America contro Europa : la sindrome dell’ombrello fantasma

per Gian Franco Ferraris
Fonte: Editoriale - Limes

America contro Europa : la sindrome dell’ombrello fantasma

1. E se il Nemico da cui difenderci fosse l’America? O peggiola coppia russo-americana? Washington e Mosca: ganasce d’una tenaglia destinata a scardinarci? Pensieri proibiti percorrono i corridoi delle cancellerie europee e atlantiche, financo la britannica. Sussurri in camere di carità che domani potrebbero esplodere in grida di piazze eccitate dal «tradimento» americano con scorta russa. Per scatenare sicure controrappresaglie a stelle e strisce. Mentre al Cremlino qualcuno stappa la sciampagna.

Viviamo l’inizio del finale di partita fra americani ed europei. Con i giocatori stravolti e innervositi, disposti a fallacci d’ostruzione. Mischie senza regole né arbitro. Si calciano palloni sgonfi con scarpe bucate. I campioni della seriosa Europa si scoprono senza squadra, assegnati a scombinate compagnie di vecchie glorie. Le tifoserie se ne promettono di tutti i colori o assistono sconcertate alla rissa. È il caso di noi italiani, addestrati a mirare al posto a tavola nei dîners placés fra Grandi, ridotti senza sedia per carenza di tavole. E di Grandi. Intanto, negli spogliatoi gialloblù i magazzinieri accumulano pile di maglie d’ogni colore affinché i giocatori dispongano di cambio casacca all’impronta. Partite e mercato coincidono in tempo reale. Fuori dello stadio, bancarelle improvvisate offrono a prezzi impossibili magliette Nato e Ue, alcune contraffatte. Attrazioni per collezionisti di mode dismesse.

Sugli spalti, occhi a mandorla scrutano la rissa con incuriosita soddisfazione. Mista a preoccupazione: forse è meglio che i nostri desideri non si avverino? Va bene dividere gli occidentali fra loro e dai russi. Non va affatto bene se impazziscono tutti. Magari costringendoci a una guerra che sconvolgerebbe il nostro piano di graduale ritorno al primato, senza troppe scosse né prove belliche nel mundus furiosus. Qui non sai più con o contro chi sei. Per cautela, dai manuali della Scuola di Partito sparisce il motto di Mao: «Grande è la confusione sotto il cielo, la situazione è eccellente».

Collegati da remoto, gli ascritti alla Maggioranza Mondiale – pregnante ridenominazione russa del Sud Globale – si domandano che ne sarà di loro. Il Supremo Nord finirà di regolare i suoi conti entro le proprie mura di cinta o li scaricherà su Caoslandia? Chissà che alla fine qualcuno del girone degli sfortunati si trovi promosso in prima divisione. O forse Caos si affermerà padrone del pianeta Terra?

2. Quanto sopra sarebbe potuto essere fino a ieri canovaccio di uno sceneggiato Netflix. Oggi parrebbe allegoria prossima alla realtà. Alba del tramonto dell’Occidente. Dunque della velleità di un eterno dominio americano vestito all’occidentale.

Eppure nel caos scopriamo tracce dell’ordine futuro. Una sobria fenomenologia stabilisce che le apparenze raramente ingannano. Per titoli, e con brevità provocatoria, proiettiamo in avanti quanto crediamo di intravvedere tra i lampi di Guerra Grande.

Sul piano strategico: America perde, Russia resiste, Cina guadagna. Ed europei affondano.

Gli americani hanno perso la deterrenza, cioè quasi tutto. Nessuno si fida di loro. I rivali provano a profittarne, mentre gli «alleati» sono costretti a riprogrammare in fretta i loro protocolli di sicurezza. Scesa non troppo indirettamente nel campo ucraino per logorare i russi senza rischiare di batterli Washington si è rovinata. Anche perché l’americano medio non sa nemmeno dove sia l’Ucraina (carta 1).

 

Carta di Laura Canali - 2025
Carta di Laura Canali – 2025 

 

I russi hanno rischiato l’osso del collo ma ora profittano del marasma americano. Il sostegno di Stati Uniti e atlantici all’Ucraina ha permesso a Putin di trasformare la spedizione punitiva contro Kiev in scontro Federazione Russa-Occidente, di cui al Cremlino ci si atteggia a vincitori. Ma la Russia perde sul fronte principale, contro il suo nemico storico, la Cina. Il prezzo della sfida all’America, contro cui non ha mai combattuto una guerra aperta, sarà alto.

I cinesi vedono spalancarsi praterie in Asia centrale già sovietica, Siberia e Artico, dove russi e americani saranno costretti a ritrovarsi per sbarrare a Pechino il controllo della rotta settentrionale. Intanto Xi sente Taiwan a portata di mano. Quanto a giapponesi, sudcoreani, indiani e altri effettivi o presunti partner asiatici degli Usa, sanno di doversi affidare a sé stessi.

Su scala occidentale: gli americani scaricano la sconfitta sugli europei. Ergo, ci scaricano.

Noi europei perdiamo la bussola ma non l’abitudine a rimuovere la realtà. La differenza con gli americani è che loro sanno di aver perso, sono quindi in rivoluzione per cambiar pelle e porre limiti all’impero. Noi ci alteriamo senza aver capito molto di loro, meno ancora di noi stessi. Agitati e passivi. Inerti. Tanto più quanto più gesticoliamo.

Infine, il terzo Occidente, ormai ex in senso identitario: Israele. Finito senza necessità in un tentativo prolungato di suicidio, che dura in quanto alternativa alla guerra civile già strisciante. La radice occidentale dello Stato ebraico è compromessa sotto essenziali profili: antropologico, culturale, istituzionale. Resiste il vincolo esistenziale con l’America. Ma Gerusalemme non dispone più di un assegno in bianco a Washington.

Unica tragica certezza: l’Ucraina ha straperso. Non solo Donbas e Crimea. Dissanguati e saccheggiati dai russi, ormai anche dagli americani impegnati a rapinarne i tesori minerari, gli ucraini scoprono con disgusto la differenza fra parole e fatti atlantici (carta 2). Kiev dipende dal sostegno del fu Occidente dilaniato, opportunista e ipocrita. Sicché rischia di perdere sé stessa.

 

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Carta di Laura Canali – 2025 

 

Come siamo arrivati fin qui?

3. Tre anni fa i primi segni del cambio di scena, quando nella sorpresa quasi generale Putin scatena l’invasione dell’Ucraina. Blitz, nelle intenzioni. Coperto da sotterranee quanto vaghe intese con gli americani. Non ci faremo una guerra mondiale per così poco, concordano nel novembre 2021 Putin e il capo della Cia William Burns, che nel febbraio 2008 da ambasciatore a Mosca aveva avvertito il dipartimento di Stato della totale indisponibilità dei russi di qualsiasi intonazione ad aprire alla Nato le porte dell’Ucraina. Nelle parole di Putin: «Nessun capo russo potrebbe assistere inerte in caso di avvicinamento dell’Ucraina alla Nato (…) Non lo sai che l’Ucraina non è nemmeno un paese vero? Una parte è in realtà est-europea, l’altra russa» 1. Nota bene: quanto Trump ripete a pappagallo (carte a colori 1 e 2). Il 19 gennaio 2022, mentre la Cia cerca casa per la famiglia Zelens’kyj in Galizia o in esilio, Biden assicura pubblicamente i russi che tollererà una loro «incursione minore» in Ucraina 2. Putin l’interpreta a suo modo.

 

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Carta di Laura Canali – 2025 

 

Il 24 febbraio osa l’«operazione militare speciale». Ma lo specialissimo fulmine che avrebbe dovuto imporre a Kiev un’affidabile testa di russo esce subito di traiettoria per insipienza logistico-militare. E finisce per schiantarsi non proprio metaforicamente contro la Santa Barbara entro cui europei e americani avevano stipato da decenni masse di munizioni inesplose: deposito di recriminazioni e rivalità impresentabili nel tutt’altro che omogeneo insieme occidentale. Da nascondere alla pubblica vista perché nessuno poteva né voleva disinnescarle. Intanto a Washington l’amministrazione Biden decide di sfruttare il fallimento del super-golpe russo per infliggere a Putin una sconfitta indimenticabile. Arma gli ucraini fino ai denti e li sostiene con risorse visibili e invisibili (forze speciali, intelligence, diplomazia segreta). 

 

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Carta di Laura Canali – 2025 

 

Il paradosso attuale è che mentre russi e americani, stracarichi di bombe atomiche perciò indisponibili a scontrarsi, tentano di spegnere l’incendio sulla pelle degli eroici ucraini, i paciosi «alleati» europei di Washington ne sono terrorizzati. Con grave ritardo si scoprono nudi e divisi davanti alla dismissione di fatto dell’Alleanza Atlantica per iniziativa del fondatore e santo patrono: l’America stessa, oggi di fronte all’urgenza di chiudere la partita con i russi in terra di Ucraina. Periferia per loro, terrasanta per il Cremlino, più o meno lontano vicino per i soci europei della Nato, fermi al precetto delle origini che voleva americani dentro, russi fuori e tedeschi sotto. In via di rovesciamento nel quasi opposto: americani fuori, russi alle porte (ma da Sebastopoli e dal Donbas, non a Berlino) tedeschi e altri europei in fuorigioco però abilitati a pagare di tasca propria il conto della «sicurezza» – si fa per dire. Assistiamo al tristo spettacolo di europei che minacciano di fare la guerra alla Russia in modo che gli ucraini continuino a farla per loro. A noi i princìpi, a voi, eroi di Kiev, difenderli con la vita. Diversi sensi del pudore.

La disgregazione della pletorica famiglia europea, che Tolstoj difficilmente avrebbe classificato felice, procede secondo canone. Il capo si sfila dalle troppe consorti maritate con rito atlantico. Quell’informe trentina non riuscirà a convincerlo di avere impalmato e assimilato un’unica moglie, in metafisica battezzata Europa. Per il prosaico americano trattavasi di fidanzamenti a diversa intensità. Bilateralismo pratico travestito da alleanza. Determinato dall’impossibilità di considerare Skopje, Podgorica, Tallinn o Riga alla stregua di Londra, Parigi, Berlino o Roma. Eppure fra gli europei c’è chi continua a evocare l’articolo 5 del trattato di Washington (1949) quasi fosse garanzia statunitense per tutti. Addirittura di scorporarlo una tantum dal sacro testo per omaggiarne l’Ucraina residua, illusa e abbandonata sulla via per Mons.

Gli americani possono piacere o spiacere, però non sono scemi. Noi europei si spera nemmeno. A volte pare ci piaccia sembrarlo. Solo che a forza di fingere rischiamo di credere alla nostra recita. Danno cento volte peggiore della rozza propaganda russa, che spesso non convince nemmeno chi la produce.

All’America decisa a disimpegnarsi all’americana, ossia con schietta brutalità, serve evitare di ammettere davanti al proprio pubblico e al mondo di aver fallito l’ennesimo scontro bellico – sia pure via sacrificabili ucraini – come ogni volta dal 1945 in avanti. Però solo dopo aver stabilito, se mai ve ne fosse stato bisogno, che la Russia non è l’Unione Sovietica. Né quella vera né la versione con steroidi che Washington ritenne utile sbandierare per tenerci insieme, noi che non chiedevamo di meglio. Guardandosi allo specchio oggi sono semmai alcuni americani a chiedersi se non assomiglino agli ultimi sovietici.

Malgrado lo sforzo di francesi, tedeschi, inglesi, polacchi e altri di convincerci che presto Putin inaugurerà a Parigi una statua equestre di Alessandro I più alta della Tour Eiffel, la Federazione Russa non corrisponde al profilo della nemesi che da sempre ossessiona gli apparati a stelle e strisce: l’impero capace di controllare l’Eurasia, trampolino per annientare l’America (sic). Come il mostro di Loch Ness, gli atlantici giurano che esista anche se nessuno ha mai provato d’averlo visto.

È fuori strada chi si illude di trovarsi di fronte a un colpo di testa dell’irregolare Trump. Il presidente è molto più regolare di quanto appaia a est di Mar-a-Lago. O se si preferisce considerarlo matto, lo è talmente da trattare Putin non da pazzo criminale, in stile europeo, ma da bandito matricolato, con cui stipulare un simpatico deal tra falsari. Se devi fingere di aver vinto una guerra persa, non ti resta che abbracciare il finto vincitore.

Stanca d’egemonia globale, questa America si sfoga con gli «alleati» nordatlantici, dal Canada agli europei. «Parassiti» secondo Donald Trump. «Odio salvare gli europei», echeggia J.D. Vance – molto più di un vice – soccorso dal capo del Pentagono, Pete Hegseth: «Condivido totalmente il tuo disprezzo per gli scrocconi europei» 3.

Inutile girarci intorno: l’Alleanza Atlantica non esiste più. Peggio, ne resiste lo scheletro. Vuoto d’anima, stracarico di armati e armamenti non si sa a quale scopo deputati. Come spesso fra chi non si ama più o si è sempre detestato senza darlo a vedere, il vincolo formale può durare a tempo indeterminato. Sogni diversi nello stesso letto. Come sempre quando un dio fallisce, a sconvolgersi sono soprattutto coloro che ne avevano assimilato la fede di puro cuore. Nel caso, gli ultradevoti eravamo noi italiani. Oggi ci crediamo furbi perché teniamo i piedi in tutte le staffe mentre i cavalli dressati al passo atlantico scalpitano imbizzarriti in opposte direzioni. Gli anti-atlantici di ieri gioiscono perché senza scartare di un millimetro si scoprono titolari di doppia assicurazione sulla vita quali «alleati» di russi e americani. Financo dei cinesi, se qualche grado di distensione si estenderà alla sfida sino-statunitense.

Non che americani, russi e cinesi abbiano scoperto di volersi bene. Tutti, più o meno malconci, hanno però bisogno di evitare una guerra mondiale cui nessuno sopravvivrebbe. Serve pausa lunga, mitigando la competizione e abbassando l’accompagnamento canoro di un paio di ottave. Per ascoltarsi. E provare a capirsi. Poi nemici come prima?

4. Dobbiamo riconoscere un merito agli amici americani – se accettano li si possa ancora appellare così. Ci costringono a rimettere i piedi per terra. A guardare le cose quali sono, non come vorremmo fossero. Se il collasso transatlantico si consuma in tempi stretti è perché troppo a lungo compresso lo iato fra retorica e realtà diventa intenibile. Possiamo raccontarci storielle lenitive per un po’, non balle a tempo indefinito. Se poi alla narrazione di copertura si affeziona l’iperpotenza stessa e affastella nel suo magazzino materiale propagandistico facilmente infiammabile al contatto con le correnti del reale, l’esplosione sarà apocalittica. Il cambio di regime in corso negli Stati Uniti comporta il cambio di regime su scala mondiale. Obbliga alla verità. Anche se molti rifiutano persino di confessarsela.

 L’amministrazione Trump, a suo sguaiato modo, ci sta provando per sacro egoismo. Così informandoci che la «massima potenza militare del mondo» – virgolette a questo punto inevitabili – non è in grado di sostenere una guerra vera contro una potenza grande, figuriamoci due. Per ragioni materiali: disastro dell’industria militare, con enormi falle nella produzione di missili, navi, munizioni (manca la polvere da sparo…). Ma sta peggio lo spirito pubblico (grafico 1).

 

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Avventuroso gettarsi in un conflitto con la nazione spaccata e intristita, mentre il Pentagono stenta a reclutare giovani abili, indipendenti dalla droga (grafico 2). Sintetizza il sottosegretario alla Difesa Elbridge A. Colby, testimoniando al Senato: «C’è il rischio vero di una grande guerra e noi non possiamo permetterci di perderla». Per specificare, evoca il «Lippmann gap», l’insostenibile distanza tra ciò che vuoi e ciò che puoi: «Se ti chiamano il bluff è la catastrofe. E io ho la sensazione – scusatemi se mi emoziono un poco – che siamo sull’orlo del precipizio (…) di una grande guerra, Dio non voglia, con la Cina stessa, per deduzione estesa su più fronti. E noi non siamo in grado di affrontarla» (carta a colori 3) 4.

 

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Carta di Laura Canali – 2025 

 

Ridotta in sintesi, la dinamica dell’esplosione americana e della correlativa implosione atlantica si condensa in quattro passaggi.

Primo. Gli Stati Uniti scoprono che l’egemonia globale – novum nella storia universale – eccede le loro risorse.

Secondo. Trump stabilisce che la rinuncia all’egemonia mondiale è precondizione del rinnovato primato americano. Il «pazzoide di Queens» svela una vena para-strategica, anche se il caos tattico nella sua eterogenea amministrazione potrebbe sterilizzarla. Obiettivo, riconfermarsi Numero Uno via competizione serrata ma pacifica con la Cina, cui va sottratta la preda russa. Grande Componenda Usa-Cina-Russia 5. Modello inevitabilmente romano: il triumvirato Ottaviano Augusto-Marco Antonio-Marco Emilio Lepido (43-33 a.C.). Con statunitensi e cinesi a disputarsi il rango di primi fra i finti pari e i russi lepidianamente terzi ma soddisfatti. Nell’illusione di emulare Jalta, loro mito di riferimento (foto 1 e 2). Quanto a noi europei, resteremmo attori più o meno rilevanti al traino della suprema triga. Nella speranza che a reincarnare Augusto resti l’America. E la Maggioranza Mondiale? Continuate così, nostri bravi! 

 

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Terzo. Nello spirito Maga noi europei non siamo né mai saremo amici. Eppure restiamo quantità marginale capace di alterare in misura rilevante i pesi della bilancia a tre piatti. Utili a Washington se convertiti da profittatori in risorse spendibili nel cambio di regime mondiale che restaurerà la grandezza dell’America. Problematici o addirittura avversari se coltivassimo ambizioni superiori e scarrellassimo verso la concorrenza cinese o russa (carta a colori 4).

 

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Carta di Laura Canali – 2025 

 

Quarto. Dopo il suicidio collettivo degli imperi europei nel XX secolo, il XXI non promette di generare un coprotagonista veterocontinentale abilitato a guardare negli occhi americani, cinesi, perfino russi. L’Europa è marchio scaduto.

Di qui la sentenza di Vance per cui la sicurezza degli Stati europei è minata dalle loro ipocrisie, non da nemici esterni. Russi e americani gareggiano per dividerci e usarci a man salva. Per i primi siamo servi sciocchi dei secondi, per i quali l’essenziale è che non ci si offra ai cinesi. In tal contesto, il velleitario «riarmo» degli europei non servirebbe quindi a respingere i nuovi cosacchi o mongoli mentre contribuiamo a risanare il bilancio americano, ma a spararci addosso.

5. Dopo cinque secoli di conflitti intraeuropei per l’egemonia mondiale la protezione americana ci ha evitato per ottant’anni di riprendere l’abitudine a regolare con le armi i nostri conti. Nulla ci assicura che lasciati a noi stessi saremo in grado di risparmiarci un altro girone degli orrori. L’ultimo.

Per le nazioni europee dotate di una certa idea di sé è allarme rosso. Il terrore che dopo aver semidistrutto l’Ucraina Mosca e Washington apparecchino un cessate-il-fuoco spacciabile per pace sulla testa e a spese degli europei spiega il patetico bellicismo di Berlino, Varsavia e Parigi. Con Roma fra due sedie e gli altri fuori gioco. In questo giro di giostra sostenere la resistenza ucraina serve a scongiurare l’intesa russo-americana. Meglio una guerra giusta che una pace ingiusta. Fermo che a combatterla siano gli ucraini.

Assistiamo al crollo di Antieuropa, l’Impero europeo dell’America (Iea) fondato nel 1945 e consolidato nella Nato (carta 3). Per Washington quella risorsa è virata in problema. Ma gli Stati Uniti non pensano di ritirare gli oltre centomila soldati schierati nel Vecchio Continente, meno ancora rinunciare a dozzine di basi, installazioni, centrali di intelligence. Qualche taglio è possibile, non però in stile Musk. Almeno finché gli apparati di Washington vorranno difendere i propri interessi.

 

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Carta di Laura Canali – 2025 

 

Stabilire la nuova carta geopolitica d’Europa a rivoluzione in corso sarebbe peccato d’arroganza. Ma confondere la speranza che qualcosa inceppi lo schiacciasassi trumpista con la fiducia nel ripristino dell’Occidente d’antan è utopia. Quello schema è esaurito da tempo. Il trio Trump-Vance-Musk ha sancito la fine del globalismo missionario che i fatti hanno dimostrato irrealistico.

 

 

Tra gli ideologi che oggi occupano postazioni di comando spiccano i portabandiera del californismo. Ibrido di controcultura hippie anni Sessanta – opposta al principio del governare in genere e alle procedure democratiche in specie – autoritarismo razzista e turbocapitalismo drogato dalle tecnologie digitali. E dalla ketamina, che ti consente di vivere tante super-vite contemporaneamente. Per goderne in questa appassionante vigilia di apocalisse.

Musk e gli altri eroi del tecnocapitalismo cresciuti nell’altermondo di Silicon Valley non hanno nulla di occidentale, figuriamoci di europeo. Non sono nemmeno troppo americani, in attesa di trasferirsi su migliori pianeti. Al meglio, boeri in trance da marijuana. Niente a che vedere con J.D. Vance, terragna incarnazione del paese profondo. Americano vero. I due filoni del trumpismo giocati l’un contro l’altro dall’aspirante dittatore che vorrebbero presto pensionare concordano con lui: fra Nuovo e Vecchio Mondo esiste una cesura antropologica. Per ragioni eguali e contrarie sulla nostra sponda molti ne convengono. Acuti anticipatori del post festum rincarano: gli americani sono europei scappati di casa. Letteralmente. Come no? Perché ci abbiamo messo quattrocento anni per stabilirlo, questo è il dilemma. Tanto più che di sangue europeo Oltreoceano ne circola sempre meno.

La fine dell’Occidente è mentalmente acquisita su entrambe le sponde dello Iea. Tempi e modi delle ricadute materiali restano da verificare.

La transizione dell’America da fuoriclasse a Numero Uno inter non pares è retromarcia senza retrovisore. Se ti esibisci in tanto salto nel buio, vuol dire che ti senti prossimo alla fine. Coraggio della disperazione. Le reazioni degli europei mostrano più incoscienza che altro. Tempo di provare a recuperare il senso delle nostre posizioni, comunque divaricate. Come sono messe le famiglie atlantiche? Quattro osservazioni affidate alla confutazione del lettore.

La prima è che l’inversione del rapporto fra Stati Uniti e Russia da cari nemici a partner contro l’Europa sconvolge i neoatlantici del Nord-Est che scoprono scaduta l’assicurazione sulla vita contratta con Washington. Caso limite: se avessero saputo che l’Alleanza Atlantica è quella che pare sciogliersi al sole delle accidentate retrouvailles russo-americane gli ucraini avrebbero fatto carte false per entrarci? Quanto alle avanguardie antirusse che dalla Scandinavia scarrellano verso il Mar Nero, con Polonia perno sub-imperiale e baltici novelli arditi (o la vittoria o tutti accoppati), il loro iperamericanismo strumentale, che non ha mai commosso Washington, non fa più senso. Genera anzi sindromi depressive alternate a fughe in avanti. La revoca del diritto di voto nelle elezioni locali a russi e bielorussi che abitano l’Estonia segue la truffa ai danni di un candidato presidente romeno, ineleggibile perché in odore di putinismo. Da cui l’ex commissario europeo Thierry Breton ha tratto spunto, rivelando la profonda sfiducia francese nel vicino d’oltre Reno, per avvertire che se le elezioni tedesche fossero vinte un giorno dall’AfD andrebbero ripetute fino a ottenere il risultato corretto. Riflesso culminato nella decisione della magistratura parigina di impedire a Marine Le Pen, condannata per manipolazione di fondi europei, di candidarsi nel 2027 all’Eliseo. Squalifica politica per via legale dietro cui non solo i suoi intravvedono la mano del più profondo fra gli Stati profondi occidentali.

La seconda è che i britannici orripilati dai bifolchi al timone delle former colonies stanno seriamente valutando se dichiararsene indipendenti. Nei club della City si alza la voce contro i parvenus attendati a Washington. Clima simile fra i colossi dell’Anglosfera, quali il Canada da Trump minacciato di annessione o la stessa Australia, poco interessata al ruolo di vedetta anticinese flottante nel Pacifico sempre meno anticinese, tanto da invitarsi il 27 marzo al vertice parigino dei «volenterosi». A Canberra si studia da vicino il vertice trilaterale del 22 marzo a Tōkyō fra i capi delle diplomazie nipponica, cinese e sudcoreana. Prove di mini-componenda asiatica? Quanto a Londra, l’accostata di Starmer verso Macron, pallida entente cordiale all’ombra delle rispettive Bombe per offrirsi timonieri dell’arca dei «volenterosi» restringe la Manica. Segue il Canada in versione neogollista che eccede persino i québécois (qualcuno giura di aver captato il grido «Vive le Canada Libre!» sorgere dalla tomba del Generale a Colombey-les-Deux-Églises). Il nuovo premier di Ottawa, Mark Carney, già governatore della Banca d’Inghilterra, snobba Washington e spunta a Parigi per la sua prima visita all’estero. Intanto Carlo III pianta un acero rosso, simbolo del Canada, nel giardino di Buckingham Palace e maneggia il timone della portaerei Prince of Wales con la divisa appesantita da onorificenze canadesi. Manca solo la Nuova Zelanda perché i quattro partner dell’Anglosfera si smarchino dagli Stati Uniti. Che fine faranno i Five Eyes, esclusivissimo club delle intelligence anglosferiche a trazione americana? Per ora sono strabici. L’America guarda sé stessa. Gli assi visivi degli altri fluttuano nel vuoto (carta 4).

 

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Carta di Laura Canali – 2025 

 

La terza riguarda le divergenze tra classiche potenze euroccidentali. Francia e Germania sono in freddo soprattutto per via del riarmo tedesco con possibile supplemento atomico. Italia e Francia nemmeno si parlano. Spagna è altrove.

La quarta riprende il recente omaggio dell’Economist a de Gaulle: «Ora siamo tutti gollisti. L’Europa suona sempre più francese». Editoriale illustrato da una foto marziale del campione della Francia Libera. Didascalia: «Il generale che aveva ragione» 6.

L’Europa ricomincia dalla Francia? Ed eventualmente, quale Francia per quale Europa? Parigi riscopre le sue ambizioni di grandezza, come sempre quando tira aria di guerra. Massima potenza militare del continente, la sola dotata di ombrello nucleare, esibito quale deterrente antirusso per surrogare la rinuncia di Washington ad agitare il proprio. Unica potenza europea sfuggita nel 1945 al destino di semiprotettorato americano. Grazie a de Gaulle capace di imporsi nella cinquina degli autoproclamati vincitori della guerra malgrado la batosta subita da Hitler.

Macron crede di aver capito quel che noi ci rifiutiamo di contemplare: l’umiliazione degli Stati nazionali europei può terminarne l’esistenza.

6. «La Francia non lo sa, ma noi siamo in guerra con l’America. Sì, una guerra permanente, una guerra vitale, una guerra economica, una guerra apparentemente senza morti. Sì, gli americani sono molto duri, sono voraci, vogliono un potere indiviso sul mondo. (…) Una guerra a morte» 7. Confessione di François Mitterrand, forse l’ultimo grande presidente della Quinta Repubblica, poco prima di morire, l’8 gennaio 1996. Parole sempre attuali perché tracciano il filo rosso della competizione fra i due campioni storici dell’Occidente: Francia e Stati Uniti. Fra una potenza che ha sempre ambito a parere più grande di quanto fosse e l’amica/rivale che deve la sua indipendenza anche all’alleanza «eterna» contratta nel 1778 e cancellata nel 1800 con la Francia borbonica, poi rivoluzionaria. Da allora a Washington risuona il basso continuo dell’unilateralismo – America misura di tutte le cose – per cui ogni intesa è provvisoria e subordinata all’interesse nazionale, fino a Trump vestito da universale. Mentre a Parigi, per cultura e psiche almeno altrettanto nazional-universalista, i rapporti con l’«amico americano» erano vissuti con frustrazione pari all’ascesa dell’iperpotenza a stelle e strisce. Ora fluttuano tra preoccupazione e gioia maligna. «Amici, alleati, ma non allineati», nella formula di Hubert Védrine, già intimo di Mitterrand. Simili nell’ambizione, asimmetrici nei mezzi per sostenerla.

Quando nel 2019 Emmanuel Macron pronuncia la sentenza di «morte cerebrale» della Nato ai più pare boutade 8. Oggi si svela profezia.

In francese, l’altra sua lingua ufficiale, Nato si legge Otan. Palindromo? Niente affatto. Nella grammatica geopolitica Nato/Otan non è sequenza di caratteri che letti al contrario mantengono il medesimo senso. Né il Patto Atlantico è mai stato interpretato allo stesso modo da Stati Uniti e Francia. Il festival di solipsismi e mediocri narcisismi che agita i due lati dell’Oceano ne è conferma spettacolare.

 La relazione franco-americana è epitome dell’Occidente transatlantico. Per una ragione sopra tutte: la Francia tiene ferocemente alla sua sovranità. Contro la costituzione materiale di Antieuropa che implica la rinuncia dei soci a corpose quote di sovranità. Parigi esibisce e promuove la sua indipendenza mentre l’identifica con Europa, intesa estensione di sé stessa. Perciò mai definita. La force de frappe da 290 atomiche ne è simbolo e vettore, assieme all’assenza di basi statunitensi sul suo territorio – differenza identitaria rispetto a Germania e Italia, tuttora marchiate dalla catastrofe del 1945 (carta 5). Incentivo al culto francese del proprio rango.

 

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Carta di Laura Canali – 2025 

 

La religione del rang ha nome e cognome: Charles de Gaulle. L’irradiamento del sovranismo gollista continua a distinguere la postura dell’Esagono sulla scena mondiale. È consustanziale alla moderna idea di Francia. Figlio del capitolo più caldo della «guerra segreta» cui accennava l’ultimo Mitterrand, eterno rivale del Generale del quale però condivideva una certa idea della Francia. Il gaullo-mitterrandisme, religione dello Stato profondo, resta paradigma soggiacente alla strategia esagonale anche al tempo di Macron. Alimenta la rivalità franco-americana. Aperta ma soprattutto segreta. Et pour cause. Risfogliarne il prologo aiuta a interpretare i meccanismi permanenti della sfida. Di riflesso anche del nostro atlantismo.

7. Alla fine della seconda guerra mondiale gli Stati Uniti tentano di ridurre la Francia a semiprotettorato. Come Germania, Italia e Giappone. Vinto o almeno non vincitore. Amputato dell’impero come dell’Alsazia e di altri spazi oltre la linea blu dei Vosgi. Pesata alla bilancia della storia, agli occhi d’Oltreoceano la Francia pare troppo debole per arginare la pressione sovietica se Stalin decidesse di varcare Elba poi Reno per sfilare a Parigi e spingersi a Brest. Destinata a cedere di schianto ove, al contrario, la Germania tornasse sul piede imperiale e si impegnasse nella quarta, definitiva campagna della Kultur contro la débauche.

La svalutazione della Francia era corrente in America dal tardo Ottocento, ben prima che lo schianto del 1940 e l’occupazione tedesca ne sancissero la sconfitta. Per niente strana. Negli stereotipi yankee, la differenza tra americani e francesi si colorava di genere: mascolini i primi, femminei i secondi 9. Altro che Grande Nazione. Quasi versione estesa dell’Italia: pittoresca, affascinante, ma fragile, con coquilles Saint-Jacques e Folies Bergère al posto di spaghetti e mandolini.

Su questo sfondo, nella sua mappa ideale del dopoguerra il presidente Roosevelt prevede di smantellare e occupare i principali avamposti dell’impero francese per impedire che se ne impossessino comunisti travestiti da nazionalisti o viceversa. Quanto all’Esagono, intende sottoporlo a dolorosa chirurgia: riva sinistra del Rodano all’Italia (il Duce se ne sarebbe compiaciuto); Alsazia, Lorena e alcuni dipartimenti del Nord accorpati nella Vallonia – omaggio alle origini della madre 10 – frullato olandese-belga-lussemburghese (schema di Hitler). Cos’altro ci si potrebbe aspettare dal presidente che nell’estate 1940, sconvolto dalla passeggiata del Führer sugli Champs-Élysées, ordina di mettere subito le mani sulla Groenlandia perché dà l’Europa per persa (anticipazione di Trump) dunque la Francia irrecuperabile (carta a colori 5)?

 

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Carta di Laura Canali – 2025 

 

Durante il periodo di Vichy, Roosevelt vezzeggia il maresciallo Pétain. Il 15 ottobre 1942 gli scrive una lettera personale: «Mio caro vecchio amico…» 11. Fino alla liberazione di Parigi nell’estate 1944 e oltre intesse obliqui rapporti con la cricca collaborazionista, in odio al generale de Gaulle, che detesta di tutto cuore – imitatore di Napoleone che finirà per aprire ai bolscevichi. Istigato anche da Jean Monnet, anti-de Gaulle ben introdotto nell’establishment americano. Attratto come Robert Schuman dall’idea di Vallonia, neo-Lotaringia industrializzata che ispirerà nel 1951 la Comunità europea del carbone e dell’acciaio (Ceca), pietra angolare delle future Comunità europee varate a Roma (1957).

Nel 1943 Roosevelt ordina di allestire un governo militare americano (Amgot) nella Francia che sarà liberata dai tedeschi, ovvero occupata dagli anglo-americani. Trattamento praticato dapprima alla Sicilia e all’Italia strappata ai tedeschi, poi a Germania, Austria e Giappone. Per lui la Francia non ha bisogno di potere centrale. Sarà quindi opportuno che i generali americani e britannici anticipino le velleità della Francia Libera di affermarsi sovrana in patria. Roosevelt stesso disegna la banconota di occupazione, cosiddetto billet drapeau. Sul verso la bandiera francese, recto un facsimile del dollaro denominato franco. Pseudovaluta da distribuire appena sbarcati in Normandia. Ma de Gaulle blocca l’uso di quella «moneta scimmia». E sventa il protettorato «alleato». Allestisce in fretta e furia il 3 giugno 1944 un governo provvisorio della Repubblica Francese di forte radicamento popolare, mentre lancia sue divisioni verso Berlino.

Su mandato rooseveltiano, il fido Allen Dulles, futuro capo della Cia, tenta fra giugno e luglio 1944 di fabbricare a Parigi un governo di vichistes quali Pierre Laval, insieme all’ondeggiante Édouard Herriot. Cabala concordata con l’ambasciatore nazista Otto Abetz, affiliato alla massoneria francese. Hitler la stronca in extremis. Tutto pur di bloccare de Gaulle. Dalla Pax Germanica alla Pax Americana sostenuta da collaborazionisti e nazisti ansiosi di riciclarsi. Portatori di un loro europeismo autoritario, fondato sull’asse Francia-Germania, per il quale contano sul via libera americano.

Quanto ai francesi affamati e laceri, adorano il Generale. Mentre osservano come gli ufficiali americani si stabiliscano negli alberghi di lusso appena sgomberati dai germanici. Circola perfida questa battuta: la sigla Shaef (Supreme Headquarters, Allied Expeditionary Force) sta per Société Hôtelière des Américains en France 12.

Subito dopo la guerra americani e francesi rischiano di spararsi addosso in diverse occasioni. Tra fine aprile e inizio giugno 1945 l’Italia sta per diventare teatro di una battaglia fra Stati Uniti e Francia. Il generale de Gaulle ordina alle sue truppe di prendere pezzi di Liguria e Piemonte oltre alla Val d’Aosta (carta 6). Contro il volere di Truman. Il quale lo bolla «psicopatico». Sicché gli taglia i rifornimenti e l’avverte che se non cede lo bloccherà con la forza. È il 6 giugno 1945, primo anniversario dello sbarco in Normandia. Truman s’infuria con de Gaulle, colpevole di «minacciare che soldati francesi dotati di armi americane combattano americani e altri alleati (…) che hanno contribuito alla liberazione della Francia stessa» 13.

 

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Carta di Laura Canali – 2025 

 

Il generale Eisenhower, che pure stimava de Gaulleconfesserà: «Meteo a parte (…) i francesi mi hanno creato più problemi in questa guerra di qualsiasi altro fattore» 14.

Il trauma dell’Amgot scampato pesa nella memoria delle élite transalpine.

8. Il 15 giugno 2017 Emmanuel Macron, fresco di elezione all’Eliseo, getta nel ciberspazio un tweet. In inglese: «I want France to be a start-up nation. A nation that thinks and moves like a start-up» 15Muskismo ante litteram. La Grande Nazione come un’azienda che si lancia sul mercato pronta a fallire e riprovare. Il pensiero va alla statua di de Gaulle che giganteggia in fondo agli Champs-Élysées, davanti alla quale Macron sfilerà il 14 luglio – un mese dopo l’anglotweet – al culmine della parata che eccita l’amico Trump, invitato d’onore. Sullo zoccolo questa citazione del Generale (in francese, va senza dire): «Il y a un pacte vingt fois séculaire entre la grandeur de la France et la liberté du monde» 16. In questi otto anni il giovane presidente partito con piglio aziendal-californista si esibisce in varie rotazioni nella filosofia del potere per giungere a un finale simil-gollista – s’intende in sedicesimo. Quando Macron si propone guida dei ribelli europei stretti attorno all’Ucraina contro la deriva putinista di Trump, ha certo in mente il sovranismo del Generale. In parole sue (1963): «La nostra visione del mondo suppone la non-dipendenza. Dobbiamo disporre di noi stessi. (…) L’Europa manca di volontà politica. Persino i francesi sono tentati da una nuova Monaco. (…) Ancora e sempre, rotolarsi ai piedi degli americani, come fra le due guerre ci si rotolava ai piedi degli inglesi, come Vichy ai piedi dei tedeschi. Noi siamo il solo Stato a poter tener testa agli americani. Siamo i portavoce di duecento milioni di muti» – gli altri europei 17. I quali oggi, intesi cittadini dei paesi Ue, sono più del doppio. Macron si offre loro quale araldo anti-Trump per salvare l’onore d’Europa. Certo non basta esibirsi capo dell’eterogeneo drappello dei «volenterosi». Termine fungibile, che raduna il variabile club dei paesi che non vogliono far finire la guerra in Ucraina con la vittoria dell’intesa russo-americana sui loro «alleati», europei o meno. Tra questi la Francia è, davanti al Regno Unito, la potenza militarmente più strutturata. Soprattutto, usa alla guerra, malgrado la spirale di sofferenza e fratturazione sociale che mina la Quinta Repubblica fino a metterne in questione il futuro.

9. Avanguardie antirusse fuori sesto, Anglosfera divisa, Germania in permanente crisi d’identità, Italia nel limbo: ambiente ideale per affermare la Francia Numero Uno in Europa.

Precondizione del rilancio di Parigi è l’intesa con Berlino. Oggi ai minimi termini. Mentre Trump applica la mannaia dei dazi su misura di competitore e si esercita in ogni genere di rappresaglia contro gli «scrocconi», la famosa coppia franco-tedesca che i tedeschi si rifiutano di battezzare tale vive la stagione più triste. Perché all’opposto della Francia, quando il tempo cambia la Germania non ha un passato glorioso cui volgersi per riprendere slancio. Né l’agilità per mobilitare il popolo intorno alle Forze armate. Perse le bussole atlantica ed europea, la Bundesrepublik respira aria da anno zero.

Il punto di contatto fra Parigi e Berlino sta nella convinzione che Washington non sia più occidentale. Francia per grandeur, Germania per carenza di alternative studiano come inventare un Occidente senza America. Operazione complicata per i tedeschi dalla faglia del fiume Elba che separa la Germania già occidentale da quella tuttora orientale. La fallita fusione tra Bundesrepublik originaria, satellite americano, e DDR, vetrina dell’impero europeo di Mosca, lascia Berlino tra due sedie. I Wessis sono orfani dello Zio Sam, ormai degenerato, incarnato da un presidente visceralmente germanofobo. In questo Trump resta buon bavarese 18. Gli Ossis custodiscono abitudini prussiane, tra cui l’inclinazione verso la Russia. La tenaglia russo-americana incide la Germania. Conclusione delle élite tedesche: dobbiamo saperci difendere da soli, se possibile con l’aiuto di francesi e altri europei. Obiettivo per il quale si preparano a spendere centinaia di miliardi, con cari saluti al tabù del debito. E a risvegliare lo spirito militare tedesco, assai depresso, agitando la minaccia russa e l’inaffidabilità degli Stati Uniti. Non attraverso la leva: i giovani tedeschi non ardono dalla volontà di morire per la patria. Serviranno campagne di riconversione culturale offerte come occasione di socializzazione. Aggiornamento delle ottocentesche Burschenschaften, leghe studentesche orientate all’educazione patriottica.

Qui scatta un altro paradosso che più tedesco non si può. Decisa a riarmarsi perché rassegnata a che la pace non sia diritto acquisito, più la Germania lo fa più si allontana dalla Francia. Memoria delle tre aggressioni di Secondo e Terzo Reich (1870-71, 1914-18, 1940-45) contro la Grande Nation, di cui le ultime due fomite di altrettante guerre mondiali. Ma anche rifiuto di Parigi ad ammettere che oltre il Reno s’installi superiore potenza militare. Magari con la sua Bomba.

 Il nucleare è l’elefante nella stanza franco-tedesca. Da tempo nello Stato profondo germanico, ma ormai anche sui media, si discute la necessità o meno di dotarsi dell’arma definitiva. Come scrive la Frankfurter Allgemeine Zeitung, è ora di «imparare a conoscere la Bomba», di uscire dalla «passività» che tronca il dibattito, di familiarizzare l’opinione pubblica con la strategia nucleare 19. I servizi giuridici del Bundestag hanno prodotto un documento che identifica nel Trattato di non proliferazione nucleare (Tnp) l’unico effettivo vincolo che impedirebbe alla Germania di farsi o comprarsi la Bomba. Vero che stando all’articolo 10 ogni firmatario può denunciare il Tnp. Finora però solo la Corea del Nord ha osato tanto (tabella) 20.

 

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Escluso un arsenale atomico europeo per l’ottima ragione che la Bomba è simbolo della sovranità nazionale. Souveraineté è il marchio della Francia. Musica di Stato per tromba e banda militare. Souveränität è francesismo flautato in tedesco. In punto di diritto la Repubblica Federale Germania è sovrana solo dal 1990. Di fatto non proprio, fosse solo per la presenza sul suo suolo del massimo contingente militare Usa in Europa. Indisponibile a difendere la sicurezza del paese ospitante se collide col proprio interesse.

L’emergenza spinge Berlino a pensare l’impensabile. È il momento dei piani B per tutti gli Stati europei. Specialmente per chi pensava di poter contare solo sull’A (ombrello Usa) peraltro non di sua diretta produzione. Sicché il governo tedesco uscente ha istituito la scorsa estate un gruppo di lavoro non proprio segreto per stabilire come finanziare un sistema nucleare europeo. Di qui a virarlo in nazionale il passo non è lungo. Come il Giappone, la Germania è trattata da potenza nucleare virtuale nelle equazioni degli Stati atomici. Dalla decisione di produrre la Bomba tedesca allo schieramento di un mini-arsenale passerebbe qualche mese. Non mancano a Berlino né conoscenze tecnologiche né materiali e strutture. A frenare i decisori tedeschi sono vincoli geopolitici e morali, non tecnici.

Alcuni pensano di poter tranquillizzare i partner europei invertendo la logica della force de frappe per ottenere lo stesso effetto. Come i francesi agitano senza crederci l’ipotesi di europeizzare il proprio nucleare, nazionale per autodefinizione, così i tedeschi potrebbero nazionalizzare una loro Bomba spacciandola per comunitaria. A ciascuno la sua atomica certificata europea (o dei «volenterosi»). Parte dell’arsenale francese sarebbe custodito in Germania – in limitata sostituzione di quello americano? – altrettanti ordigni tedeschi sarebbero ospitati nell’Esagono. Chiamiamolo piano C. Estremamente improbabile. Anche perché non estendibile oltre Francia e Germania. Facile immaginare quale sarebbe la reazione della Polonia, forse anche dell’Italia (che pure nel 1957 progettò in segreto una Bomba a tre con francesi e tedeschi) a un’astuzia così astuta.

Infine: vero che i francesi diffidano dei tedeschi. Ma vale anche il contrario. Merz vede nell’abbraccio militare di Macron la versione robusta del golliano imperativo arrimer l’Allemagne! Abbraccio senza affetto. Per controllare fingendo di aiutare. La reciproca disponibilità ad accogliere assetti non atomici del vicino sul proprio territorio ne sarebbe espressione. Sempre che fra 10-15 anni la Francia sia ancora davanti alla Germania quanto a capacità militare.

La grancassa dell’emergenza bellica ha molto di strumentale, ma a quanto pare funziona. Poi ogni paese ha le sue anime belle. Quelle tedesche sognano ancora di poter contare sull’ombrello americano: «Right or wrong, my protector». Auguri.

Da estendere al nostro paese, dove le anime belle parrebbero maggioritarie. Sensazione confermata dalla persistenza dei tabù prebellici sorretti da discutibili ma poco discussi vincoli costituzionali, dalla resistenza a confrontarsi con i dati di realtà e a ridurre ogni contesto a un teorico diritto internazionale di cui la storia universale è pratica violazione permanente. O a consolarsi con il rosario delle buone intenzioni. Il rumoroso silenzio osservato dal nostro governo nelle prime settimane del secondo Trump e lo smarcamento dai «volenterosi» ultrà, francesi e inglesi in testa, suonano conferma che per la sicurezza nazionale continuiamo a confidare nella deterrenza americana. Spes contra spem. Insensibile alle miserie terrene come l’Abramo di San Paolo. Ma l’unico modo per salvare il salvabile è rifondare l’accordo con gli Usa su trattati bilaterali centrati sullo scambio basi contro protezione. Oltre a Forze armate pronte a battersi, capaci di operare con gli americani o al posto loro se gli interessi coincidono. Anche senza altri europei.

Sottopelle qualcosa si muove. Fra gli addetti ai lavori, intanto. I nostri soldati si preparano a combattere. Dopo decenni di warfighting e altri anglicismi ammorbidenti nel timore di agitare il sonno di un popolo pacifista – ma lo è davvero? – militari e altri addetti alla sicurezza parlano di guerra. In italiano. La nostra corposa industria della difesa sta cambiando passo, in ordine rigorosamente sparso. Eppure fino a ieri i manager del settore si presentavano dediti alla produzione di beni civili, massime duali. Le Forze armate italiane sono seconde alle francesi, ma ben davanti alle tedesche, con punte di primo livello. Certo restiamo dipendenti dall’America. Anche se stiamo cercando di dipenderne meno.

Come ogni rivoluzione geopolitica, anche questa avrà due fasi: rottura e ricostruzione su basi parzialmente inedite. Ne viviamo l’alba della prima: crisi, recriminazioni, caos. La seconda verrà non presto e verterà sul compromesso tra vecchio e nuovo. Con inerziale prevalenza del passato sul presente. A partire da un nuovo assetto gasiero euro-asiatico-africano non troppo dissimile dal vecchio (carta a colori 6). Se andrà bene, incardineremo il ristabilito ordine mondiale sull’equilibrio della potenza – specialità italiana d’età rinascimentale – se finirà male ci distruggeremo a vicenda.

 

<address>Carta di Laura Canali - 2025
Carta di Laura Canali – 2025 

 

Molto dipenderà ancora dall’America: continuerà ad avvitarsi su sé stessa trascinandoci nel caos o invertirà la tendenza? Vorremmo credere nella dialettica neohegeliana di George Friedman, che ancora in questo volume professa fede inconcussa nella triade calma-tempesta-calma. Vorremmo, ma temiamo di non potere. Possiamo però assumerci le nostre responsabilità di occidentali europei quali noi italiani siamo e resteremo. Perché la moda americanofoba che eccita molti americanofili di ieri è inelegante fuga dalle responsabilità. Lusso che non possiamo concederci.

Per tesi.

10. Il Nemico da cui difenderci siamo noi stessi. Ci siamo imprigionati nell’ideologia europeista. Metaverso consolatorio che prometteva pace, benessere, progresso. Oggi produce bellicismo, disagio, deculturazione. Spergiura di riunire e integrare gli europei mentre li divide e alimenta i nazionalismi più angusti. Questa nevrotica macchina di riproduzione dell’irrealtà per mezzo dell’irrealtà ci porta fuori strada. Lontano dalle basi democratiche delle nostre libertà, in un’illogica autodistruttiva. Le strutture comunitarie evadono qualsiasi legittimazione democratica, tentano di affermare la superiorità di poteri delegati e tecnocratici sugli elettivi, svuotano le democrazie nazionali della loro sostanza mentre ne stimolano le pulsioni illiberali e scioviniste. Senza limes, l’Unione Europea scade a macedonia di paesi spesso fra loro più alieni di quanto non siano rispetto a omologhi extraeuropei.

Deriva forse sopportabile in tempo di pace. Micidiale nell’aria intossicata dalla guerra. Quando tutto è bianco o nero niente è vero. Il grado di censura e autocensura cui i protagonisti della sfera pubblica europea indulgono è parossistico. Produce paradossi. Di seguito il principale.

Siamo (per quanto?) il più pacifico dei continenti perché abbiamo perso le guerre mondiali per mano di un nemico che non aveva interesse a punirci. Anzi. Sicché il nostro paese, insieme all’intera Europa occidentale – dalla penisola iberica alle soglie della pianura sarmatica – è finito barcollando nell’Impero europeo dell’America, decisa a rimetterci in piedi perché non cadessimo sotto Mosca. Da allora abbiamo espulso la guerra dal nostro orizzonte, quasi spettasse solo a noi stabilirlo. A sigillare la pratica nostrana ecco l’articolo 11 della costituzione. Per tutto il resto ci sarebbe il protettore a stelle e strisce. Doppio problema: i conflitti non si aboliscono per legge; la sicurezza della patria non può essere totalmente delegata a un’altra nazione, fra l’altro alquanto bellicosa, che ragiona per sé stessa. Altrimenti sarebbe ente umanitario.

Risultato: quando i russi invadono l’Ucraina cadiamo dalle nuvole. Erigiamo gli aggrediti a nostri campioni. Combattenti per la nostra libertà. Allunghiamo loro qualche arma – in semisegreto, per non impressionarci né troppo urtare il vecchio nemico/sodale russo – purché tengano la guerra lontano da noi (carte a colori 7-8). Non muoviamo un dito per favorire negoziati. Quando ci provammo, nel marzo-aprile 2022, i nostri protettori ci fecero subito sapere che non era il caso. Ora che ci si azzardano loro, sia pure con scellerato dilettantismo, li rimproveriamo perché non sarebbe pace giusta. Quasi potesse darsi giustizia senza pace.

 

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Carta di Laura Canali – 2025 

 

Non soddisfatti, cavalchiamo un riarmo senza straccio di strategia comune in nome di un esercito europeo senza Stato europeo. Ciascuno dei Ventisette farà o non farà come gli pare. Nella più allegra asimmetria. Però tranquilli. Resteremo sotto la tutela americana che gli americani hanno smesso di garantirci. Sindrome dell’ombrello fantasma: continuiamo a percepirlo anche se non c’è più.

Gli europeisti veri insistono: con la difesa europea si farà l’Europa. Ci abbiamo provato con il carbone e l’acciaio, poi col «mercato unico», fino alla «moneta unica», omaggi al dettato vitruviano per cui le case si edificano dal tetto. Quando professi il principio di irrealtà nulla ti può fermare. Pazienza se poi finisci in guerra. Per fortuna a costituzione italiana costante.

 

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Carta di Laura Canali – 2025 

 

L’europeismo è di fatto antieuropeo. E avventurista in tempo di guerra. Il problema è che gli europeisti sono in perfetta buona fede. Solo, non hanno misura della realtà. E di questa diseducazione fanno vanto e parametro. Con il barometro bloccato sull’anticiclone. Sacrificio dell’intelletto imposto dalla devoluzione spontanea delle residue sovranità veterocontinentali che l’imperatore americano ci aveva concesso per difetto di imperialismo. A differenza del sovietico nella sua mezza Europa. L’annientamento delle culture strategiche europee – questo sì voluto e curato dal Numero Uno, specie in Germania – sta facendo il resto. Spiazzati dall’attacco russo all’Ucraina vaghiamo incoscienti in un continente mentalmente impreparato alle mutevolezze del mondo dunque incapace di collocarsi nello spaziotempo. Tanto da non accorgerci nemmeno di aver perso. La guerra oggi, noi stessi domani?

11. Non è scritto che russi e ucraini smettano presto di massacrarsi. Ed è molto probabile che anche quando smetteranno sarà tregua, non pace. È invece sicuro che gli effetti strategici scatenati dal Blitz più lento della storia militare si faranno sentire nel tempo medio-lungo con intensità accentuata. In tutto il mondo. La guerra in Ucraina non è mondiale in senso stretto, visto che Russia a parte nessun’altra potenza vi è esplicitamente coinvolta. Ma lo è quanto a conseguenze strategiche. Putin ha rotto i sigilli che fissavano la correlazione delle potenze principali e ha coinvolto nell’equazione globale la Maggioranza Mondiale. Fra Caoslandia e Ordolandia non ci sono barriere fisse, mentre i due semi-mondi si scrutano in cagnesco. Il Nord teme il contagio del Sud soprattutto perché vi scarseggiano gli Stati veri. Strumento che gli europei inventarono per assicurarsi che le guerre finissero con una pace in buona e dovuta forma.

L’effetto per noi più drammatico della tragedia ucraina è la disintegrazione dell’Occidente. Non solo in senso geopolitico: West è lemma da passare agli archivi. Soprattutto in senso culturale. Spirituale. Il nostro Occidente è figlio della vecchia Europa, quella ante-1914, prima che si affermasse il lontano parente americano. L’Europa civiltà, matrice dell’homo occidentalis: libero di cercare la verità, indisponibile a imporla. Dove le élite parlavano la stessa lingua. Civiltà-faro, così rimembrata da Lucien Febvre, cofondatore delle Annales, quando professava il suo corso al Collège de France nella Parigi appena liberata: «La società dei cervelli europei lavorava a rendimento pieno, senza preoccuparsi delle frontiere, per la scienza, per la filosofia, per l’arte, per il vero. (…) Un inglese proseguiva il lavoro di un francese, un tedesco quello dell’inglese, mentre un danese sviluppava la sua scoperta e un americano scartava dalla fila, innovava e creava una nuova serie, una nuova sequenza» 21.

Forse riusciremo un giorno a riconnettere sparsi frammenti dell’Occidente strategico. Mai, temiamo, di quella civiltà.

 

Note:

1. Cfr. W.J. Burns, The Back Channel. American Diplomacy in a Disordered World, London 2021, C. Hurst & Co., pp. 232-8.

2. Cfr. K. Liptak, «Biden predicts Russia will “move in” to Ukraine, but says “minor incursion” may prompt discussion over consequences», Cnn, 19/1/2022. Per il contatto telefonico Burns-Putin, vedi W.M. Arkin, «Exclusive: The CIA’s Blind Spot about the Ukraine War», Newsweek, 5/7/2023.

3. Cfr. J. Mesa, «What Is JD Vance’s Problem With Europe? Former Diplomat Shares His Theory», Newsweek, 25/3/2025.

4. Cfr. «To consider the nomination of Mr. Elbridge A. Colby to be Under Secretary of Defense for Policy», United States Senate, Committee on Armed Services, Washington D.C., 4/3/2025.

5. Cfr. «La Grande Componenda», editoriale di Limes, 1/2025, «L’ordine del caos», pp. 7-33.

6. Cfr. «Europe sounds increasingly French», The Economist, 6/3/2025.

7. Cit. in G.-M. Benamou, Le dernier Mitterrand, Paris 2005, Plon, p. 52.

8. «Emmanuel Macron warns Europe: Nato is becoming brain-dead», The Economist, 7/11/2019.

9. Cfr. F. Costigliola, France and the United States. The Cold Alliance Since World War II, New York, Twayne Publishers, p. 4. Dove si snocciolano i seguenti aggettivi per descrivere il carattere francese secondo gli yankees: «Emotivi, ipersensibili, frivoli, non pratici, esagerati, troppo interessati a cibo, bevande, moda, arte e amore». Di contro, gli americani si dipingono «razionali, calmi, pragmatici ed efficienti».

10. Franklin Delano Roosevelt (1882-1945) deve il secondo nome alla madre Sara, la cui famiglia di stirpe vallone era emigrata in America nel Seicento. Delano è americanizzazione di de Lannoy o de la Noye.

11. Cfr. il testo integrale in É. Branca, L’ami américain, Paris 2017, Perrin, pp. 457-459.

12. F. Costigliola, op. cit., p. 42.

13. Ivi, pp. 38-39.

14. «Voglio che la Francia sia una nazione start-up. Una nazione che pensa e agisce come una start-up.»

15. «C’è un patto venti volte secolare tra la grandezza della Francia e la libertà del mondo».

16. F. Costigliola, op. cit., p. 39.

17. Cfr. A. Peyrefitte, C’était de Gaulle, Paris 2002, Gallimard, p. 608.

18. Il nonno di Donald Trump, Friedrich Trumpf, emigra verso gli Usa nel 1885 da Kallstadt, allora nel Regno di Baviera, oggi nel Land Renania-Vestfalia.

19. M. Jonas, S. Pleyer, «Die Bombe verstehen lernen», Frankfurter Allgemeine Zeitung, Deutscher Bundestag, Wissenschaftliche Dienste, 24/3/2025.

20. «Kurzinformation. Atomare Bewaffnung Deutschlands und Zwei-Plus-Vier Vertrag», Deutscher Bundestag, Wissenschaftliche Dienste, 8/11/2024.

21. L. Febvre, L’Europe. Genèse d’une civilisation, Paris 1999, Perrin, p. 313.

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