Dove va la scuola italiana

per Gian Franco Ferraris
Autore originale del testo: Franco Cardini
Fonte: Minima cardiniana

di Franco Cardini – 12 novembre 2017

Ci sono molti problemi che, dal momento che ormai siamo in clima elettorale, dovrebbero esser messi a fuoco da chi si appersta a scegliere come indirizzare il suo voto. Cominciamo con alcune riflessioni sulla scuola italiana, che debbo all’amico e collega professor Gianni Vacchelli, valente dantista ma anche  attento osservatore dei problemi  di oggi.

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Tempi difficili per istruzione e scuola pubblica

La scuola pubblica vive un periodo complesso e altamente problematico. Anzi, parafrasando il grande Charles Dickens, che nel suo romanzo Hard Times (1854) fece una violenta e attualissima critica dell’utilitarismo in educazione, siamo veramente in “tempi difficili”. Eppure tutto sembra avvenire in un quasi assordante silenzio, e con ben poche, isolate, contestazioni. La riforma della Buona Scuola – di cui il 7 aprile sono stati approvati otto decreti legislativi – è la punta e l’apice di un processo pluridecennale (almeno a partire dalla Riforma Berlinguer), che rischia di svuotare sempre più di senso la pratica educativa e che mette in pericolo i fondamenti stessi della scuola pubblica. Certo la scuola pubblica va ripensata e riformata, ma non destrutturata e sottoposta ad un processo aziendalizzante, di cui va smascherata la natura ideologica, di marca economicistica ed efficientista.Le attuali politiche dell’istruzione rientrano dentro la «crisi mondiale dell’istruzione» (Nussbaum, Giroux, Amoroso). Si tratta insomma di collocare in una “cornice” più ampia quello che sta succedendo in Italia e che è già successo altrove (per es. negli USA). Come denuncia la filosofa americana M. Nussbaum, nel suo libro Non per profitto. Perché le democrazie hanno bisogno della cultura umanistica: «sono in corso radicali cambiamenti riguardo a ciò che le società democratiche insegnano ai loro giovani, e su tali cambiamenti non si riflette abbastanza. Le nazioni sono sempre più attratte dall’idea del profitto; esse e i loro sistemi scolastici stanno accantonando, in maniera del tutto scriteriata, quei saperi che sono indispensabili a mantenere viva la democrazia».

Non bisogna poi dimenticare che la parola “riforma” è un termine tecnico tipico della neolingua del pensiero neoliberista vigente, che significa invece “destrutturazione”, ridimensionamento in base al dominante pensiero-potere unico. Per capire dunque la “questione-scuola” oggi è necessario tenere conto del contesto più generale di crisi antropologica e di “finanzcapitalismo” assolutizzato nel quale stiamo vivendo.

Ecco allora che abbiamo sì bisogno di trasformare la scuola, di ripensarla radicalmente, ma in modo diametralmente opposto all’appiattimento che sta avvenendo oggi. Bisogna invece aprire varchi di pensiero critico e dare ad esso sempre più spazio nella pratica didattica, come nell’impianto generale della scuola stessa. Non è certo un caso che la dimensione critica sia pressoché assente nei documenti della Buona Scuola, a cominciare dall’inquietante Piano per la formazione triennale degli insegnanti*. È quanto mai necessario dunque “rimettere al centro” la questione della scuola. Come? In tre modi almeno: a) parlandone e molto, in una informazione consapevole che spieghi in modo critico i processi in corso; b) ricostituendo un fronte comune di insegnanti, studenti, genitori (e società civile tutta); e, soprattutto, c) riprendendo una lotta cosciente e resistente in difesa della scuola, per una sua trasformazione reale e creativa.

Gianni Vacchelli

Ecco la vera riforma: la scuola come tempo liberato!

 Come uscire dalla crisi? Così, alla domanda, rispose Confucio: «Dobbiamo ridare alle parole il loro significato originario». Mai più saggio consiglio.

E quindi, mentre imperversa, nella quasi totale indifferenza, la riforma della Buona Scuola, fuori dalle trappole dell’odierna neolingua, chiamiamola per quello che nella sua sostanza é: una Cattiva Aziendalizzazione della stessa. Ma soprattutto affidiamoci alla saggezza dell’etimologia, ovvero allo studio, al discorso (logìa) dell’intimo significato (ètymon). E proviamo ad interpellare la parola scuola.

Essa viene dal latino schola, a sua volta derivante dal greco antico scholḗ.

Ebbene il significato intimo è “tempo libero, liberato”. E allora, con facile associazione di idee, subito pensiamo a “libertà”, “tempo per noi”, “piacere”.

Sembra quasi un paradosso: scuola = tempo liberato, libertà, piacere, tempo per me?

Non stiamo giocando con le parole. È questo l’intimo significato. Tuttavia scuola per noi e per i nostri giovani è tutt’altro: “dovere”, “obbligo”, “sacrificio”, “fatica”. Se chiedessimo agli studenti stessi “andrebbero giù più duro”, tra il serio e il faceto: galera, prigione, croce…

Nessun giovanilismo facile: per crescere l’impegno è necessario, occorre darsi con tutto se stessi, ogni autentico cammino comporta prove e passaggi anche difficili. Eppure è l’etimo della parola che colpisce: sembra quasi che scuola sia divenuta l’opposto del suo intimo significato. Una vera e propria inversione.

Chi conosce bene la scuola (specie dall’interno, come chi scrive) vede spesso un inquietante fenomeno: il desiderio dei bambini di imparare conoscere sapere ben presto si spegne. È un impulso quasi travolgente nei piccoli. Eppure, già dopo qualche anno, il quadro è diverso. I libri sono lontani, il piacere di leggere sconosciuto, e, soprattutto, il desiderio conoscitivo dell’infanzia assopito. Non si tratta di generalizzare né di addossare tutta la colpa alla scuola (sono in gioco i genitori, la società stessa e pure la libertà dello studente), ma qui è di scuola che parliamo.

E di studiare. Anche qui il latino non mente: studere è “cercare”, “desiderare”, “aspirare a”. Che grande parola, quanta forza in lei, che apertura di orizzonti! Non angustia, ma energia viene dal “vero” studiare.

E la nostra scuola? Eccola: essa dovrebbe infondere “piacere” – sì, proprio lui, non “dovere”; il dovere nasce quasi spontaneamente se amo ciò che faccio; divento responsabile perché gusto la bellezza -, dovrebbe dare una nozione diversa di “tempo”, liberato appunto, che non significa esente da impegni, privo di energia, quanto piuttosto intenso, ricco, carico di significato. E invece ci porta il contrario. Tutto si allontana dalla vita, si chiude, implode.

Allora sì, c’è bisogno di una riforma della scuola, ma totalmente diversa, che parta dalla ricerca profonda delle cause, che investa sulla ricerca stessa (e non che l’affossi per meri motivi amministrativi), che miri alla trasformazione profonda, all’“essere” di chi vive la scuola (insegnanti, studenti, istituzione, famiglie, società tutta). È una grande rivoluzione, un cambio di modello, che richiede passione, intelligenza, gusto della verità, e vera coscienza dello studere e del “tempo libero”. Non demagogia e semplicismo.

Senza amore profondo per la scuola, non c’è trasformazione possibile e non c’è futuro del paese e dei nostri giovani.

L’oggi è tristemente e brutalmente lontano da questa prospettiva. Ma resistere, lottare e proporre nella teoria e nella prassi quotidiana, per quello che è possibile, una “scuola liberante” è fondamentale per tornare a sperare e a desiderare un mondo diverso e migliore.

Gianni Vacchelli

La deriva neoliberista a scuola

Come il neoliberismo oggi influisce sull’istruzione e sulla scuola?

Si tratta di uno dei temi più importanti e generalmente meno affrontati oggi, almeno dall’informazione e dalla cultura mainstream.

Eppure è una delle urgenze decisive, per uscire dall’asfissia del pensiero unico economicistico che il trionfante neoliberismo impone e che va a destrutturare e stritolare la scuola pubblica. E su questi dinamismi assai pericolosi e purtroppo molto aggressivi e antidemocratici dedicheremo qui alcuni articoli.

Naturalmente i problemi della scuola italiana sono numerosi e di antica data. Servono riflessioni storiche serie e articolate. I mali della scuola vengono da lontano e le derive neoliberiste non spiegano tutto.

Non c’è dubbio però che la longa manus neoliberista agisca da tempo e da lontano. Basterebbe osservare che di fatto l’impianto teorico della autoproclamatasi Buona Scuola è all’insegna di una aziendalizzazione tutta american way of life e di una “pedagogia vuota” (bare pedagogy), fatta di skills, test standardizzati, ossessione della quantificazione e della misurabilità, tecnocrazia etc., di marca appunto neoliberista.

Henry Giroux, intellettuale americano-canadese e padre della pedagogia critica, ha dedicato numerosi e lucidi libri a quella che lui chiama la neoliberist war against high school. Faremo spesso riferimento al suo lavoro, perché da una parte è in sé molto interessante (la specola di Giroux sono appunto gli Stati Uniti e il mondo anglosassone, dove questi processi hanno preso inizio e sono ancora più virulenti), dall’altra perché è poco conosciuto in Italia, se non agli addetti ai lavori: non sarà forse un caso, ma di fatto è tradotto solo il suo Educazione e crisi dei valori pubblici (Brescia, 2014).

La situazione descritta da Giroux è inquietante, e purtroppo molto calzante con il nostro presente e con un futuro sempre più prossimo. Colpisce intanto il generalizzato “disprezzo per la fatica della ricerca teorica”, più banalmente potremmo dire il disprezzo per il lavoro intellettuale e per il pensiero critico. Naturalmente l’ideale girouxiano è alto, ma anche quanto mai necessario e auspicabile: che l’insegnante non sia un burocrate dell’istituzione, o un mero esecutore di programmi che contano per altro sempre meno, ma un intellettuale che studia, ricerca (nella didattica e non), educa e che sia dotato di una passione civile, politica (lato sensu) e critica. La prospettiva dello studioso è utopistica, dove, sia chiaro, all’aggettivo va data connotazione positiva: l’utopia è il sogno di un miglioramento e di una prassi che cambi l’esistente, non una fumisteria accademica o astratta. Il fatto stesso che la parola utopia sia da difendere e spiegare, mostra come la deriva economicistica ci abbia contaminato: solo l’idea di superare un sistema malato, violento e terminale ci pare un sogno impossibile, non una umana aspirazione e una necessità di prassi storica.

Ecco allora uno dei passi concreti di una reale riforma della scuola: ridare dignità culturale, civile, politica, e, naturalmente, economica alla figura dell’insegnante, che certo va anche formato a questa nobile prospettiva, ma non umiliato e bistrattato.

Cosa è al centro realmente: l’educazione, la cultura, l’amore per i giovani e per la loro crescita intellettuale, interiore e non solo professionale, o un processo capitalistico-tecnocratico che asfissia e destituisce?

La domanda, va da sé, è retorica.

Gianni Vacchelli

La deriva neoliberista a scuola (2)

La società odierna a traino neoliberista è riuscita a colonizzare il nostro anima e la nostra mente. Nessun sistema precedente, pur desiderandolo, è arrivato a tanto. Non è più la nostra soltanto una società disciplinare (Foucault), biopolitica, panottica, capace di controllare i nostri corpi, ma piuttosto psicopolitica (Han), a colonizzazione cellulare e neuronale, potremmo dire.

Ne consegue spesso che l’oppresso oggi non solo non è pienamente cosciente di esserlo, ma ha introiettato, come certa psicologia del profondo e Paulo Freire ci insegnano, le categorie dell’oppressore. La servitù diventa volontaria, (e certo di servo arbitrio). Insomma l’io neoliberista si insinua dentro di noi, volenti o nolenti. Essendo per lo più inconsapevoli e nel sonno, la colonizzazione è facile, a lama nel burro. Ma anche i più muniti non sono indenni dal contagio.

Forse è anche per questo che la maggior parte della società civile (a partire dagli insegnanti, e poi, a discendere, gli studenti, i genitori, gli educatori etc etc.) per lo più subiscono passivamente il processo aziendalizzante e destrutturante della scuola pubblica. Lo stesso cattivo ossimoro scuola-azienda non fa sobbalzare chi lo ascolta, preoccupato, inquieto e magari indignato. Anzi spesso appare bello, efficace: la tirannia dell’utilitarismo, dell’efficientismo, della calculation of life, del profitto, del mercato del lavoro, dell’impresa (poco importa se simulata o meno) sono così viralmente penetrati nelle nostre sinapsi, che sì, perché no?, valgono un “like”. Il nostro finanzcapitalsimo neoliberista è tra le altre cose un capitalismo del like. Piacevole, positivo, auto-ottimizzante, come ancora ci ricorda il filosofo coreano Han. In esso magnificamente siamo sfruttati e sfruttatori (non fosse di noi stessi). Guai però a introdurre il Gran Rifiuto, la potenza del negativo (Hegel). Guai cioè a dire: “no!”. Guai a dire no all’aziendalizzazione, all’economicismo, al pensiero computazionale. Il sistema morbido e onnipervadente non tollera nessun no radicale. Ma i “no” sono così radi, e la saturazione così costante, che il sistema prospera, pur se rovinosamente. Anche conquistare la lingua e farne una neolingua è una vittoria che pianta il vessillo del sistema nel nostro cranio: crediti debiti educativi o formativi profitto (ancora!) risorse capitale umano etc. etc. Del tutto funzionali alla neolingua poi i brutti acronimi: RAV, POF; PTOF, CLIL etc. Abituandoci a questo riduzionismo delle parole, che sono simboli e non segni, la lingua collassa. Marcuse a suo tempo colse al solito in modo assai lucido la questione.

Ulteriormente inquietante poi il fatto che l’aziendalizzazione della scuola, fallimentare in tanta istruzione anglossassone specie americana, appaia di fatto forse persino una perfidia “antiquaria”: il destino oggi è deciso non nelle aziende, ma nella borsa. Il Capitale non solo è post-industriale, post-aziendale, ma appunto transnazionale, finanziarizzato e virtualizzato. La scuola-azienda è così antiquata in partenza, oltre criticabile in sé. L’istanza educativa, critica, estetica (la politica della bellezza, direbbe Hillman) sono di fatto completamente bandite. Il sistema neoliberale è una dittatura morbida (almeno alla luce del sole): non ti mette al rogo, ma ti banna.

È il caso di dirlo, allora: Risvegliamoci! Up patriots to brains!

Gianni Vacchelli

Perché la scuola è sempre più al servizio del mercato? Un po’ di storia… (prima parte)

Buona Scuola (cioè: Cattiva Aziendalizzazione della stessa), preside-dominus, erosione effettiva e/o simbolica dei contenuti, dei valori disciplinari e della “fatica del concetto” (Hegel), pensiero computazionale, svuotamento di potere degli organi collegiali, enfasi sull’alternanza scuola-lavoro (e il diritto allo studio?), decurtazione (in fieri) di un anno del percorso formativo liceale, tagli continui ai fondi d’istituto e all’istruzione tutta, contributi volontari (ma sottilmente coatti) dei genitori, spirale tecnocratica sempre più opprimente, processi privatizzanti del pubblico etc etc. Potremmo continuare: si tratta di una sistematica decostruzione–distruzione dell’istruzione pubblica, che andrebbe sì profondamente riformata, ma non deformata o demolita. Il problema è che per lo più non riusciamo a vedere come questi provvedimenti (e tanti altri già prima) rispondano ad una logica comune: cioè ad una economicizzazione neoliberista della scuola pubblica (e del mondo tutto). Del resto per il neoliberismo “lo scambio di mercato è un’etica in sé, capace di fungere da guida di tutte le azioni umane e di sostituire tutte le convinzioni etiche coltivate in precedenza” (Treanor) Si tratta quindi di una reductio ad mercaturam aggressiva e onnipervadente. Di facciata un nuovo monoteismo, nella sostanza un nichilismo ora morbido ora terribilmente acido. Tutto questo ha una storia. Non a caso Magaret Thatcher, in una intervista al Sunday Times del 1981, dichiarava: “Economics are the method; the object is to change the heart and soul”. Ecco una sintesi ad effetto del progetto neoliberista: “L’economia è il metodo; l’oggetto è cambiare il cuore e l’anima”. Come ricordavamo già negli articoli precedenti, il dominio oggi è anche psicopolitico, neuronale, cellulare, animico. Ma ancora, per l’antropologo e geografo David Harvey, “il biennio tra il 1978 e il 1980 è un punto di svolta rivoluzionario della storia sociale ed economica del mondo”: nel 1978 Teng Hsiao-ping trasforma la Cina in un ircocervo capitalista; nel ’79 è eletta appunto Margaret Thatcher in Gran Bretagna e nell’80 è la volta di Ronald Reagan presidente degli Stati Uniti. Del resto il neoliberismo trionfa già a partire da tutti gli anni ’70 nelle teorie e nelle pratiche di politica economica. Chi scrive non crede nella “fiaba”, pur se sostenuta da numerosi interpreti, di un capitalismo buono, poi pervertitosi. Il capitalismo nasce, come si dice in Sud America per lunga e vessante esperienza, “senza cuore”. Un predatore è un predatore e non lo diventa. Non c’è dubbio però che la versione neoliberista sia, del capitalismo, la declinazione più brutale, più antropologicamente povera e tristemente sintetica.

Fare un po’ di storia – e questi sono solo piccoli cenni, naturalmente, dato lo spazio ridotto a disposizione – è uno dei modi per comprendere e resistere. Le politiche economiche di questi decenni hanno anche sistematicamente lavorato per produrre e diffondere un’“amnesia totale” (Giroux). Se la scuola diventa sempre più a traino del “ragion di mercatura” non è allora un caso, una necessità, e men che meno una evoluzione o una riforma che punti al miglioramento (della scuola e, figurarsi, delle coscienze). Dobbiamo diventare consapevoli che anche i nostri cervelli e i nostri cuori sono invasi e colonizzati. La liberazione deve essere dentro e fuori, interiore e politica. Non l’una senza l’altra. Pena il fallimento della liberazione stessa.

Gianni Vacchelli

Perché la scuola è sempre più al servizio del mercato? Un po’ di storia… (seconda parte)

Continuiamo la nostra disamina critica sulla destrutturazione neoliberista della scuola pubblica, ricordando però, ancora una volta, che il dominio economicista cui siamo sottoposti è molto più esteso e capillare: le terre da predare sono quelle del mondo intero e della nostra anima. Il globalitarismo (altro che globalizzazione!) è esteriore ed interiore. Lo slogan thacheriano è la fulminea e triste sintesi del programma. “L’economia è il metodo. L’oggetto è cambiare il cuore e l’anima”. Se stanno così le cose, l’avamposto-scuola pubblica è essenziale per la colonizzazione dell’anima e della mente.

Ma zoomiamo sull’Europa, dove l’Unione Europea altro non è che una emanazione di questa teologia nichilista neoliberista. Il progetto, con buona pace di chi ancora non se ne sia accorto, è chiaramente antidemocratico. Da chi è stata eletta la famigerata troyka – la BCE, la Commissione Europea e il FMI, chiamati dal compianto economista Bruno Amoroso icasticamente “Figli di troyka” in un suo omonimo e recente libro? Quale precedente giuridico, nella sofferta ma anche gloriosa storia del diritto occidentale, può annoverare il caso di una banca centrale (di 25 rappresentati non eletti) politicamente indipendente da ogni altra autorità e in grado di decidere le sorti di un subcontinente intero? Cosa aspettiamo a prendere coscienza di queste contraddizioni radicali e letali?

E come aspettarsi che la politica dell’istruzione dell’Unione Europea non segua la deriva economicistica? Analizziamo qualche dichiarazione ufficiale, prendendo spunto dal prezioso libello di Alex Zanotelli, Che cosa ti è successo Europa?, EMI 2017. Nel 1999 i ministri europei della Pubblica Istruzione firmarono la Dichiarazione di Bologna, che prevedeva, tra l’altro, «l’adozione di un sistema di titoli di semplice leggibilità e comparabilità […] al fine di favorire l’employability [la dotazione personale di competenze utili per trovare occupazione] dei cittadini europei e la competitività del sistema europeo dell’istruzione superiore». Si legga bene la burocratica neolingua, che, tradotta, significa: la scuola, l’università sono al servizio del mercato. Il Vertice di Lisbona (2000) completa l’economicizzazione mercatistica del processo: l’obiettivo è, naturalmente, la crescita economica. E l’avversario da battere la più flessibile e ancora più neoliberista economia americana. L’Ue, secondo le direttive di Lisbona, doveva diventare così «l’economia della conoscenza più competitiva e più dinamica del mondo». L’economicismo pervade tutto: per questo il capitalismo della conoscenza e dell’informazione sono indispensabili al dominio psicopolitico del neoliberismo. E per questo i sistemi europei di educazione e formazione dovevano essere trasformati. E infatti il trattato di Lisbona ancora recita: «I sistemi europei devono essere adeguati alle esigenze della società dei saperi [capitalistici, psicopolitici e competitivi]». Le conseguenze sono chiarissime, anche se noi ancora sembriamo non volerle vedere: la scuola è di fatto «funzionale al sistema economico-finanziario dell’Unione Europea» (Zanotelli). E al suo pensiero unico economicista.

Gianni Vacchelli

Americanizziamo la scuola? No grazie!

Abbiamo visto, negli articoli precedenti, come «l’economia delle conoscenze» della UE fosse la risposta, negli anni Novanta, all’economia americana, più flessibile e competitiva. Si trattava di superarla. Ma di fatto, di diventare tutti, europei e americani, sempre più neoliberisti. Così l’impatto sui sistemi di formazione e istruzione dalle scuole medie all’università è stato sempre più forte. Per il pedagogista austriaco Ludwig A. Pongratz, «la politica della formazione è diventata da allora un elemento stabile della politica di occupazione e dell’economia. Essa serve in prima linea alla crescita economica, alla competitività e alla mobilità». Detta in parole povere: ad asservire l’istruzione e la scuola alle ragioni del Capitale.

Ciò che sta avvenendo, con somiglianze e differenze in Europa, e in particolare in Italia, è di fatto una inquietante americanizzazione economicistica dell’istruzione. Ancora una volta il filosofo e pedagogista canadese-americano Henry Giroux, che ha studiato attentamente la deriva neoliberista della scuola americana, ci sarà buon Virgilio. Questo processo devastante negli Stati Uniti avviene almeno a partire dagli anni Ottanta. Così scrive Giroux: «Le scuole pubbliche vengono sempre più considerate come aziende, apprezzate in base alla “soddisfazione del cliente” e alla loro efficienza, e, allo stesso tempo, giudicate generalmente attraverso gli stretti obiettivi delle misure di valore empirico»*. Se non sono aziende e investimenti a profitto, le scuole pubbliche vengono ridotte a centri di contenimento – holding progettate per punire i giovani emarginati per razza o per ceto sociale. I giovani poveri – continua Giroux –, bianchi, mulatti o neri che siano, vengono cacciati dalla scuola e riversati in un canale diretto “scuola-prigione” (school-to-prison pipeline). Le scuole appaiono ormai come centri di studio per persone privilegiate e zone di abbandono per i poveri. Continua poi la politica di umiliazione degli insegnanti, come nuovi “re del welfare”, mentre in accademia è più importante essere “un imprenditore della nuova economia delle conoscenze”, che un intellettuale e uno studioso critico. Nel frattempo i fondi all’istruzione pubblica vengono continuamente tagliati e ridotti, e la scuola trasformata in una “fabbrica di credenziali” esemplata sui valori, le relazioni sociali e le pratiche governative delle grandi imprese. Una miserevole metafisica domina sempre più l’istruzione pubblica superiore ed universitaria: ciò che non è quantificabile, non ha valore. E così, testualmente, ha sostenuto sul NightlyNews della NBC anche il magnate americano Bill Gates, il quale da anni, guarda caso, con altri magnati ultramiliardari, versa milioni e milioni di dollari per una campagna di discredito dell’istruzione pubblica, degli insegnanti, dei loro sindacatie a favore della business culture. L’ossessione della misurabilità e della quantificazione, sempre più presente nelle nostre scuole, risponde propri a questi requisiti. La pedagogia d’impresa non ama il pensiero critico, i soggetti autonomi, né vuole potenziare la creatività o la responsabilità civica e politica tra gli studenti. Il “paesaggio” descritto da Giroux sembra da una parte distopico, quasi venisse da Orwell o Huxley, dall’altra ha già fortissime rispondenze nella nostra realtà scolastica. Ma è un futuro vicinissimo, prossimo, presente.

Americanizzare la scuola? No grazie!

(continua)

* Giroux, Educazione e crisi dei valori pubblici, La Scuola, Brescia 2012, pp. 13-14.

 
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