di Fausto Anderlini
«Compagno Ovidio Franchi, compagno Afro Tondelli,
e voi Marino Serri, Reverberi e Farioli
dovremo tutti quanti aver d’ora in avanti
Voialtri al nostro fianco per non sentirci soli»
Il padre della mia prima, bellissima e sfortunatissima, fidanzata ufficiale (Tenerini Riccardo) era un maestro e veniva da Gubbio dove era stato un comandante partigiano. Socializzato alla politica da Aldo Capitini era poi diventato un funzionario del Pci e si era unito in matrimonio con la reggiana Nive Veroni, anch’essa funzionaria. Ginevra fu il frutto del loro matrimonio e nel Luglio ’60 la Nive la teneva per mano mentre fuggiva da quella piazza maledetta dove sparavano ad alzo zero. Poi si erano separati. La Ginevra rimase a Correggio con la madre, che da allora menò una vita da suora laica, e la nonna, una venditrice ambulante come se ne trovano solo nella bassa reggiana fra i canneti che facevano da rifugio a Ligabue. Il Tenerini invece si accompagnò a una formosa compagna della Cgil e migrò a Genova. Uscì dal partito dopo il ’56 e fece poi vita da cane sciolto sino a ripresentarsi in Umbria, nel ’72, come candidato nelle liste del Manifesto. Naturalmente senza essere eletto. Nella sua casa di Genova, vicino a Boccadasse, dove mi capitò di soggiornare varie volte d’estate, teneva una libreria dove i classici del marxismo erano frammisti a rari volumi di storia delle religioni. Sempre mi stuzzicava sul ‘tradimento’ del Pci e mi celebrava il pensiero di Capitini e il misticismo sociale della sua Gubbio. Ma io, allora come adesso, non inclinavo al pacifismo. Tutti e tre, Riccardo, la Nive e infine la Ginevra sono scomparsi. Per circa quaranta anni di Ginevra ho avuto notizie sporadiche e remote sino ad apprendere quasi per caso, un anno fa, della sua avvenuta dipartita.
E certo che fa impressione vedere la terra dove albergarono i movimenti ereticali studiati da Gioacchino Volpe e divenuta parte costituiva della grande Etruria rossa plebiscitare la masnada fascio-leghista. Dopo avere consegnato la difesa della propria eredità, per ironia della sorte, al capo degli albergatori locali con simpatie di destra.
Quando e perché è morta la subcultura rossa? Almeno dalla metà dei ’90 era entrata in una crisi profonda. Ma l’inerzia della fiducia verticale, le innovazioni politiche (come l’invenzione del centro-sinistra) e l’esistenza di una classe amministrante attrezzata avevano permesso di prolungarne il suo ciclo politico e territoriale per un altro ventennio. Sino allo schianto del 2018, susseguente all’ultima ferale ritrasformazione: quella del veltro-renzismo. Comunque vent’anni dopo la fine della subcultura gemella ad essa competitiva: quella bianca. Radici profonde, ma destinate comunque al deperimento.
Quanto alle ritrasformazioni ho scritto su di esse varie cose e ogni volta che ci penso sempre mi si presentano nuove ipotesi di lettura. Come capita quando oggetto e soggetto dell’analisi sono fusi nella stessa persona. Qui mi viene questo pensiero. Che se anche talune ritrasformazioni si sono rivelate devastanti, ogni tesi basata sul ‘tradimento’, la ‘decadenza’ o anche solo l’inadeguatezza delle classi dirigenti è penosamente restrittiva. Le masse di votanti umbre si son sentite certamente tradite nelle loro aspettative ma non certo perché corrispondenti al telos della originaria sub-cultura territoriale. Se il cambio di campo è stato possibile è perché in quelle masse la sub-cultura era già morta. Anzi, letteralmente sconosciuta. Masse già tratte dal loro milieu storico e conquistate dalle seducenti sirene del neo-liberismo per poi riversare a destra la ferocia conseguente alla disillusione. Quando Santomassimo (studioso che stimo) pensa che le masse si vendichino della mancata rappresentanza della sub-cultura rossa si sbaglia di grosso. Se così fosse, infatti, avrebbero scelto diversamente. Se non il Pd un qualche credibile surrogato di sinistra.
La subcultura si era costituita in un lungo processo storico, partendo dal fondamento agrario per poi strutturarsi politicamente nel grande ciclo della trasformazione agrario-industriale. In Umbria l’originaria base sociale è stato il mondo della mezzadria e a seguire la classe operaia e il lavoro autonomo d’estrazione rurale. Un processo sociale che si è esaurito negli ottanta lasciando il campo a una struttura sociale iperframmentata e culturalmente piatta, senza più il cemento della trasmissione ereditaria. A quel punto la narrazione si è interrotta, sopravvivendo al massimo come orpello retorico.
La subcultura era innervata in un sistema materiale di relazioni: partiti, sindacati, associazioni, case del popolo, sezioni e reti istituzionali locali. Dove le persone vivevano a contatto fisico trasmettendosi idee, informazioni e sentimenti. Una società ‘narrativa’, secondo la definizione di Lyotard. Ultima figurazione laica della società agro-letteraria quale indagata da Gellner. Quando Putnam e Nanetti vengono da queste parti scoprono che questo tipo di infrastruttura sociale spiega il miglior rendimento istituzionale delle regioni ‘rosse’. E la pongono in relazione con la lunga durata dell’Italia comunale e delle sue trazioni civiche. Da qui elaborano la categoria del ‘capitale sociale’. E’ questo ‘capitale’ che è andato distrutto.
In una delle mie ultime incursioni nella bassa finii a Galliera dove il compagno Beppe Chiarillo si era intestardito, riuscendoci, a far rivivere la gloriosa casa del popolo di San Venanzio. Edificata in origine come il ritrovo di una popolazione di braccianti. In quel dibattito inaugurale celebrai l’improbabile eroismo dell’impresa giacchè, argomentai, la nuova casa del popolo che andava configurandosi era quella dei social. Qualcosa di totalmente diverso. In effetti quella casa del popolo è poi stata nuovamente alienata e Galliera, come altri comuni della gloriosa ‘bassa’ comunista è stata conquistata dai barbari.
Il capitale circolante e volatile dei social ha stroncato e sostituito il ‘capitale sociale’ fisso. Un mondo piatto dove le masse atomizzate e rimbecillite sono unificate ed eteroguidate dalle fakes dove si mescolano ovvietà e rutilanza. Chi ha saputo occupare la nuova casa (stalla) del popolo e metterla a suo servizio ha vinto. Anche se è certo che di lì a breve un nuovo locatario scaccerà il vecchio. Di male in peggio.