Una riflessione sul libro di Luciano Gallino: “Il colpo di stato di banche e governi”

per Gian Franco Ferraris

da www.labour.it  12 maggio 2014    di Felice Roberto PizzutiProfessore di Politica economica presso l’Università La Sapienza di Roma. Candidato per la lista “L’altra Europa con TSIPRAS” nella Circoscrizione Centro.

copertina libro gallino le banche

Il prof. Gallino, nel suo ultimo libro[1] offre una ricostruzione molto argomentata della grande crisi globale, con particolare riferimento alla situazione europea. Lo fa offrendo una ricca serie di informazioni e dati e, non da ultimo, accompagna le sue analisi con proposte su cosa occorrerebbe fare per provare a superare la grave situazione nella quale si trovano i paesi sviluppati, l’Europa e, in particolare, il nostro paese. Un pregio particolare del libro è che le analisi e le proposte, pur toccando temi molto complessi, sono descritte in modo estremamente chiaro, appassionato e accessibile ai non addetti ai lavori. Chiarisco subito che condivido per molti aspetti l’interpretazione della crisi e delle motivazioni che l’hanno determinata cosi come vengono descritte nel libro di Gallino.

Argomentazioni simili le ho sostenute fin dall’inizio della crisi[2]; ma l’interesse suscitato dal libro di Gallino è la sistematicità della sua analisi e il suo punto d’arrivo costituito dal suo titolo niente affatto scontato.

La lettura del libro evidenzia con chiarezza le motivazioni della crisi, al punto che sorge spontaneo chiedersi perché le politiche dominanti che continuano ad essere praticate per superarla siano ancora interne alla stessa visione che l’ha generata. La sensazione è che ci sia una ostinazione a non voler vedere quanto è evidente.

Immagino sia anche per questo motivo che Gallino, dopo aver descritto per otto capitoli la crisi, i suoi effetti e le politiche messe in campo per superarle, nel nono capitolo richiama non solo i concetti di alienazione enunciati da Marx e Marcuse, di razionalità dall’Eclisse della ragione di Horkheimer, di egemonia da Gramsci e di governamentalità da Foucault; ma fa riferimento anche alla psicanalisi e a Freud e, in particolare, alle  istanze fondamentali della psiche e all’evoluzione nella spiegazione dell’apparato istintuale degli individui che sarebbe anch’esso influenzato dalla cultura e dal modo di produzione dominante.

Tutti questi riferimenti servono a sostenere che una dimensione importante della grande crisi globale in atto abbia a che fare con la radicalizzazione nel corso del Novecento della concezione ideologica dell’Homo oeconomicus: una concezione che progressivamente è andata informando non solo le decisioni economiche, ma quelle riguardanti qualsiasi aspetto della vita umana, con ciò ignorando del tutto altre possibili forme di razionalità a cominciare dalla razionalità oggettiva di Horkheimer.

Questi richiami extra economici proposti da Gallino sono funzionali per una interpretazione della crisi che va oltre le sue spiegazioni immediatamente economiche – che pure sono abbondantemente proposte – e per rappresentarla “come un gigantesco e (almeno finora) riuscito esperimento di controllo sociale globale per mezzo del mercato”.

I tratti essenziali della spiegazione economica della crisi possono essere riassunti nel modo che segue: la crisi non ha niente di naturale, come pure qualche interpretazione ha tentato di accreditare; alle sue radici strutturali c’è l’accresciuto rischio  di carenza di domanda insito nel nuovo processo d’accumulazione e l’affermarsi del processo di stagnazione; il processo d’accumulazione fu avviato negli anni Settanta del secolo scorso quando la visione neoliberista soppiantò quella keynesiana che aveva accompagnato il trentennio della golden age; questo cambiamento storico passò attraverso un’altra crisi molto istruttiva, quella della stagflazione che consistette, in primo luogo, in elevati fenomeni inflazionistici che davano conto di una sostenuta lotta redistributiva e di potere tra le imprese dei paesi sviluppati, da un lato e, dall’altro, i loro lavoratori e i produttori di materie prime; allo stesso tempo ci fu la stagnazione che non fu originata da problemi di sovrapproduzione, ma dal calo degli investimenti causato sia dalla compressione dei margini di profitto dovuti all’aumento dei salari e delle materie prime, sia dai mutati rapporti di forza economici e politici che gli alti livelli di occupazione avevano contribuito a generare a vantaggio dei lavoratori nei luoghi di lavoro e nella società.

Io credo che la stagflazione fu la dimensione economica di una risposta politica più complessiva ai mutamenti economici, politici e sociali che erano maturati nella golden age e che alla fine degli anni ’60 avevano spinto ad ulteriori cambiamenti nella stessa direzione.

Naturalmente la stagnazione implicava una riduzione della massa dei profitti, ma era anche un investimento complessivo finalizzato alla riconquista di maggiori margini di potere economico e politico.

I nuovi equilibri neoliberisti, fondati sulla riduzione del costo del lavoro e della dinamica della spesa pubblica, accentuavano il fenomeno della carenza di domanda rispetto alla capacità produttiva che, peraltro, aumentava anche a seguito dell’incessante sviluppo tecnologico e del conseguente aumento della produttività.

Qui diventa particolarmente importante la capacità della finanziarizzazione dell’economia di generare profitti sostitutivi rispetto al rallentamento della domanda da salari e da spesa pubblica e a questo punto ritorniamo alla ricostruzione dei passaggi della crisi riproposta da Gallino.

Anche per superare la stagnazione, i governi e le istituzioni economiche favoriscono il processo di finanziarizzazione dell’economia con il quale si cerca di sopperire alle difficoltà dell’economia reale. Queste difficoltà sono alimentate in particolare dai forti processi di redistribuzione del reddito e di affievolimento del ruolo pubblico che condizionano negativamente le possibilità della domanda effettiva di equilibrare l’offerta potenziale.

Dal cosiddetto “complesso militare-industriale” cui si faceva riferimento negli anni Cinquanta come elemento di supporto al processo di accumulazione, si passa al “complesso politico-finanziario”.

Un ruolo fondamentale nella crisi, secondo Gallino, è giocato dalla esplosiva funzione progressivamente assunta dalle banche nella creazione di moneta. Da essa nasce “il colpo di stato” poiché le banche si sostituiscono sempre più agli stati nel compito che a loro istituzionalmente appartiene, in quanto rappresentanti della collettività, cioè quello di creare moneta.

Tuttavia, il nuovo assetto finanziario- produttivo si basa su equilibri molto instabili i quali, dopo diverse crisi parziali, nel 2007-2008 si rompono definitivamente innescando la crisi globale, la quale viene gestita dagli stessi che l’hanno provocata attraverso interventi onerosissimi, decisi dai governi a favore delle banche e a carico dei bilanci pubblici.

In tal modo, dalla crisi finanziaria – che a tutt’oggi non vede risolte le sue motivazioni di fondo – si passa alla crisi dei debiti sovrani che viene curata accollandone gli oneri alle stesse figure sociali che avevano già pagato i costi della finanziarizzazione: cioè i fruitori di salari medio bassi che avevano già visto ridurre i loro redditi e la stessa possibilità di occupazione, che adesso vedono ridursi anche le prestazioni sociali e aumentare il prelievo fiscale.

Questo passaggio della crisi è un punto centrale, giustamente sottolineato da Gallino che scrive: “la trasformazione o, per essere più precisi, il camuffamento della crisi bancaria come crisi propria del debito pubblico nella UE è stata definita la più riuscita campagna di relazioni pubbliche mai realizzata. In realtà, è stata molto di più. Si è trattato di uno straordinario successo delle classi egemoni sulle classi egemonizzate, conclusosi nel convincere gran parte di queste ultime che essendo corresponsabili delle due fasi della crisi, toccava a loro sopportare anche i costi della seconda fase, sotto la sferza delle politiche di austerità, dopo avere già pagato i costi della prima”.

Subito dopo Gallino prosegue: “A questo proposito va aggiunto che i governi non avrebbero avuto il successo che hanno avuto in detta operazione, qualora la crisi stessa non fosse stata da essi utilizzata come forma di governo, e se le loro azioni non avessero goduto dei nefasti principi e della legittimazione parateologica forniti dalle dottrine neoliberali.

A questo punto si capisce meglio l’interpretazione di Gallino di un colpo di stato e di attacco alla democrazia in Europa e il motivo che lo ha spinto a presentarlo come titolo al suo libro.

Il colpo di stato, oltre che nell’espropriazione da parte del settore bancario nella funzione di creare moneta, si delinea anche nella capacità del settore bancario di indurre i politici a scaricare gli oneri della crisi da esso suscitata, sulle popolazioni già gravate dalla riduzione dei redditi, dalla disoccupazione e dalla riduzione delle prestazioni sociali.

Ma c’è anche un altro aspetto da sottolineare. In Europa i Trattati comunitari sono improntati alla cosiddetta austerità che, in realtà, è funzionale alla gestione liberista della crisi la quale approfondisce la politica redistributiva a danno dei salari, perseguita da un trentennio.

Questi Trattati maturano nella tecnocrazia comunitaria e si presentano come non eludibili dai governi nazionali che, tuttavia, li accettano, accreditandone in qualche misura la democraticità.

In Italia le indicazioni comunitarie vengono accettate dai nostri governi con particolare convinzione, andando anche oltre il dovuto, come accade con l’inserimento del vincolo di bilancio in pareggio, inserito addirittura nella Costituzione.

Tuttavia, il punto su cui Gallino giustamente richiama l’attenzione è che queste scelte dei governi vengono in qualche misura accettate dagli elettori; e altre decisioni di grande rilievo vengono accettate anche se con effetti meno immediatamente avvertibili. Ad esempio, si accetta che in nome dell’autonomia delle banche centrali dai governi, la BCE non possa concedere prestiti agli stati i cui bilanci sono stati fortemente gravati dal loro sostegno dato alle banche; ma la BCE invece concede prestiti alle banche – che pure sono all’origine del disastro finanziario – al bassissimo tasso dell’1% e le banche utilizzano questi prestiti non per finanziare l’economia – come sarebbe loro compito, ma per puntellare i loro bilanci e per acquistare titoli di stato che, in Italia, rendevano all’epoca  il 6-7%.

Come giustamente Gallino fa notare, se il nostro debito fosse remunerato all’1% anziché all’attuale 4%, basterebbe un esborso per il bilancio pubblico di circa 20 mld anziché di circa 80.

Dunque, una istituzione della collettività – come è la banca centrale – presta alle banche private colpevoli del dissesto finanziario all’1%, costringendo gli stati a finanziarsi da queste anche al 6-7% e a praticare politiche cosiddette di austerità a carico dei cittadini meno abbienti.

Sono questi alcuni degli altri elementi che inducono Gallino a parlare di qualcosa “che nell’insieme assomiglia da vicino a un colpo di stato”. Ma più ancora dell’applicabilità di questo termine, a me pare interessante la domanda su come sia possibile che i cittadini abbiano sostanzialmente accettato questi fatti e il ruolo avuto dei politici da loro eletti.

Questa domanda riporta al discorso iniziale sullo straordinario successo di egemonia che impedisce di vedere una realtà macroscopica paragonabile a quella di un re nudo.

Il processo egemonico si avvale naturalmente delle teorie e della capacità di farle diventare senso comune. Gallino sottolinea come la teoria economica dominante abbia molto contribuito a questo processo, e non v’è dubbio che sia così.  Se oggi è “difficile uscire dalle idee vecchie”, come temeva Keynes, non è solo per gli interessi materiali che esse difendono, ma è anche perché a partire dagli anni 70 molti giovani economisti sono andati a formarsi nelle università americane e oggi dirigono con quelle convinzioni i centri decisionali.

Per quanto riguarda il ruolo della teoria economica dominante, io vorrei sottolineare in particolare il ruolo analitico e ideologico delle aspettative adattive e poi di quelle razionali che, stringendo i collegamenti tra passato, presente e futuro ed estremizzando la figura dell’Homo oeconomicus, hanno derubricato l’incertezza a rischio probabilisticamente prevedibile, ristabilendo la presunta armonia dell’economia capitalistica, fino al punto di giustificare che si possa parlare di fine della storia poiché essa è prevedibile: liberismo per sempre.

Tra gli aspetti specifici di questo successo egemonico, c’è l’accettazione dell’aumento delle diseguaglianze e del taglio delle spese sociali, che è uno dei canali della redistribuzione del reddito in corso.[3]

In Italia da anni nel settore previdenziale si pratica un’altra campagna mistificatoria che induce a credere nell’esistenza di un’anomalia della nostra spesa e del peso eccessivo che esso avrebbe sui nostri conti. Negli ultimi decenni, l’obiettivo di fondo macroeconomico perseguito dalle politiche previdenziali è stato quello di contenere il rapporto tra la spesa previdenziale e il PIL. Questo obiettivo era in realtà giustificato dalla necessità di recuperare il controllo della spesa che prima degli anni ‘90 era stata gravata sia da usi impropri, sia da finalità di consenso elettorale. Tuttavia, già le riforme del 1992 e del 1995 si erano dimostrate sufficienti a stabilizzare il rapporto tra la spesa pensionistica e il PIL che, peraltro, ha sempre sofferto di valutazioni comparative disomogenee e strumentali.

In ogni caso, già nel 1996 – e poi ininterrottamente dal 1998 – il saldo tra le entrate contributive e le spese pensionistiche previdenziali al netto delle ritenute fiscali è diventato positivo, con valori che hanno superato anche i due punti percentuali di PIL. Nell’ultimo anno disponibile il 2011, il saldo attivo è stato di 24 miliardi.

I successivi interventi nel settore previdenziale – uno ogni meno di due anni fino a quello del 2011, hanno sempre perseguito l’obiettivo di rastrellare ulteriori risorse dal sistema previdenziale a sostegno del bilancio pubblico.

Queste politiche previdenziali s’inseriscono in una visione economica, politica e sociale tuttora in auge secondo cui ridurre la pensione media rispetto al reddito medio e alzare l’età di pensionamento, favorirebbe la crescita del PIL e aumenterebbe l’equità a vantaggio delle giovani generazioni. In effetti, queste politiche hanno accentuato la tendenza già in atto di ridurre la pensione media rispetto al PIL pro capite, ma ciò non ha affatto migliorato la crescita, al contrario, queste politiche hanno contribuito a peggiorare la crescita e non ha migliorato affatto la situazione delle giovani generazioni.

In particolare, in una situazione di disoccupazione accentuata molto più di quanto le statistiche dicano, il forte e rapido aumento dell’età pensionabile tende a ridurre il turn over, ad incrementare la disoccupazione giovanile, ad elevare l’età media e il costo della forza lavoro, a ridurre la capacità innovativa e la produttività e ad ampliare la fascia di popolazione in età matura che ha perso il lavoro ed è più lontana dalla pensione, cioè a creare il prevedibilissimo fenomeno dei cosiddetti esodati.

Parallelamente al contenimento della copertura pensionistica del sistema pubblico, un altro  obiettivo che ha guidato le politiche previdenziali dei due passati decenni è stato di puntare sullo sviluppo della previdenza privata a capitalizzazione, da molti intesa come sostitutiva e non aggiuntiva del sistema pubblico.

A questo riguardo va notato che già prima della crisi globale, l’instabilità dei mercati finanziari aveva evidenziato il limite strutturale dei fondi privati a capitalizzazione inducendoli a passare, in tutto il mondo, dal metodo delle «prestazioni definite» a quello della «contribuzione definita» che scarica sui pensionati l’accresciuta incertezza dei mercati.

Ma la crisi ha ulteriormente accentuato quel limite e la stessa Banca Mondiale che molto aveva spinto per lo sviluppo dei fondi privati a capitalizzazione ha dovuto rivedere le sue posizioni.

Si aggiunga che in paesi come l’Italia – che ha mercati finanziari ristretti e una bassa propensione delle imprese a quotarsi in Borsa – i fondi pensione sottraggono risparmio alle nostre imprese e lo trasferiscono all’estero dove finanziano i sistemi produttivi a noi concorrenti.

Dei capitali gestiti dai nostri fondi, circa il 70% viene investito in titoli stranieri e solo lo 0,8% è impiegato in titoli azionari di imprese nazionali.

Dunque, anche questa è una storia che si basa su dati e informazioni oggettive che, in termini di razionalità dovrebbe dar luogo a politiche ben diverse da quelle attuate; ma esse invece persistono senza che si riesca a cambiarle.

Sembra di essere in un film di Bunuel o in un’opera di Pirandello, e una conferma viene da come stiamo costruendo l’Europa: essa è in primo luogo un’istituzione, ma per crearla si sta adottando una visione – quella neoliberista – che considera le istituzioni un intralcio ai mercati.

Forse non c’è da stupirsi che emerga qualche contraddizione come quelle che il libro di Gallino ha cosi ben evidenziato, e non c’è da stupirsi, aggiungo io, che in Europa, pur essendo meno radicate che negli USA le motivazioni strutturali della crisi, questa si sta esprimendo con maggior virulenza.

Quanto al che fare, a chi fa il nostro mestiere non rimane che insistere, insistere, insistere, argomentando ciò che è razionale o che più si approssima alla razionalità, oppure potremmo cercare di portare nella politica qualche briciolo di razionalità in più, sostituendolo magari a qualche opportunismo.


[1] Luciano Gallino, Il colpo di stato di banche e governi. L’attacco alla democrazia in Europa. Einaudi, 2013.

[2] Vedi ad esempio: Lo Stato Sociale nella grande crisi del 2008, in Quale Stato, n. 3-4, 2008. La crisi attuale: il ruolo dell’incertezza, delle diseguaglianze distributive e del la teoria economica” in  Rapporto sullo stato sociale. Anno 2010. La “grande crisi del 2008” e lo stato sociale, Academia Universa Press, Milano, 2009.

 [3] Pr un’analisi più dettagliata, oltre  al già citato Rapporto sullo stato sociale del 2010, rimando ad altri miei lavori quali: Crisi globale e welfare state, in Economia e Lavoro, Anno XLIV, n. 1, gennaio/aprile 2010. Questione giovanile, crisi globale e politiche sociali”, in La Rivista delle Politiche Sociali, n. 3, luglio-settembre 2011. Il Rapporto sullo stato sociale 2013. “Crisi, istituzioni, beni comuni e welfare state”, Edizioni Simone, Napoli, 2013.

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