da quelle energetiche. Ci vorranno centinaia di miliardi di euro per rimettere in sesto case, scuole, strade, aeroporti, ospedali, ferrovie, centrali elettriche. La Banca mondiale, la Commissione europea, l’Onu e il governo di Kiev all’inizio del 2024 stimavano in 486 miliardi i costi della ricostruzione nei prossimi dieci anni. Lievitati di 75 miliardi rispetto all’anno scorso. Stime confermate a giugno dalla terza conferenza per la ricostruzione, convocata a Berlino, dopo quelle di Lugano del 2022 e di Londra del 2023, e in vista di quella programmata in Italia per il 2025. Numeri imponenti, che valgono il 260% del pil dell’Ucraina. Numeri anche fluttuanti. Le istituzioni coinvolte nell’assistenza economica a un paese che già prima della guerra era stato più volte sostenuto a livello internazionale perché a un passo dalla bancarotta sono numerose e varie. Fondo monetario internazionale, Banca mondiale, Bei, Bers, G7, Unione Europea, Club di Parigi, oltre agli aiuti unilaterali dei singoli governi. Con alcuni paesi che rientrano nei diversi gruppi di donatori. Attraverso prestiti agevolati o a fondo perduto 3. Serhiy Marčenko, il ministro delle Finanze ucraino, lo scorso febbraio ha aggiunto alla lista altre esigenze imprescindibili per le casse dello Stato: 3 miliardi di dollari al mese, per tutto il 2024, onde garantire la stabilità macroeconomica del paese 4.
Un fiume di denaro, non sempre sotto controllo. Alla conclusione della conferenza berlinese (12 giugno) e alla vigilia di quella convocata dal governo svizzero a Bürgenstock, sul Lago dei Quattro Cantoni (15 giugno), per sostenere il piano di pace proposto dal presidente ucraino Zelens’kyj, non casualmente negli ambienti elvetici ha cominciato a circolare qualche preoccupazione sulla gestione dei fondi: «Oltre alle difficoltà oggettive e in evoluzione nel contesto del conflitto, l’Ucraina deve fare i conti anche con i problemi interni di natura politica, con le divisioni non solo tra governo e opposizione, che la fase della guerra poco favorevole a Kiev sta riportando alla superficie, ma anche con gli screzi all’interno del blocco di potere guidato dal presidente Volodymyr Zelens’kyj, tra governo, amministrazione e i grandi attori nel settore pubblico e privato. L’ultimo esempio ha riguardato proprio il capo dell’Agenzia ucraina per la ricostruzione, Mustafa Najjem, che alla vigilia della conferenza di Berlino ha gettato la spugna accusando il governo di avere regolarmente boicottato il suo lavoro, fino a impedirgli di andare in Germania per la riunione internazionale» 5.
L’analisi di uno dei principali organi di informazione svizzeri andava anche oltre, entrando nel merito di una realtà, quella dei rapporti al vertice del potere a Kiev, solitamente ignorati dai media occidentali. «Najjem ha chiamato in causa il premier Denys Šmyhal’, fedelissimo del capo dello Stato, e si è lamentato tra l’altro del modo in cui sono stati distribuiti i fondi per l’Agenzia. Qualche settimana fa era stato silurato improvvisamente a Kiev anche il ministro delle Infrastrutture, Oleksandr Kubrakov, perno centrale nel contesto della ricostruzione, considerato dai partner occidentali un punto di riferimento. Dietro la girandola di poltrone, quest’ultima come le altre precedenti, non è difficile intravedere la tendenza del gruppo più vicino a Zelens’kyj ad accentrare sempre più il controllo sulla gestione e ridistribuzione delle risorse e degli aiuti internazionali» 6.
3. La generosità finanziaria di Europa e Stati Uniti è andata di pari passo con la vastità delle forniture militari garantite a Kiev. Un crescendo di impegni, investimenti e consegne che hanno consentito alle truppe ucraine di tentare la controffensiva nell’estate del 2023. Dopo quel fallimento, Kiev ha cercato di strutturare la linea difensiva lungo i 1.200 chilometri del fronte. Una difesa che col passare dei mesi si è rivelata più vulnerabile del previsto, in grado solo di rallentare l’avanzata delle truppe russe. Risultato deludente per Zelens’kyj e i suoi generali, spiegato con la mancanza di un numero adeguato di soldati da schierare di fronte al soverchiante avversario russo, ma che ha spinto il Congresso americano a chiedere un’illustrazione dettagliata degli armamenti inviati sul campo. All’inizio di quest’anno il rapporto del Pentagono sul materiale consegnato fino a quel punto denunciava una realtà che da mesi preoccupava gli Stati europei. Un numero considerevole di armi, del valore complessivo di 1,69 miliardi di dollari, risultava non rintracciabile. Il report, anticipato dal New York Times, oltre a quantificare in circa 50 miliardi di dollari il valore delle attrezzature militari fornite dagli Stati Uniti a Kiev a partire dal 2014, dettagliava il tipo di armamenti sfuggiti a ogni controllo: «Allo scorso giugno (2023, n.d.r.), secondo gli ultimi dati disponibili, gli Stati Uniti avevano fornito all’Ucraina quasi 10 mila missili anticarro Javelin, 2.500 missili terra-aria Stinger e circa 750 droni kamikaze Switchblade, 430 missili aria-aria a medio raggio e 23 mila visori notturni. Avevano fornito anche parti di lancio per Javelin e Stinger che dovevano essere tenute di scorta dopo il lancio dei missili» 7.
A marzo 2024 l’ispettore generale del dipartimento della Difesa Robert P. Storch rilasciava un nuovo rapporto, aggiornato al maggio scorso. Al capitolo dedicato al monitoraggio degli articoli per la difesa, il documento precisa che l’Ucraina aveva ricevuto otto tipi di articoli designati Eeum (Enhanced End-Use Monitoring). Si tratta di «attrezzature per la difesa, comprese le apparecchiature che contengono tecnologia sensibile o che sono altrimenti particolarmente suscettibili alla diversione». Del totale di questi armamenti sofisticati il 12% non risultava inventariato. Ciò che induceva l’ispettore generale Storch a ribadire la necessità di un ulteriore impegno del dipartimento della Difesa per migliorare gli sforzi in questa area critica 8.
Preoccupazione, in materia, da tempo visibile a Bruxelles. Già nel 2019, quando nelle regioni sud-orientali dell’Ucraina si combatteva ancora una guerra a bassa intensità, il Consiglio europeo aveva prodotto documenti allarmati 9. Successivamente, dall’inizio del conflitto su vasta scala seguito all’invasione russa, numerosi sono stati gli avvertimenti al riguardo. Compreso quello dell’Interpol che attraverso il suo capo, Jürgen Stock, metteva in guardia sul possibile dirottamento verso il mercato nero di parte delle armi destinate all’Ucraina, a beneficio di organizzazioni terroristiche o della criminalità organizzata 10. Possibilità paventata anche da alcuni governi africani, a cominciare da quello nigeriano, che avevano registrato la presenza di nuove armi, di provenienza ucraina, tra i gruppi jihadisti presenti nel Sahel e nella regione del Lago Ciad 11.
4. Tutta questa bonanza ha un prezzo per Kiev. Ma prima ancora ha una redditività per chi è entrato nel business di questa guerra. Anzitutto l’industria militare americana. I maggiori media d’Oltreatlantico si sono ripetutamente occupati di questo risvolto del conflitto. Ma il titolo più icastico è probabilmente quello scelto dall’Atlantic Council per un’analisi pubblicata di recente: «Aiutare l’Ucraina è un investimento strategico, non carità». I dati sono chiari. La mappa del dipartimento della Difesa indica in 33,6 miliardi di dollari il valore dei contratti assegnati a partire dal 15 gennaio alle aziende di singoli Stati federati. Sinossi che è servita anche per mettere sotto pressione quei membri repubblicani del Congresso che per mesi hanno votato contro gli aiuti militari a favore dell’Ucraina, fortemente voluti dal presidente Biden, nonostante il vantaggio che in temini economici ne derivava per i rispettivi collegi elettorali. «Direttamente o indirettamente, sarebbe più difficile identificare un distretto congressuale che non abbia beneficiato degli aiuti statunitensi per l’Ucraina piuttosto che uno che ne abbia beneficiato», scrive Kathryn Levantovscaia, vicedirettrice del programma Forward Defense dello Scowcroft Center for Strategy and Security dell’Atlantic Council 12. La sua analisi sui benefici di questi investimenti va oltre l’aspetto puramente economico: «Le truppe in Ucraina che schierano armi statunitensi stanno fornendo un ciclo di feedback nel mondo reale sulla durabilità e l’accuratezza delle piattaforme statunitensi, nonché sulla loro interoperabilità e integrazione con i sistemi esistenti. Gli Stati Uniti stanno facendo l’inventario delle carenze e delle vulnerabilità, il tutto senza dover mettere un solo paio di stivali sul campo» 13.
5. E arriviamo ai costi economici per l’Ucraina. Con legittima enfasi il presidente Zelens’kyj annunciava sul suo sito ufficiale, poco più di un anno fa, l’accordo che avrebbe consentito di destinare a Kiev i 500 miliardi di dollari stimati per la ricostruzione del paese. Accordo raggiunto con quello che è considerato il gotha di Wall Street: BlackRock, JP Morgan, McKinsey in testa. Tutti accorsi nella capitale ucraina nell’imminenza della caduta della roccaforte di Bakhmut. Charles Hatami, supervisore BlackRock in qualità di responsabile globale del Gruppo di investitori finanziari e strategici (Fsig), dichiarava nell’occasione: «BlackRock è onorata di assistere il popolo ucraino fornendo consulenza al governo sul lancio del Fondo per lo sviluppo dell’Ucraina. La ricostruzione del paese creerà significative opportunità per gli investitori di partecipare alla ricostruzione dell’economia» 14.
I fondi vanno però garantiti. Kiev è costretta a farlo. Sul suo piatto della bilancia può mettere non solo ciò che verrà ricostruito (settore immobiliare, strutture e infrastrutture) ma anche la propria ricchezza naturale, la terra, anzi le terre nere, generose e fertili al punto di guadagnare all’Ucraina il titolo di granaio del mondo. In un pianeta sempre più popoloso e con bisogni alimentari in costante crescita le risorse primarie – grano, frumento e cereali in generale – rappresentano il bene di base più concupito. E infatti, «dieci dei più importanti fondi di investimento hanno già vinto la guerra e hanno approfittato dell’aumento dei prezzi alimentari generando profitti stimati in quasi 2 miliardi di dollari». La corsa alle materie prime da parte di numerosi gruppi finanziari è partita all’inizio della guerra. E si stima che 4 milioni di ettari di terreni agricoli, pari a 40 mila chilometri quadrati, siano già passati sotto il controllo delle società agroindustriali americane 15.
In questo immenso rimescolamento del peso economico nel macrocosmo ucraino resta incerto il ruolo degli oligarchi locali. Figure analoghe ma con sostanziali diversità rispetto ai più celebrati colleghi russi, gli ultraricchi che hanno condizionato i cicli politici e lo sviluppo economico ucraino degli ultimi trent’anni vivono una fase delicata. Secondo Forbes, dopo solo un anno di guerra i venti uomini più ricchi del paese avevano dimezzato il loro patrimonio complessivo, passato da 42,5 a 20 miliardi di dollari. Il perdente numero uno risultava Rinat Akhmetov, a capo del gruppo minerario e siderurgico Metinvest, con 9 miliardi in meno 16. Ma in fumo è andata buona parte delle ricchezze di personaggi come Ihor Kolomojs’kyj, fondatore di un impero bancario, petrolifero e mediatico, e dello stesso ex presidente Petro Porošenko, il re dell’industria dolciaria. Costui è solo l’ultimo oligarca, in ordine di tempo, ad aver rivestito ruoli istituzionali ai massimi livelli. Oligarca, nel settore dell’energia, è anche Julija Timošenko, l’egeria della rivoluzione arancione, per due volte primo ministro. E oligarchi di prima grandezza sono pure Valerij Khoroškovskyj, già capo dei servizi segreti, e Viktor Pinčuk, leader del partito Trudova Ukrajina e genero del due volte presidente Kučma. Entrambi attivi nel settore metallurgico e nei media.
Figure dominanti, spesso in conflitto tra loro, che hanno esercitato un potere trasversale nella storia dell’Ucraina indipendente. Se il motto degli ultranazionalisti continua a essere «una terra, un sangue, una lingua», quello degli oligarchi ha sempre avuto come stella polare il business. Senza disdegnare pesanti contributi alla lotta quando da politica si faceva militare. Come Kolomojs’kyj, finanziatore di Pravyj Sektor, lo zoccolo duro dell’estrema destra nazionalista, delle unità di mercenari stranieri che hanno combattuto fin dalla primavera del 2014 e dei battaglioni nazistoidi Azov, Aidar e Donbas.
Quasi tutti gli oligarchi provengono dal Donbas, dove le industrie minerarie e siderurgiche concentrano buona parte della ricchezza del paese. E quasi tutti hanno usato milizie paramilitari private per difendere i privilegi che nel corso dei lustri avevano assunto le caratteristiche di veri monopoli. Gruppi pesantemente armati che affiancavano, se necessario, gli uomini fidati fatti eleggere al parlamento ucraino, per condizionare i governi.
6. Con la guerra tutto è cambiato. Forse. Con l’invasione russa i padroni del vapore si sono schierati a sostegno di Zelens’kyj. Compreso Porošenko, oppositore della prima ora, sconfitto alle elezioni del 2019 e accusato a gennaio 2022 di alto tradimento per l’organizzazione di forniture illegali di carbone, acquistato nelle aree controllate dai ribelli filorussi del Donbas. Ma con le distruzioni delle industrie e degli impianti, a cominciare dall’Azovstal’ di Mariupol’, controllata da Akhmetov, si è fatta sempre più aggressiva la campagna di Zelens’kyj contro la corruzione. Richiesta dagli alleati occidentali, Unione Europea in testa, e condotta in maniera esemplare quanto spregiudicata nei confronti dei «poteri forti». A fare le spese del nuovo corso sono stati anche pesi massimi come Kolomojs’kyj, arrestato con l’accusa di frode e riciclaggio, che pure aveva sostenuto Zelens’kyj quando era ancora attore televisivo nella battaglia elettorale contro Porošenko. Evoluzione inimmaginabile fino allo scoppio della guerra. Con la legge marziale, la messa al bando dei partiti di opposizione, la concentrazione di tutta l’informazione in un unico canale controllato dal governo, sono venuti a mancare gli strumenti su cui gli oligarchi hanno sempre potuto contare per rimanere determinanti, quale che fosse il colore politico vincente a Kiev.
Un successo per Zelens’kyj, non senza ombre. La concentrazione di poteri nelle mani di un presidente che sta perdendo consensi tra la popolazione rischia di portare alla ribalta nuovi oligarchi, quelli che adesso stanno traendo profitto dalla guerra attraverso la ridistribuzione di asset preziosi. Con la vecchia guardia degli ultraricchi intenzionata a rialzare la testa non appena Zelens’kyj dovrà ripresentarsi di fronte agli elettori.
Mentre all’orizzonte si intravedono i segni di una volontà di negoziato da parte di Kiev, alle prese con pesanti perdite militari e civili per la prima volta ammesse dallo stesso Zelens’kyj 17 – che il 25 giugno ha destituito dopo soli quattro mesi il generale Jurij Sodol’, comandante delle truppe schierate nell’Est 18 – è a Washington e ai suoi tormenti preelettorali che si guarda per capire tempi e modi di un cessate il fuoco. La linea rossa tra le strutture militari russe e americane è stata utilizzata con frequenza crescente nelle ultime settimane, sintomo di inquietudine ma anche di concertazione tra superpotenze non intenzionate a farsi trascinare nell’irreparabile.
Pragmatismo che contrasta con il caos disorganizzato regnante nelle cancellerie europee. L’Europa, che da un conflitto ai suoi confini oggettivamente evitabile ha ottenuto soltanto penalizzazioni geopolitiche, economiche e strategiche che si ripercuoteranno anche sulla prossima generazione, riesce nello spettacolo di un balbettio urlato. Dove statisti, di ruolo e raramente di statura, sembrano ancora alle prese con il wargame che li ha travolti. Impressionati, impauriti e poi quasi sedotti dalla postura che gli eventi altrove deflagrati hanno finito per imporre.
Note:
1. L’Europeo, 18/5/1990, pp. 76-77.
2. «Ukraine Emergency», Unhcr, 2024.
3. «Updated Ukraine Recovery and Reconstruction Needs Assessment Released», Banca mondiale, 15/2/2024.
4. «Ukraine needs $3 bln in financial aid per month in 2024, Kyiv says», Reuters, 28/2/2024.
5. S. Grazioli, «Ucraina, le sfide tra guerra e divisioni interne», Rsi, 12/6/2024.
6. Ibidem.
7. L. Jakes, «U.S. Military Aid to Ukraine Was Poorly Tracked, Pentagon Report Says», The New York Times, 11/1/2024.
8. «Press Release: Special Inspector General Report to the U.S. Congress on Operation Atlantic Resolve, Fiscal Year 2024, Quarter Two», Department of Defense-Office of Inspector General, 16/5/2024.
9. Decisione del Consiglio del 2 dicembre 2019 a sostegno degli sforzi dell’Ucraina volti a combattere il traffico illecito di armi, munizioni ed esplosivi, in cooperazione con l’Osce.
10. F. Semprini, «Ecco come parte delle armi destinate alla guerra in Ucraina possono finire in mano alla criminalità», La Stampa, 6/6/2022.
11. «Proposta di risoluzione del Parlamento europeo sul traffico di armi a vantaggio, tra l’altro, di gruppi terroristici», Parlamento europeo, 30/1/2023.
12. K. Levantovscaia, «Aiding Ukraine is a strategic investment, not charity», Atlantic Coucil, 4/4/2024.
13. Ibidem.
14. «President holds meeting with world’s largest investment company on creation of fund for rebuilding Ukraine», president.gov.ua, 5/5/2023.
15. M. Nava, «Ukraine, Wall Street Awaits Gold Deals», Pluralia, 29/12/2023.
16. C. Méheut, «The War Has Reined In Ukraine’s Oligarchs, at Least for Now», The New York Times, 15/1/2024.
17. K. Denisova, «Zelensky: “Ukraine doesn’t want war to last for years”, looking ahead to 2nd peace summit», The Kyiv Independent, 27/6/2024.
18. A. Strashkulych, O. Kyrylenko, «Changes in Ukraine’s military top brass: who was fired and why, and what we can expect from their successors», Ukrainska Pravda, 26/6/2024.