Fonte: Rimini Sparita
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i racconti rubati a Grazia Nardi su facebook
Estate ’50
Negli anni 50 l’arrivo in tavola del cocomero (l’anguria), un frutto che non “sfama”, era un segnale non tanto di un conquistato benessere, ancora lontano ma del passaggio dalla precarietà del lavoro saltuario ad una più probabile stabilità.
Non si potevano correre rischi, si acquistava solo con la garanzia della qualità e per questo c’era in uso il tassello d’assaggio. Oggi non serve più, coltivati nelle serre, tutto l’anno, in genere sono tutti e sempre uguali.
Il cocomero veniva gustato come un premio, tenuto in fresco nella pentola, dentro il lavandino dove cadeva un filo d’acqua fatta scorrere dal rubinetto. La fetta si aggrediva direttamente a morsi, veloci all’inizio poi rallentati per far durare di più la delizia. Si mangiava il rosso della polpa fino a scalfire il verde della buccia che sapeva di cetriolo ed oltre il sapore ed un profumo oggi scomparso, quel frutto aveva una caratteristica unica: trasmetteva la freschezza che arrivava al viso come se emanasse un soffio di aria entrata da una finestra aperta.
Era l’emblema dell’estate, prima ancora del mare e della spiaggia, almeno per quelli che abitavano in città. Dalla via Cairoli era più semplice mettersi in viaggio, a piedi, verso il fiume, col costume di lana che pizzicava sulla pelle bianca, il fazzoletto annodato sulla testa come facevano i muratori, frutta e pane nella borsa con la bottiglia dell’acqua.
Né si andava scalzi, d’estate, come tante volte ci aveva raccontato la mamma ma quegli zoccoletti con tacchetto, tanto agognati, erano di un numero in più perché durassero almeno due anni, il che ci costringeva a camminare strisciandoli mentre la parte sottostante veniva protetta da uno strato di gomma ricavato da un copertone di bicicletta, per evitare che il legno si consumasse troppo in fretta.
Certo, quel castrone toglieva molto al tentativo di civetteria ma quella del risparmio era una regola scolpita. Si prendeva quello che c’era ed il primo insegnamento che veniva impartito ai bambini era di “non chiedere, mai”. Del resto per chi si fosse azzardato, la risposta del babbo era sempre la stessa “an vag mega a rubè!”