Il nome della rosa. Il papa, i francescani, i domenicani: la disputa

per Carlo Pontorieri
Autore originale del testo: Carlo Pontorieri

di Carlo Pontorieri  11 marzo 2019

Si ricomincia a parlare del “Nome della rosa”, il celebre romanzo di Umberto Eco, grazie alla nuova serie televisiva. 

Mettendo da parte certe pure piacevoli amenità – è meglio il libro, è meglio il film, era meglio il film, è meglio la serie, eh, ma vuoi mettere Sean Connery? – proviamo a fare, visto che ci ritroviamo catapultati nel Medioevo, una glossa a commento della vicenda, forse non inutile.

Che cosa c’è infatti sullo sfondo della storia narrata da Eco? Una questione che a noi moderni o tardomoderni sembrerà strana: la disputa tra papato e ordine francescano sul tema se Gesù fosse stato davvero povero: se p. es. la tunica che indossava fosse stata davvero sua, se gli apostoli che spigolavano nei campi divenivano proprietari del grano che spigolavano e poi mangiavano ecc. oppure no.

Questo perché la Regola francescana imponeva la povertà assoluta, cioè una sorta di totale ablazione del sé, in quanto io proprietario.

Il papa sosteneva che non fosse possibile, che residuerebbe sempre un minimum di proprietà di cui non ci si può spogliare, anche per la persona più povera del mondo.

Una questione che toccava la povertà della Chiesa e la stessa riforma francescana, una questione che inevitabilmente divenne presto anche politica, come si può immaginare, che spaccò la Cristianità e che coinvolse le migliori menti del tempo.

L’ordine francescano infatti affilò le armi, con gente tipo fra’ Giovanni Duns Scoto, passato alla storia come il “dottor sottile”, e fra’ Guglielmo da Occam, noto per il suo “rasoio”, tra le più raffinate intelligenze dell’epoca; e il papato gli schierò contro i migliori teologi e inquisitori domenicani.

Un generale dell’ordine di S. Francesco, Michele da Cesena, che pure aveva appoggiato il papa contro gli Spirituali, i difensori più intransigenti della povertà francescana, venne deposto (non so quante volte sia successa una cosa del genere, ricordo però la dispensa a padre Arrupe, generale dei gesuiti, in tempi abbastanza recenti).

Era il tempo della “quaestio de paupertate”, la disputa sulla povertà, appunto.

Tra i movimenti radicali francescani occorre fare un cenno, perché presenti nella storia narrata da Eco, oltre agli Spirituali, radicati soprattutto in Italia e Occitania, influenzati dall’abate calabrese Gioacchino da Fiore (che Dante colloca non a caso nel Paradiso), ma dichiarati eretici dal papa regnante e perseguiti dall’inquisitore domenicano Bernardo Gui (nella serie: Rupert Everett), anche ai Dolciniani, chiamati così per il loro capo carismatico fra’ Dolcino (un Alessio Boni in gran forma): teorizzavano l’abolizione del feudalesimo e delle gerarchie, praticavano anche la parità tra uomo e donna, ma passarono poi dall’autodifesa alla violenza in nome della liberazione dei poveri e degli oppressi (e nel libro di Eco, pubblicato nel 1980, erano chiare le allusioni al terrorismo rosso, che il lettore contemporaneo non sempre riesce a cogliere).

La “quaestio de paupertate” è interessante anche dal punto di vista della storia del diritto; perché in quella occasione i teorici francescani introdussero il tema dell’infallibilità papale (poiché qualche papa precedente aveva sì borbottato contro l’ordine francescano, ma non si era arrivati allo scontro e dunque un papa successivo non poteva innovare la ‘giurisprudenza’ precedente); e soprattutto, secondo Michel Villey, un importante storico francese del diritto, posero le basi per la nozione moderna di diritto soggettivo, individuale, mentre romani e Medioevo, fino a quel momento, del diritto soggettivo come tale avevano intuito solo molto da lontano l’esistenza, immaginando il diritto solo come un ordine oggettivo del mondo.

Insomma, attraverso questa disputa, che oggi ci sembra così lontana e così astratta, si stava minando l’ordine medievale e stava nascendo la Modernità. Non appare casuale che ad Assisi Giotto rappresentasse le sue “Storie di San Francesco” rompendo con le fissità astratte medievali, e conferendo a ciascun volto carattere individuale e riconoscibilità personale ed emotiva.

In realtà, con la sua pretesa all’assoluta povertà, era comparso sulla scena del mondo l’uomo moderno.

Eco colloca il suo romanzo in questo sfondo cruciale, gioca con i nomi e chiama il personaggio principale Guglielmo come Occam, lo immagina inglese come Occam, vicino alle ragioni dell’imperatore come Occam, e lo fa parlare pure come Occam (“la spiegazione più semplice di un fenomeno è anche quella più probabile”, l’abbiamo già sentita questa affermazione enunciata da Turturro, vero? Beh, è appunto il famoso “rasoio di Occam”, il fondamento della ragione scientifica moderna). Salvo, scrivendo un giallo, aggiungere pure un richiamo ironico a Sherlock Holmes e a “Il mastino dei Baskerville” di Conan Doyle.

Ed ecco il nome del personaggio principale del racconto: fra’ Guglielmo da Baskerville… ^_^

In realtà “Il nome della rosa” è il romanzo postmodern per eccellenza della letteratura italiana, di certo il più riuscito, scritto da quel semiologo medievista coi controfiocchi che si chiamava Umberto Eco.

Ma tornando alla “quaestio de paupertate”, in fondo fino ad oggi molte dispute tra chiesa di Roma e mondo moderno sono riconducibili a quella: tra un diritto preteso oggettivo (“non è naturalmente possibile…” ecc.) e libertà, diritti individuali soggettivi. Pure la vicenda del costituzionalismo sembra riprodurre lo stesso schema, ponendo dei limiti ‘oggettivi’ al potere individuale (Salvini p. es. non avrebbe potuto limitare la libertà personale dei profughi della Diciotti attraverso un ordine amministrativo, glielo impediva la Costituzione, e hanno dovuto invocare la barocca “ragione di Stato” per salvarlo da un tribunale); anche se, ora, modernamente, il diritto oggettivo trova la sua fonte nella tutela dei diritti soggettivi di tutti e di ciascuno, affermati come “naturali” dall’Illuminismo.

In ultimo, d’altro canto, non è neppure pensabile anche oggi, credo, un diritto assoluto individuale all’ablazione di sé. Mettendo da parte questioni dibattute, come il suicidio assistito, che ne direste se qualcuno pretendesse di vendere un rene o le proprie cornee su Ebay come fosse un suo diritto naturale?

In fondo non è che il papa e inquisitori domenicani al seguito avessero proprio tutti tutti i torti… Come ogni grande questione, si tratta di materia incandescente, complessa, dagli esiti incerti e contraddittori.

A proposito del papa: quello allora regnante, come si vede nella serie, si chiamava Giovanni XXII.

Dopo di lui il conflitto con l’ordine francescano si acquietò, ci furono concessioni da una parte e dall’altra (p. es. tante vite di S. Francesco e tanti altri libri di matrice francescana furono vietati e finirono bruciati: fecero davvero un buon lavoro e non abbiamo più niente, è sopravvissuta solo una biografia “ufficiale”, quella di Tommaso da Celano), ma dopo quella vicenda nessuno tra i papi si chiamò Giovanni.

Finché, nella seconda metà del XX secolo, arrivò Angelo Roncalli…

Per chi volesse saperne di più, ex plurimis:
M. Villey, La formation de la pensée juridique moderne, trad. it. Jaka Book, La formazione del pensiero giuridico moderno, ma anche prima sulla quaestio in “Materiali per una storia della cultura giuridica”.
G. Fassò, La legge della ragione, Il Mulino

 

(Giotto, Francesco sposa la Povertà – Assisi, Basilica Superiore, immagine da wikipedia)

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