di Alfredo Morganti – 1 febraio 2019
Oggi Roberto Esposito su ‘Repubblica’ constata come i risultati del voto dei circoli PD certifichi “la stessa spaccatura che si voleva superare”. Se ne meraviglia persino. Ma cosa si aspettava da un congresso che non è un congresso (e che nemmeno lo Statuto definisce tale), ma una variopinta esibizione di candidati dove il dibattito è nullo e la personalizzazione è tutto? Solo la discussione politica è in grado di affrontare i nodi e scioglierli almeno parzialmente. Quando invece si antepone la persona alle idee e ai programmi, è ovvio che a questi non si arriverà mai, e comunque mai potrà avviarsi un confronto vero di idee, di programmi, di scelte, di soluzioni alla ricerca di unità. La natura del PD è quella di verticalizzare tutto, nella più totale vertigine organizzativa. Non c’è una volta che si scelga la discussione invece dell’opzione personale. Nemmeno al congresso. Che sarà mai la discussione, una forma di politicismo? E che succede quando ci si sofferma su ciò che unisce, piuttosto che esaltare ciò che divide: si anela forse al comunismo? Cosa vedono nella possibilità di aprire una confronto leale di opinioni: una rinascita della ‘ditta’ forse, una rifioritura della ‘bocciofila’ (quella che aveva il 25%, invece del 17%, diciamo)?
Più andiamo avanti e più vediamo come il PD abbia una tara di fondo, quella, sì, costituente il suo DNA. È l’idea che la persona venga prima delle idee, il Capo prima del partito, i media prima delle discussioni, le primarie aperte prima della voce degli iscritti, il leader prima del corpo del partito, la battuta prima dell’approfondimento, il tifo prima del senso di appartenenza, il cerchio magico prima della comunità, lo spettacolo prima della politica, la rottamazione prima delle persone, la Leopolda prima (invece) del Congresso, la flessibilità caotica al posto di una struttura democratica. A proposito, poi, di flessibilità e di leggerezza, questo partito che vorrebbe apparire antiburocratico, aperto, quasi-società civile, si presenta alla fine di una rigidità unica. Che è quella che sottolineava Esposito all’inizio, per cui sembra non avere mai una evoluzione effettiva. Ma che è pure quella di fare le primarie (e dunque agevolare gli scontri personali) invece di promuovere la discussione politica; di mostrare i muscoli invece di tentare la mediazione; di sostituire alla politica i faccioni dei candidati, verticalizzando e irrigidendo i rapporti interni. La particolare capacità della politica stessa di aprire (e regolare!) i conflitti e quindi di amalgamare, è sacrificata come sulle gradinate dello stadio. La fazioni personali, legittimate dallo Statuto, imperversano al posto del consesso e della discussione. La rottamazione ne è la diretta conseguenza. Fa parte dello Statuto stesso, in pratica.
Ripropongo il dilemma: vista la rigidità dell’organismo, mascherata dietro un’apparente sinuosità, val la pena perderci ancora tempo? Lo dico con tutto il rispetto verso i militanti. Val la pena sperare che la discussione politica si rimetta in moto, quando il contesto organizzativo è quello di un contenitore mollusco, dove chi lancia un Opa oppure fa banco (puntando magari la posta altrui) prende tutto? Ma non è chiaro ormai da tempo che non ne vale più la pena? Quante energie positive, quanti compagni che stimo sono ancora impigliati in quella rete, quanto valore, quanta passione ed entusiasmo si sprecano dietro gli spot dei renziani e dietro uno stile politico che non ci appartiene. Quanto dobbiamo aspettare affinché si ricomponga almeno in parte la comunità che in questi decenni si è pian piano disgregata?
E che cosa deve accadere ancora, dopo Salvini al governo, per indurre la sinistra a ritrovarsi? Magari dentro un partito reale, stavolta, e non un contenitore che fa scegliere ai passanti il proprio segretario, nella totale mancanza di rispetto verso gli iscritti. Un partito plurale, che costruisca l’unità politica delle tante sinistre che solcano il Paese, oggi tutte minoritarie. Un partito che non azzanna le minoranze, ma che sia comunità senza indurre i perdenti ad andarsene urlando ‘fuori fuori’ nelle assemblee. Un partito come non ce ne sono più, ma non per questo non potrebbero ancora esserci. Moderno, ma non mediatico. Un partito dove il pensiero c’è. Con una maggioranza e una minoranza, ma tutti assieme, nel rispetto reciproco. Un partito che sia casa, non un tenda che si pianta dove capita e dove conviene. Un partito che il congresso lo fa davvero, vi impegna le coscienze, e non perde mesi a dividersi dietro questo o quello, votando sotto il comando di un caporione. Un partito, insomma, non uno strano involucro che non sai nemmeno cosa contiene. E se ci appartiene.