Laicità dello stato: serve un art. 7 anche per Israele (l’identità religiosa impedisce la pace)

per Gian Franco Ferraris
Autore originale del testo: Raniero La Valle
LAICITA’ DELLO STATO: SERVE UN ART. 7 ANCHE PER ISRAELE
(l’identità religiosa impedisce la pace)
Non c’è fine alle guerre? Quella d’Ucraina, che pure Trump ci aveva promesso di risolvere in fretta, non accenna a concludersi: il problema è che non si può tramutare una sconfitta in una vittoria, come vorrebbe Zelensky, e neppure tornare alla tranquilla situazione precedente, come se nulla fosse successo. Ancor meno la guerra di Gaza può giungere al termine, perché Netanyahu vuole finire il lavoro e un popolo non si può annientare; e quanto alle altre guerre (se ne citano 56) una ne comincia e un’altra ne finisce, tanto da perdersene perfino il conto.
Eppure l’istanza di interdire la guerra e uscire dal sistema di guerra sta scritta nel diritto internazionale positivo e scolpita nel cuore dei popoli, sicché dovrebbe estendersi a tutti la norma di ripudiare la guerra come strumento di reciproca offesa e mezzo di risoluzione delle controversie internazionali che sta scritta nella Costituzione italiana. Questo vorrebbe dire per l’Ucraina negoziare senza fare un idolo né delle terre contese o perdute né del diritto a contrarre qualsiasi alleanza e a schierare qualsiasi esercito in nome del principio della sovranità, mentre per Israele vorrebbe dire rinunciare, dopo settant’anni d’inferno, a negare la libertà di esistere al popolo palestinese; e per ambedue vorrebbe dire rinunciare a fare un idolo di stessi .
L’impresa è più difficile per Israele che per la Russia e l’Ucraina perché vi si oppone la natura stessa dello Stato di Israele che per la sua stretta connessione con la fede ebraica, è concepito ufficialmente per realizzare l’autodeterminazione nazionale del solo popolo ebraico ed esercitare il diritto “naturale, culturale, religioso e storico” all’insediamento nella Terra di Israele, comunemente indicata come quella che si estende dal mare al Giordano, ovvero tutta la Palestina storica.
Questo vuol dire che una norma universale come quella dell’art. 11 della Costituzione italiana non è adottabile dallo Stato di Israele fino a quando esso mantiene, come vuole la sua Legge fondamentale, questa sua caratteristica identitaria, che secondo la stessa Torah, cioè la Bibbia ebraica, si realizza mediante lo strumento della guerra, perciò data per santa.
La questione però non riguarda solo Israele perché se si accetta che la guerra sia inevitabile, che un popolo possa o debba essere estromesso, e che occorra armarsi per essere sempre pronti al conflitto (secondo l’Unione Europea addirittura predisponendo i kit per una sopravvivenza, peraltro impossibile), il mondo è perduto, come umanità e come natura; e prima ancora salta tutto l’ordine internazionale, come mostrano la Carta dell’ONU stracciata da Israele in piena Assemblea generale, e l’uscita dell’Ungheria dalla Corte Penale Internazionale per sottrarre Netanyahu alla giustizia.
La guerra d’Israele diventa perciò la guerra nel mondo, sempre pronta e libera all’esercizio, e la legittimazione di questo rapporto di Israele con gli altri Stati e popoli del mondo diventa l’epitome, ovvero il modello infausto e il paradigma possibile del rapporto tra tutti gli Stati e i popoli della comunità mondiale.
Questa situazione critica va dunque sanata, perché diventi possibile la pace, così come nell’interesse dello stesso Israele, mentre è desiderio, cura e punto d’onore per tutti che sia preservata l’esistenza dello Stato di Israele, messa in pericolo dalla sua politica suicida e dall’eco della crudeltà delle sofferenze inflitte alla popolazione di Gaza; e altrettanto si vuole che ritorni pace e sicurezza per tutto il popolo ebraico insediato nel mondo. Ma se nella sua configurazione attuale lo Stato di Israele non può far propria la norma del nostro art. 11, occorre passare per una fase intermedia prima dell’approdo finale al ripudio universale della guerra. Questo passaggio intermedio è espresso come un principio fondamentale nella stessa Costituzione italiana, ed è il suo articolo 7, che pone fine alle guerre religiose e al modello di “cristianità” nel rapporto tra Chiesa e Stato. Ne è naturale e doverosa conseguenza l’art. 8 che sancisce la pari libertà e l’autonomia delle altre confessioni religiose, in modo che tutte possano conservare le loro tradizioni e la loro fede nell’armonia di un unico ordinamento.
Ma come Israele non è solo Israele così l’Italia non è solo l’Italia. Ed ecco che il principio dell’art. 7 della sua Costituzione lo ritroviamo affermato più tardi, come un principio universale nella Costituzione pastorale “Gaudium et Spes” del Concilio Vaticano II, dove si legge al n. 76 che “la comunità politica e la Chiesa sono indipendenti e autonome l’una dall’altra nel proprio campo”, ognuna peraltro restando fedele a se stessa, E come il modello per l’ordinamento dello Stato è quello della democrazia, per la Chiesa è quello della comunione. È in forza di ciò che papa Francesco ha potuto proclamare “urbi et orbi”, ricevendo il premio Carlo Magno come al Consiglio d’Europa e alla Curia romana che “non siamo più nell’epoca di cristianità, non più”.
Ebbene, non è affatto impossibile che lo Stato di Israele e la confessione ebraica si glorino di percorrere la stessa strada, e che anche la fede di Israele esca dal suo regime di “cristianità”, comunque lo si debba chiamare. Questo passaggio è valido per tutti, è nel futuro di tutte le fedi, e questo vale anche per l’Islam. Noi non possiamo perdere il Dio di Israele, non può il popolo ebraico lasciare che in suo nome si mostri al mondo una maschera di Dio, tutti dobbiamo uscire dall’Egitto, separarci dal Faraone, spogliarci nel deserto del Dio sbagliato. Né questa separazione tra lo Stato e la confessione ebraica sarebbe una menomazione per la fede d’Israele, considerato che nei secoli una diffusa interpretazione rabbinica sosteneva che la promessa messianica non dovesse realizzarsi attraverso l’operazione umana dell’instaurazione di uno Stato, e che tre maestri del Talmud hanno detto: “che venga il messia ma io non voglio vederlo”; si temeva che una trasposizione politica della fede potesse risolversi in una rovina. E ora siamo al punto che Israele “spara alla Croce Rossa”: e non è una figura retorica, non più.
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