La bella Estate di Cesare Pavese – il suicidio

per Gian Franco Ferraris
Autore originale del testo: Cesare Pavese

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di Gian Franco Ferraris – 23 agosto 2018

A quei tempi era sempre festa. Bastava uscire di casa e attraversare la strada, per diventare come matte, e tutto era bello, specialmente di notte, che tornando stanche morte speravano ancora che succedesse qualcosa, che scoppiasse un incendio, che in casa nascesse un bambino, o magari venisse giorno all’improvviso e tutta la gente uscisse in strada e si potesse continuare a camminare fino ai prati e fin dietro le colline

Inizia così il romanzo di Cesare Pavese  “La bella estate”,  che lo stesso autore definì con felice sintesi “la storia di una verginità che si difende”. In poco più di centocinquanta pagine, viene raccontata la perdita dell’innocenza di Ginia, una sedicenne adolescente torinese proveniente dall’ambiente operaio:  Ginia è affascinata da Amelia di due anni più grande che fa la modella e posa per alcuni pittori. Ginia accompagnata da Amelia entra in contatto con l’ambiente sregolato e pseudo intellettuale della bohème artistica torinese, che si incontra nei caffè e abita nelle soffitte. Farà in tal modo la conoscenza di Guido, un giovane pittore dal quale, tra resistenze e rimorsi, si lascerà sedurre.

Sullo sfondo di una Torino grigia e crepuscolare, si dipana la dolorosa maturazione di una ingenua adolescente. Pavese descrive la stagione della giovinezza, ricca di speranze, di tentazioni, di passione amorosa, di bisogno di violare le regole, di varcare il limite. Una stagione di entusiasmi e di sconfitte dove l’illusione di un’estate lascerà il posto all’inverno dell’età adulta. Pavese scrisse questo breve romanzo nel 1940 che venne pubblicato solo nel 1949 nel volume dal titolo omonimo che comprendeva “Il diavolo sulle colline” e “Tra donne sole”.

Ho letto questo libro a sedici anni,  e come accade sovente per il momento particolare in cui l’ho letto, ne ho sempre conservato un bel ricordo, anche perchè mi ha accompagnato nell’adolescenza durata ben più di una stagione. Rileggendolo a distanza di anni, ne ho apprezzato lo stile essenziale con cui Pavese non solo ha raccontato il passaggio doloroso all’età adulta ma il clima di un’epoca, gli anni del dopoguerra carico di attese presto deluse; è anche la scoperta della città e della società, il passaggio dalla favolosa/mitologica/ campagna alla vita moderna.

La bella estate non ha, soprattutto negli ultimi anni, goduto di considerazione da parte della critica; a mio parere ha giocato un ruolo fondamentale il fatto che la protagonista è donna, un’adolescente in cui è facile “sentire l’alito” della pipa di Pavese e nel tempo da parte dei critici ha preso il sopravvento  la misoginia dello scrittore e i suoi problemi sessuali; solo che Pavese nella sua vita infelice e nei motivi che lo hanno portato al suicidio sicuramente vanno ricercati, altri fattori, problemi “altri” sono all’origine del suo difficile rapporto con il sesso. Se si prendono in considerazione le vicende familiari come una sorta di “copione/ripetizione” da cui lo scrittore non si distaccherà, dalla morte prematura del padre, al difficile, doloroso rapporto con la severa e poco affettuosa madre ci si può rendere conto quanto con questo e ben altro ancora (le vicende turbinose e drammatiche del ‘900) Pavese abbia dovuto fare i conti nella sua vita.

Se si tralasciano questi condizionamenti il racconto di Ginia, la giovane protagonista della bella estate, è il ritratto autentico di una adolescente  che ha paura di trovarsi in un eterno limbo tra la primavera e l’estate, si diverte a vivere come un’adulta, lasciandosi trascinare dalla più grande Amelia, ma ha pensieri di una fanciulla. Anche l’amore per Guido è quello di una adolescente. E’ un turbinio di emozioni che la lascerà senza respiro, si trasformerà in una ossessione e segnerà la sua vita.

Non solo, ma Ginia, come Clelia in “tra amiche”, seppure siano, a mio parere, la trasposizione al femminile dello stesso Pavese, mi paiono tra i ritratti femminili più autentici della letteratura italiana classica che è stata povera di autrici e figure femminili senza una vera introspezione interiore, a partire da Lucia nei Promessi sposi sino ad arrivare ai contemporanei di Pavese tranne rare eccezioni (Ippolito Nievo, Pirandello). Una letteratura “maschile” incentrata sul dualismo Lucia/Agnese moglie/madre e la Monaca di Monza puttana.

E’ curioso e bello a questo proposito il confronto tra Ginia ricca di dolorose speranze e il fratello Severino, incapace di comprendere la sorella che muta sotto il suo sguardo, ma che lui non sa aiutare, perchè incapace lui stesso di vivere, abbrutito da un lavoro necessario per sopravvivere.  E anche lo stesso Guido, che raramente converserà con Ginia,  se non per denigrarla dell’essere ancora una bambina, esprime la gretta rappresentazione del mondo maschile pavesiano.

In verità Pavese con le donne che lo hanno accompagnato per brevi periodi (Tina Pizzardo, Fernanda Pivano, Bianca Garufi) ha instaurato un rispettoso sodalizio intellettuale e le ha sempre incoraggiate a seguire il proprio talento.

I critici di Pavese sono troppo condizionati dalla lettura del suo diario, come se il problema di Pavese fosse nei suoi genitali, mentre è chiaro che i suoi insuccessi sessuali hanno radici più profonde, come ho provato a delineare. L’idea del suicidio ha accompagnato Pavese per tutta la sua vita, difficile capire fino in fondo come se l’ossessione di conoscere e capire le donne in profondità, avesse costituito per lui un banco di prova, prova per un uomo francamente impossibile da superare.

Con la vittoria al premio Strega, proprio per la Bella Estate inizia l’ultima stagione di Pavese. Il 22 giugno scrive sul diario “Il mestiere di vivere”:

Domattina parto per Roma. Quante volte dirò ancora questa parola?

E’ una beatitudine. Indubbio. Ma quante volte la godrò ancora? E poi?

Questo viaggio ha l’aria di esser per essere il mio massimo trionfo. Premio mondano, Doris che mi parlerà – tutto il dolce senza l’amaro. E poi? e poi?

Il 24 giugno si reca a Roma a ritirare il premio, è stata Doris Dowling ad accompagnarlo, un pò esitante, smarrito alla cerimonia mondana.

“A Roma apoteosi. E con questo? Ci siamo. Tutto crolla. Lo stoicismo è il suicidio. Del resto sui fronti la gente ha ricominciato a morire (ndr guerra in Corea) Se mai ci sarà un mondo pacifico, felice, che cosa penserà di queste cose? forse quello che noi pensiamo dei cannibali, dei sacrifici aztechi, dei processi alle streghe” (il Mestiere di vivere 14 luglio ’50)

Il 6 luglio 1950 scrive a Doris Dowling

Bene, ho ricevuto una cartolina allegra e rassicurante di Connie dal New Mexico (del 27 giugno) ed ero molto triste sapendo, come so, che non tornerà mai. Mi sentivo come un uomo a cui tortuosamente si dice che ha il cancro. Uno non può avere troppo dalla vita (!), ma tutto quello che uno ha sembra spzzatura. E’ tanto che ho capito che la mia sorte è abbracciare delle ombre. Bene. Roma era grande, ma che cosa sarebbe stata senza la tua amorevolezza e la tua cura? Mi hai fatto sentire in pace con te e con la mia sorte – cosa difficile – sei stata una vera amica, una sorella affezionata, qualcosa che non conoscevo – perchè non ci si può sentire sempre così e ci sono guerre, minacce, amore e sesso, oceani e cancro? Spero che salti fuori qualcosa che ti trattenga un po’ più a lungo in Italia. Lavorare per le sorelle D. è tutto quello che mi resta ora. Non ridere, sono quasi vecchio. Dada era felice e non vede l’ora di rivederti. Stanno festeggiandomi (intendo tutta Torino e l’Italia) come un piccolo Cesare e io mi comporto più graziosamente che posso. Il gaio di queste cose è che arrivano sempre quando uno le ha già superate e sta inseguendo dei strani e diversi, bene Doris, da sabato a lunedì andrò a visitare (per l’ultima volta) il mio paese. Non telefonarmi in quei giorni. Dopo sarò tuo di nuovo , Saluta harry e Nico.

A capodanno del 1950 a Roma Pavese incontra le sorelle Dowling, attrici americane alla ricerca di successo a Cinecittà. Doris sta girando Riso amaro, a cui Pavese ha collaborato per la sceneggiatura. In primavera si innamora della sorella Connie. Dalla speranza dell’inizio si passa presto all’idea del suicidio. E vero che la malinconia, l’autoderisione, l’idea del suicidio sono costantemente presenti dall’inizio del diario, ma la disperazione delle ultime pagine sono una vera marcia funebre sconvolgente

Lettera – l’ultima, che Pavese scrisse a Connie Dowling il 17 aprile 1950:

“Carissima, non sono più in animo di scrivere poesie. Le poesie sono venute con te e se ne vanno con te. Questa l’ho scritta qualche pomeriggio fa, durante le lunghe ore all’Hotel in cui aspettavo, esitando, di chiamarti. Perdonane la tristezza, ma con te ero anche triste. Vedi, ho cominciato con una poesia in inglese e finisco con un’altra. C’è in esse tutta l’ampiezza di quel che ho sperimentato in questo mese: l’orrore e la meraviglia. Carissima, non avercela a male se sto sempre parlando di sentimenti che tu non puoi condividere. Almeno puoi capirli. Voglio che tu sappia che ti ringrazio di tutto cuore. I pochi giorni di meraviglia che ho strappato dalla tua vita erano quasi troppo per me – bene, sono passati, ora comincia l’orrore, il nudo orrore e io sono pronto a questo. La porta della prigione è tornata a chiudersi di schianto….Farai in tempo a ricevere La luna e i falò. Forse sarà già ad aspettarti ain North Vista Avenue prima che tu arrivi. Sono così contento che ci sia il tuo nome. Ricorda che ho scritto questo libro – interamente – prima di conoscerti, eppure in qualche modo sentivo in questo libro che stavi per venire. Non è stato meraviglioso viso di primavera, io di te amavo tutto, non solo la tua bellezza, il che è abbastanza facile, ma anche la tua bruttezza, i tuoi momenti brutti, la tua tachenoire, il tuo viso chiuso. E pure ti compiango. Non dimenticarlo.”

 

La lettera a Billi Fantini, segretaria del Premio Strega, del 20 luglio del 1950:

Cara B.io non mi “preoccupo” di niente. Ho abbastanza grattacapi, personali e storici, da occuparmi giorno e notte. Questo però non toglie che mi dispiace vedere le energie altrui versarsi sulla sabbia e sparire. Creda a me, nessuno come me in questi mesi sa quanto sia vana una pena, una sofferenza, un’acquolina di questo genere.

Questo mi dispiace, anche se a me non ne vengono che gli omaggi – la “prodigiosa” intelligenza, l’”insostituibilità” di Leucò, ecc. A proposito che vuol dire che la prediletta Luna è stata tradita con Leucò? Vuol forse dire che lei ha capito che Leucò è il mio biglietto da visita presso i posteri? Pochi ci arrivano. Tanto meglio.

Mi ricordo sovente dell’alba e del profilo della casetta perchè mi sono molto piaciuti – sono un mio “mito” antico. Che cos’è il mito? Deve leggere in “Feria d’agosto” il saggetto intitolato “Del mito, del simbolo e d’altro”, oppure nel primo numero di “Cultura e realtà” la rivista che ha allarmato, a mio parere ingiustificatamente, il partito, l’altro soggetto intitol. “Il mito”. Lei non sa che sono anche un filosofo, un teorico dell’arte? Non c’è cosa ch’io non possa fare, quando beninteso non sia “sregato”. Allora divento un “cavaliere dalla triste figura” e mi rodo il fegato. Brutta sorte.

Auguri B., e si convinca che fuori dei libri scritti io non sono che una mezza cartuccia, un “angolino da ripulire”, un vermiciattolo.

Pavese

Pavese, ormai entrato nella fase più acuta della crisi, passa alcuni giorni dell’agosto 1950 a Bocca di Magra nella casa di villeggiatura di Giulio Einaudi e si invaghisce di una ragazza di 18 anni a cui scrive biglietti “Ogni tuo ballo è un giorno di meno nella mia vita. Me ne restano pochi. P” e almeno tre lettere in cui manifesta l’intenzione di suicidarsi, ecco seconda lettera a Pierina (Romilda Bollati), Agosto 1950.

Cara Pierina, ma tu, per quanto inaridita e quasi cinica, non sei alla fine della candela come me. Tu sei giovane, incredibilmente giovane, sei quello che ero io a vent’otto anni quando, risoluto di uccidermi per non so che delusione, non lo feci – ero curioso dell’indomani, curioso di me stesso – la vita mi era parsa orribile ma trovavo ancora interessante me stesso. Ora è l’inverso: so che la vita è stupenda ma che io ne sono tagliato fuori, per merito tutto mio, e che questa è una futile tragedia, come avere il diabete o il cancro dei fumatori. Posso dirti, amore, che non mi sono mai svegliato con una donna mia al fianco, che chi ho amato non mi ha mai preso sul serio, e che ignoro lo sguardo di riconoscenza che una donna rivolge a un uomo ? E ricordarti che, per via del lavoro che ho fatto, ho avuto i nervi sempre tesi e la fantasia pronta e decisa, e il gusto delle confidenze altrui? E che sono al mondo da quarantadue anni ? Non si può bruciare la candela dalle due parti – nel mio caso l’ho bruciata tutta da una parte sola e la cenere sono i libri che ho scritto. Tutto questo te lo dico non per impietosirti – so che cosa vale la pietà, in questi casi – ma per chiarezza, perchè tu non creda che quando avevo il broncio lo facessi per sport o per rendermi interessante. Sono ormai aldilà della politica. L’amore è come la grazia di Dio – l’astuzia non serve. Quanto a me, ti voglio bene, Pierina, ti voglio un falò di bene. Chiamiamolo l’ultimo guizzo della candela. Non so se ci vedremo ancora. Io lo vorrei – in fondo non voglio che questo – ma mi chiedo sovente che cosa ti consiglierei se fossi tuo fratello. Purtroppo non lo sono.

Amore.

Pav.

Nel frattempo Cesare Pavese il 12 o 13 agosto rientra a Torino e si stabilisce nell’albero Roma vicino alla stazione Porta Nuova, sul diario di quei giorni annota:

16 agosto: “Cara, forse tu sei davvero la migliore – quella vera. Ma non ho più il tempo di dirtelo, di fartelo sapere – e poi, se anche potessi, resta la prova, la prova, il fallimento.

Vedo oggi chiaramente che dai 28 a oggi ho sempre vissuto sotto quest’ombra – qualcuno direbbe un complesso. E dica pure: è qualcosa di molto più semplice.

Anche tu sei la primavera, un’elegante, incredibilmente dolce e flessibile primavera, dolce, fresca, sfuggente – corrotta e buona – «un fiore della dolcissima valle del Po», direbbe chi so io.
Eppure, anche tu sei soltanto un pretesto. La colpa, dopo che mia, è soltanto dell’«inquieta angosciosa, che sorride da sola.”

Perchè morire? non sono mai stato vivo come ora, mai cosi adolescente.

Nulla si assomma al resto, al passato. Ricominciamo sempre.

Chiodo scaccia chiodo. Ma quattro chiodi fanno una croce.

“La mia parte pubblica l’ho fatta – ciò che potevo. Ho lavorato, ho dato poesia agli uomini, ho condiviso le pene di molti.”

17 agosto 1950

I suicidi sono omicidi timidi. Masochismo invece di sadismo.

Il piacere di farmi la barba dopo due mesi di carcere – di farmela da me, davanti a uno specchio, in una stanza d’albergo, e fuori era il mare.

E’ la prima volta che faccio il consuntivo di un anno non ancor finito.
Nel mio mestiere dunque sono re.
In dieci anni ho fatto tutto. Se penso alle esitazioni di allora.
Nella mia vita sono più disperato e perduto di allora. Che cosa ho messo insieme? Niente. Ho ignorato per qualche anno le mie tare, ho vissuto come se non esistessero. Sono stato stoico. Era eroismo? No, non ho fatto fatica. E poi, al primo assalto dell’ “inquieta angosciosa”, sono ricaduto nella sabbia mobile. Da marzo mi ci dibatto. Non importano i nomi. Sono altro che nomi di fortuna, nomi casuali – se non quelli, altri? Resta che ora so qual è il mio più alto trionfo – e a questo trionfo manca la carne, manca il sangue, manca la vita.
Non ho più nulla da desiderare su questa terra, tranne quella cosa che quindici anni di fallimenti ormai escludono.
Questo il consuntivo dell’anno non finito, che non finirò.

Ti stupisci che gli altri ti passino accanto e non sappiano, quando tu passi accanto a tanti e non sai, non t’interessa, qual è la loro pena, il loro cancro segreto?

18 agosto

La cosa più segretamente temuta accade sempre.

Scrivo: o tu, abbi pietà. E poi?

Basta un pò di coraggio.

Più il dolore è determinato e preciso, più l’istinto della vita si dibatte, e cade l’idea del suicidio.

Sembrava facile, a pensarci. Eppure donnette l’hanno fatto.

Ci vuole umiltà, non orgoglio

Tutto questo fa schifo.

Non parole. Un gesto. Non scriverò più.

 

Il giurista Piero Calamandrei, ha letto la Luna e i falò e gli scrive, confessando di esserne rimasto, “più che ammirato, turbato” (1)

Pavese risponde da Torino il 21 agosto 1950

Caro Calamandrei,
la sua lettera è venuta come una brezza nel deserto. Traversavo e traverso un periodo tristissimo, e sia pure soltanto un sollievo come quello di sentire che non si è lavorato invano e che i migliori d’Italia se ne sono accorti, è bastato a darmi respiro. Le espressioni che ha voluto usare riguardo alla mia opera sono tali che, se non fossi certo di chi è Calamandrei, quasi avrei creduto a una leggera canzonatura. Ma so bene invece il loro senso, e considero la lettera epoch-makingnella mia vita.
Spero di superare queste secche e lavorando dell’altro darle ragione fino in fondo. Ma quella “serena contemplazione del ricordo” che lei rileva nei miei libretti non è stata se non a prezzo di tali rinunzie nella mia vita che oggi ne sono tramortito. Vedremo.
Grazie, caro Calamandrei, suo

Cesare Pavese

Il 21 agosto P. scrive a Tullio Pinelli e alla moglie Maria Teresa Quilico amici da 25 anni quando frequentavano il liceo Massimo d’Azeglio a Torino

‘Invidio la vostra cristiana testardaggine. Io ho un diavolo per capello – e purtroppo ho molti capelli, non riesco a incalvire.n Il premio chi se lo ricorda? sono balle. Val la pena questa gloria? io sono come Lacoonte: mi inghirlando artisticamente coi serpenti e mi faccio ammirare – poi ogni tanto mi accorgo dello stato in cui sono e allora scrollo i serpenti, gli tiro la coda, e loro strizzano e mordono. E’ un gioco che dura da vent’anni. Comincio ad averne abbastanza. Nessun amico ho cercato a Roma, perchè non ne volevo. Vivete allegri e speriamo di vederci –  chi sa – magari in cielo’. Pavese

Il 25 agosto scrive a Giuseppe Vaudagna:

Caro Giuseppe,

Cosa sono questi isterismi? Mi dispiace di aver avuto il tono nero parlando con Adele, ma è semplicemente che ho l’anima rigata per ragioni mie, sono a pezzi, non ho voglia di veder nessuno e pagherei a peso d’oro un assassino che mi accoltellasse nel sonno. Evidentemente tutto ciò si sente dalla voce.

Nè cerco conforto. Non ne ho voglia nè fiato. Tiro avanti per conto mio, sperando che sia presto tutto finito.

Per te e per le tue fraterne proteste ho gratitudine e riconoscenza.

Non pensare ad altro. Ciao. Pavese

Nella notte del 27  agosto, Pavese si uccide nella sua camera d’albergo inghiottendo il contenuto di numerose cartine di sonnifero.

 

Sul frontespizio dei Dialoghi con Leucò posato sul tavolino, Pavese scrive le sue ultime parole

Appendice

ripubblico stralci dell’articolo di Guido Ceronetti per La Stampa , il 23 agosto 2010  (?)  qui potete leggere il testo integrale

di Guido Ceronetti

Se il narratore non si trova in una condizione delle più allegre, chissà con quanto sollievo parlerà degli ultimi giorni che avrà trascorso un disperato suicida!
Mi accingo dunque a immaginare come sarà stata la vita di Cesare Pavese, a Torino, tra il ferragosto e la sua ultima notte, il 27 del mese.

Avevo 23 anni, ricordo nitidamente l’uscita di casa per comprare La Stampa a un’edicola che c’era allora a metà della via della Consolata, dove passava il tram n. 2 percorrendo un lunghissimo viaggio, dalla Madonna di Campagna all’ospedale delle Molinette. In verità, di Pavese fino ad allora non avevo mai letto nulla. Leggevo le recensioni dei suoi libri che faceva, puntuali, Arrigo Cajumi, che ne amò la scrittura; ad attirarmi fu la pubblicazione, notevolmente censurata, del Diario, mi pare nel 1952..

in centro, arriva con una piccola valigia, a piedi, al Roma, il 12 o 13 di agosto. Il gesto era preparato; uno spiraglio per distogliersene o rinviarlo è impossibile non rimanesse aperto.

I contenuti della valigia di un suicida, quando non ne esca di casa privo, sono importanti….

La valigetta di Pavese era delle più povere: avrebbe comprato il Nembutal, con ricetta, in una farmacia di via Sacchi, poco prima di assumerlo in dose da congedo; il resto erano un pettine di tartaruga, dono di Constance Dowling, l’ultimo blocco di fogli del Diario, una sola camicia di ricambio. L’estrema nota del Diario, uno dei grandi diari del secolo, ha la data del 18 col proposito mantenuto: non scriverò più.

Due o tre libri li aveva portati. Tra questi il Voyage di Céline, nelle Denoël e Steele, suo primo editore. L’esistenza può esserci pochissimo o per niente tollerabile, ma di leggere non ci lascia mai l’abitudine appassionata, quando ci sia – vizio ragionevole. Nonostante la sua determinazione, non era impossibile che un venticello contrario lo facesse ritrarre: le note estreme del Diario, scritte nella camera del Roma o su una panchina dei giardini Sambuy in piazza Carlo Felice, contengono echi di una esortazione segreta. Un pensiero compiacente può averlo attraversato, comune nei suicidi per amore: «Così lei saprà quanto l’ho presa sul serio, fino in fondo!».

Ma a lei, già tornata in America, visto il fiasco incontrato nel suo voler far carriera, grazie a Cesare, utilizzabile soltanto per questo, a Cinecittà, di quell’auto immolazione alle sue mediocri grazie, non poteva importarne proprio nulla. L’ululato di passione che arroventa gli ultimi scardinati versi, quale effetto avrebbe potuto farle? Il paragone tra lo sguardo della morte e quello di Connie non era fatto per lusingarla. Ormai voleva dimenticarla, la sua avventura romana con lo scrittore di successo, disperato di averne così poco, da sempre, tra le lenzuola.

I suoi amici e compagni del D’Azeglio sapevano tutti della sua maniacale fissazione sull’insuccesso sessuale, al punto da precipitarlo nello sguardo di Constance-la Morte. Qualche volta lo redarguivano, per affetto e un po’ per sazietà delle sue geremiadi… Bisogna considerare l’epoca e i suoi costumi; a partire da una ventina d’anni dopo le donne avranno in genere una maggiore conoscenza del dramma sessuale maschile e sulle diverse forme d’impotenza non emetteranno più sentenze di condanna… Del resto queste fanno parte tuttora dell’immaginario maschile. Pavese, con le sue ossessioni croniche di eiaculatio praecox, finiva con l’apparire anche alle amanti più disposte come un incapace radicale di dare amore, difetto, questo sì, immeritevole di perdono.

Glielo diceva anche l’amico Felice Balbo, incontrato qualche giorno prima a un tavolino del caffè San Carlo: «La virilità non sta in quello, mio caro: ma nella tua formidabile capacità di lavoro… L’eroe Orlando, quello della Durlindana, maneggia molto meglio la spada che il suo bìschero, lo dice il Boiardo! E tu la stilo, la portatile… Ma va’! Ucciderti per quell’attricetta del pettine, impotente – lei, sì! – a comprenderti, ad aiutarti… Dopo Hiroshima c’erano un milione almeno di sopravvissuti maschi del Pikadòn, tutti con l’uccello morto. E a moltissimi, per il lavoro e la dedizione infinita delle donne, dopo un anno, due, tre di sforzi appassionati, è tornato a volare come un condor!! Ma è Oriente… Va’ in Giappone, cèrcati una giapponese! La morte non avrà gli occhi di Constance, te l’assicuro… L’Angelo Sterminatore, dicono i cabalisti, è tutto fatto di occhi! Uno senza palle non avrebbe mai scritto La luna e i falò…».

Ma era ormai preda del magnetismo d’occhi dello Sterminatore, che nessuno mai ha veduto. Gli restavano poche, scardinate ore. Rilesse qualche pagina di Céline, mai troppo invitante a vivere, ripassò approvando le ultime note di diario, e buttò giù il congedo rivolto agli anonimi Tutti.

Lasciò accesa la luce accanto al letto e ingerì come per distrazione, ogni tanto fermandosi qualche minuto, la dose mortale. Se in quel momento il telefono, dalla portineria, avesse squillato… Ma l’Angelo aveva tagliato i fili. Cesare si stende sul letto, e aspetta.

(1)

Marina di Poveromo, 14 agosto 1950

Caro Pavese,
quantunque non abbia il piacere di conoscerla di persona, non posso fare a meno di scriverle: perché mezz’ora fa ho terminato di leggere La luna e i falò.
Solo nelle poche vacanze posso permettermi il lusso di leggere libri di mio gusto. Ho seguito in questi anni con crescente comprensione la Sua opera di narratore. Il secondo racconto di Prima che il gallo canti, che lessi qualche mese fa, m’aveva colpito ancor più degli altri Suoi scritti. Ora, in queste vacanze d’agosto ho potuto leggere con viva ammirazione il trittico di Bella d’estate, e tra ieri e oggi La luna e i falò. E ne sono ancora, più che ammirato, turbato.
Questa è grande arte e poesia vera: di fronte a pagine come queste, dove il dolore della vita è filtrato attraverso la serena contemplazione del ricordo, le polemiche sui fini dell’arte e sulle relazioni tra arte e politica non hanno più senso. Gli artisti veri, senza proporselo, toccano sempre le ferite della loro società, l’accento occasionale che prende nel loro tempo la eterna pena dell’uomo: sono del loro tempo e di tutti i tempi.
Permetta a un lettore privato di salutarla con gratitudine.
Il suo,

Piero Calamandrei



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2 commenti

Ornella Mucci 4 Luglio 2021 - 0:43

Lo sempre adorato perché le sue malinconie sono state per alcuni periodi anche le mie…! Questo articolo mi ha ricordato quanto lo amato e prendo spunto per andare a rileggerlo ! I suoi turbamenti da perenne adolescente e la sua analisi matura delle vicende del suo tempo ,fanno di lui una degli autori più grandi del novecento!

Rispondi
p.sala 10 Luglio 2021 - 19:25

complimenti all’autore della compilazione

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