Dialoghi con Leucò, il romanzo più amato da Pavese e meno apprezzato dai suoi lettori

per Gian Franco Ferraris
Autore originale del testo: Gian Franco Ferraris

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di Gian Franco Ferraris – 27 agosto 2017

«Perdono tutti e a tutti chiedo perdono. Va bene? Non fate troppi pettegolezzi».

È il 27 agosto del 1950. Cesare Pavese annota il suo ultimo messaggio su una copia dei Dialoghi con Leucò. Lo scrittore ha deciso di interrompere, vivendolo, quel «vizio assurdo» che ha caratterizzato tutta la sua esistenza. Lo scrittore decise di affidare quelle poche righe del suo congedo a un’opera singolare e mitologica, accolta con freddezza dal pubblico e con perplessità dalla critica, un vero insuccesso ma che ha in sé i cardini della sua poetica: la ‘pavesizzazione’ del mito

E’ curioso che nella prefazione della prima edizione del volume (ottobre 1947) Pavese stesso scrisse in terza persona, questo testo di presentazione:

«Cesare Pavese, che molti si ostinano a considerare un testardo narratore realista, specializzato in campagne e periferie americano-piemontesi, ci scopre in questi Dialoghi un nuovo aspetto del suo temperamento. Non c’è scrittore autentico, il quale non abbia i suoi quarti di luna, il suo capriccio, la musa nascosta, che a un tratto lo inducono a farsi eremita. Pavese si è ricordato di quand’era a scuola e di quel che leggeva: si è ricordato dei libri che legge ogni giorno, degli unici libri che legge. Ha smesso per un momento di credere che il suo totem e tabù, i suoi selvaggi, gli spiriti della vegetazione, l’assassinio rituale, la sfera mitica e il culto dei morti, fossero inutili bizzarrie e ha voluto cercare in essi il segreto di qualcosa che tutti ricordano, tutti ammirano un po’ straccamente e ci sbadigliano un sorriso. E ne sono nati questi Dialoghi»

Pavese in questa presentazione scherzosa nasconde l’audacia e l’ambizione di aver scritto in rottura con lo stile e la cultura neorealistica del tempo che proprio nel 1947 aveva raggiunto l’apice sia in quantità che in qualità nella letteratura e nel cinema e di cui Pavese era considerato un capofila.

Bianca Garufi, con cui Pavese ha vissuto nell’immediato dopoguerra un tormentato e bellissimo amore discorde (1), è  l’ispiratrice del libro Dialoghi con Leucò: Bianca stessa è l’alba, Leucò [leukôs è bianco, in greco], candida e agghiacciante, un pò Circe e un pò Calipso, strega o belva “se questa persona – una magra ragazza selvatica – è la belva, la cosa selvaggia, la natura intoccabile…..che mi guardava con quegli occhi un poco obliqui, occhi fermi, trasparenti, grandi dentro Io non lo seppi allora, non lo sapevo l’indomani, ma ero già cosa sua, preso nel cerchio dei suoi occhi, dello spazio che occupava, della raduna, del monte.” Bianca è la donna che più ha influito sulla sua creatività, a lei ha dedicato il gruppo (9) poesie “La terra e la morte” della stessa atmosfera dei dialoghi di mitologia mediterranea.

Sei la terra e la morte.
La tua stagione è il buio
e il silenzio. Non vive
cosa che piú di te
sia remota dall’alba.

Quando sembri destarti
sei soltanto dolore,
l’hai negli occhi e nel sangue
ma tu non senti. Vivi
come vive una pietra,
come la terra dura.
E ti vestono sogni
movimenti singulti
che tu ignori. Il dolore
come l’acqua di un lago
trepida e ti circonda.
Sono cerchi sull’acqua.
Tu li lasci svanire.
Sei la terra e la morte.

Bianca Garufi e Pavese insieme, a capitoli alterni, scrissero anche il romanzo “Fuoco Grande” che rimase incompiuto all’undicesimo capitolo e venne pubblicato postumo nel 1959 da Einaudi per volontà di Italo Calvino.

La corrispondenza tra Bianca Garufi e Pavese continuò anche dopo la fine del loro amore discorde e nel diario di Bianca, che praticò la psicoanalisi junghiana, si trova questo ricordo: «Ho scritto, su queste pagine, che Pavese si è suicidato? (…). Pavese, sciocco, non potevi farti aiutare? Io forse, adesso, ti potevo aiutare».

Da parte mia ho letto i Dialoghi da ragazzo e non ci ho capito nulla, mi era parso un gioco, un esercizio di cultura nel richiamarsi alle “operette morali” di Leopardi o a Omero come quando presenta il dialogo tra Achille e Patroclo: superfluo citare Omero. Noi abbiamo voluto semplicemente riferire un colloquio che ebbe luogo la vigilia della morte di Patroclo.”

Ma molti anni dopo ho letto un libro di Milan Kundera “L’ignoranza” che ha come argomento cardine quello dell’esilio, della nostalgia (nóstos: ritorno, álgos: sofferenza) ecco un brano dell’opera:

L’Odissea, l’epopea fondatrice della nostalgia, è nata agli albori dell’antica cultura greca. Va sottolineato: Ulisse, il più grande avventuriero di tutti i tempi, è anche il più grande nostalgico. Partì (senza grande piacere) per la guerra di Troia e vi rimase dieci anni. Poi si affrettò a tornare alla natia Itaca, ma gli intrighi degli dei prolungarono il suo periplo, dapprima di tre anni, pieni dei più bizzarri avvenimenti, poi di altri sette, che trascorse, ostaggio e amante, presso la dea Calipso, la quale, innamorata, non lo lasciava andar via dalla sua isola.
Nel quinto canto dell’Odissea, Ulisse le dice: “So anch’io, e molto bene, che a tuo confronto la saggia Penelope per aspetto e grandezza non val niente a vederla… ma anche così desidero e invoco ogni giorno di tornarmene a casa, vedere il ritorno”. E Omero prosegue: “Così diceva: e il sole s’immerse e venne giù l’ombra: entrando allora sotto la grotta profonda l’amore godettero, stesi vicini l’uno all’altra”.
Nulla che si possa paragonare alla misera condizione di esule che Irena aveva a lungo vissuto. Ulisse conobbe accanto a Calipso una vera dolce vita, vita di agi, vita di gioie. Eppure, fra la dolce vita in terra straniera e il ritorno periglioso a casa, scelse il ritorno. All’esplorazione appassionata dell’ignoto (l’avventura), preferì l’apoteosi del noto (il ritorno). All’infinito (giacché l’avventura ha la pretesa di non avere mai fine), preferì la fine (giacché il ritorno è la riconciliazione con la finitezza della vita).
Senza svegliarlo, i marinai di Feacia adagiarono Ulisse avvolto nei lini sulla spiaggia di Itaca, ai piedi di un ulivo, e se ne andarono. Fu questa la fine del viaggio. Ulisse dormiva, esausto. Quando si svegliò, non sapeva dov’era. Poi Atena disperse la nebbia dai suoi occhi e fu l’ebbrezza; l’ebbrezza del Grande Ritorno; l’estasi del noto; la musica che fece vibrare l’aria tra la terra e il cielo: vide l’insenatura che conosceva sin dall’infanzia, i due mondi che la sovrastavano, e carezzò il vecchio ulivo per assicurarsi che fosse ancora quello di vent’anni prima.
Nel 1950, quando Arnold Schömberg viveva negli Stati Uniti da ormai diciasette anni, un giornalista americano gli rivolse alcune domande perfidamente ingenue: E’ vero che gli artisti emigrando perdono la loro forza creatrice? E’ vero che l’ispirazione inaridisce non appena le radici del paese natale cessano di alimentarla?
Ci pensate? Cinque anni dopo l’olocausto! E un giornalista americano non perdona a Schömberg di non essere legato a quel lembo di terra dove, sotto i suoi occhi, si era scatenato l’orrore degli orrori! Non c’è niente da fare. 
Omero rese gloria alla nostalgia con una corona d’alloro e stabilì in tal modo una gerarchia morale dei sentimenti. Penelope sta in cima, molto al di sopra di Calipso. Calipso, oh Calipso! Pensò spesso a lei. Ha amato Ulisse. Hanno vissuto insieme sette anni. Non sappiamo per quanto tempo Ulisse avesse condiviso il letto di Penelope, ma certo non così a lungo. Eppure tutti esaltano il dolore di Penelope e irridono le lacrime di Calipso.

Di solito mi piace come scrive Milan Kundera, ma questo testo mi è rimasto impresso nella mente, l’avventura contrapposta alla nostalgia, alla finitezza della vita e d’impulso sono ritornato alla dominante pulsione di morte di Pavese a “L’isola” il capitolo dei Dialoghi in cui parlano Calipso e Odisseo

CALIPSO Odisseo, non c’è nulla di molto diverso. Anche tu come me vuoi fermarti su un’isola. Hai veduto e patito ogni cosa. Io forse un giorno ti dirò quel che ho patito. Tutti e due siamo stanchi di un grosso destino. Perché continuare? Che t’importa che l’isola non sia quella che cercavi? Qui mai nulla succede. C’è un po’ di terra e un orizzonte. Qui puoi vivere sempre.
ODISSEO Una vita immortale.
CALIPSO Immortale è chi accetta l’istante. Che non conosce più un domani. Ma se ti piace la parola, dilla. Tu sei davvero a questo punto?
ODISSEO Io credevo immortale chi non teme la morte.
CALIPSO Chi non spera di vivere. Certo, quasi lo sei. Hai patito molto anche tu. Ma perché questa smania di tornartene a casa? Sei ancora inquieto. Perché i discorsi che da solo vai facendo tra gli scogli?
ODISSEO Se domani io partissi tu saresti infelice?
CALIPSO Vuoi sapere troppo, caro. Diciamo che sono immortale. Ma se tu non rinunci ai tuoi ricordi e ai sogni, se non deponi la smania e non accetti l’orizzonte, non uscirai da quel destino che conosci,.
ODISSEO Si tratta sempre di accettare un orizzonte. E ottenere che cosa?
CALIPSO Ma posare la testa e tacere, Odisseo. TI sei mai chiesto perché anche noi cerchiamo il sonno? Ti sei mai chiesto dove vanno i vecchi dèi che il mondo ignora?perchè sprofondano nel tempo, come le pietre nella terra, loro che pure sono eterni? E chi son io, che è Calipso?
ODISSEO Ti ho chiesto se tu sei falice.
CALIPSO Non è questo, Odisseo. L’aria, anche l’aria di quest’isola deserta, che adesso vibra solamente dei rimbombi del mare e di stridi d’uccelli, è troppo vuota. In questo vuoto non c’è nulla da rimpiangere, bada. Ma non senti anche tu certi giorni un silenzio, un arresto, che è come la traccia di un’antica tensione e presenza scomparse?
ODISSEO Dunque anche tu parli con gli scogli?
CALIPSO E’ un silenzio, ti dico. Una cosa remota e quasi morta. Quello che è stato e non sarà mai più. Nel vecchio mondo degli dèi quando un mio gesto era destino. Ebbi nomi paurosi, Odisseo. La terra e il mare mi obbedivano. Poi mi stancai; passò del tempo, non mi volli più muovere. Qualcuna di noi resisté ai nuovi dèi ; lasciai che i nomi sprofondassero nel tempo; tutto mutò e rimase uguale; non vale la pena di contendere ai nuovi il destino. Ormai sapevo il mio orizzonte e perché i vecchi non avevano conteso con noialtri.
ODISSEO Ma non eri immortale?
CALIPSO E lo sono, Odisseo. Di morire non spero. E non spero di vivere. Accetto l’istante. Voi mortali vi attende qualcosa di simile, la vecchiezza e il rimpianto. Perché non vuoi posare il capo con me, su quest’isola?
ODISSEO Lo farei, se credessi che sei rassegnata. Ma anche tu che sei stata signora di tutte le cose, hai bisogno di me, di un mortale, per aiutarti a sopportare.
CALIPSO E’ un reciproco bene, Odisseo. Non c’è vero silenzio se non condiviso.
ODISSEO Non ti basta che sono con te quest’oggi?
CALIPSO Non si con me, Odisseo. Tu non accetti l’orizzonte di quest’isola. E non sfuggi al rimpianto.
ODISSEO Quel che rimpiango è parte viva di me stesso come di te il tuo silenzio. Che cos’è mutato per te da quel giorno che terra e mare ti obbedivano? Hai sentito ch’eri sola e ch’eri stanca e scordato i tuoi nomi. Nulla ti è stato tolto. Quel che sei l’hai voluto.
CALIPSO Quello che sono è quasi nulla, caro. Quasi mortale, quasi un’ombra come te. E’ un lungo sonno cominciato chissà quando e tu sei giunto in questo sonno come un sogno. Temo l’alba, il risveglio; se tu vai via, è il risveglio
ODISSEO Sei tu, la signora, che parli?
CALIPSO Temo il risveglio come tu temi la morte. Ecco prima ero morta, ora lo so. Non restava di me su quest’isola che la voce del mare e del vento. Oh non era patire. Dormivo. Ma da quando sei giunto hai portato un’altra isola in te.
ODISSEO Da troppo tempo la cerco. Tu non sai quel che sia avvistare una terra e socchiudere gli occhi ogni volta per illudersi. Io non posso accettare e tacere.
CALIPSO Eppure, Odisseo, voi uomini dite che ritrovare quel che si è perduto è sempre un male. Il passato non torna. Nulla regge all’andare del tempo. Tu che hai visto l’Oceano, i mostri e l’Eliso, potrai ancora riconoscere le case, le tue case?
ODISSEO Tu stessa hai detto che porto l’isola in me
CALIPSO Oh mutata, perduta, un silenzio. L’eco di un mare tra gli scogli o un po’ di fumo. Con te nessuno potrà condividerla. Le case saranno come il viso di un vecchio. Le tue parole avranno un senso altro dal loro. Sarai più solo che nel mare.
ODISSEO Saprò almeno che devo fermarmi.
CALIPSO Non vale la pena, Odisseo. Chi non si ferma adesso, subito, non si ferma mai più. Quello che fai, lo farai sempre. Devi rompere una volta il destino, devi uscire di strada, e lasciarti affondare nel tempo..
ODISSEO Non sono immortale.
CALIPSO Lo sarai, se mi ascolti. Che cos’è vita eterna se non questo accettare l’istante che viene e l’istante che va? L’ebbrezza, il piacere, la morte non hanno altro scopo. Cos’è stato finora il tuo errare inquieto?
ODISSEO Se lo sapessi avrei già smesso. Ma tu dimentichi qualcosa.
CALIPSO Dimmi
ODISSEO Quello che cerco l’ho nel cuore, come te.

 

Pavese restò profondamente deluso dalla freddezza con cui furono accolti, sia nell’ambiente letterario che in quello accademico i Dialoghi con Leucò, come traspare nel “Mestiere di vivere” e nell’epistolario. In questa lettera a Billi Fantini del 20 luglio del 1950, un mese prima del suicidio, considera i Dialoghi come il suo «biglietto da visita presso i posteri»:

Cara B.

io non mi “preoccupo” di niente. Ho abbastanza grattacapi, personali e storici, da occuparmi giorno e notte. Questo però non toglie che mi dispiace vedere le energie altrui versarsi sulla sabbia e sparire. Creda a me, nessuno come me in questi mesi sa quanto sia vana una pena, una sofferenza, un’acquolina di questo genere.

Questo mi dispiace, anche se a me non ne vengono che gli omaggi – la “prodigiosa” intelligenza, l'”insostituibilità” di Leucò, ecc. A proposito che vuol dire che la prediletta Luna è stata tradita con Leucò? Vuol forse dire che lei ha capito che Leucò è il mio biglietto da visita presso i posteri? Pochi ci arrivano. Tanto meglio.

Mi ricordo sovente dell’alba e del profilo della casetta perchè mi sono molto piaciuti – sono un mio “mito” antico. Che cos’è il mito? Deve leggere in “Feria d’agosto” il saggetto intitolato “Del mito, del simbolo e d’altro”, oppure nel primo numero di “Cultura e realtà” la rivista che ha allarmato, a mio parere ingiustificatamente, il partito, l’altro soggetto intitol. “Il mito”. Lei non sa che sono anche un filosofo, un teorico dell’arte? Non c’è cosa ch’io non possa fare, quando beninteso non sia “sregato”. Allora divento un “cavaliere dalla triste figura” e mi rodo il fegato. Brutta sorte.

Auguri B., e si convinca che fuori dei libri scritti io non sono che una mezza cartuccia, un “angolino da ripulire”, un vermiciattolo.

Pavese

I Dialoghi con la morte prematura di Pavese restarono un insuccesso, ma l’interesse per tutta la sua opera si attutisce considerevolmente, dopo il periodo di fortuna se non addirittura di celebrazione di cui lo scrittore è oggetto nei primissimi anni del dopoguerra, i critici lo dimenticarono o nel caso di Alberto Moravia lo stroncarono con malevolenza e astuzia e anche letterati accorti come Natalino Sapegno e Carlo Salinari riconoscono l’importanza culturale di Pavese nel dopoguerra ma ritengono che tale funzione è «stata maggiore della sua resa artistica». Altri docenti hanno ironizzato sulle poesie d’amore di Pavese come si fa con quelle dei liceali adolescenti innamorati. Nonostante le critiche e le dimenticanze Cesare Pavese è stato negli anni sessanta e settanta un “mito” per intere generazioni e negli anni successivi ha mantenuto un successo con i lettori superiore agli altri autori del ‘900 italiano.

Tra le critiche degli ultimi anni vale la pena di leggere almeno Eleonora Cavallini “Pavese tra gli dèi: Calvino primo commentatore dei Dialoghi con Leucò”, della stessa autrice “Appunti per una performance multimediale di testi: i Dialoghi con Leucò di Cesare Pavese” e di Arnaldo Bruni “Pavese controcorrente: I Dialoghi con Leucò.

Ma il primo commento ai Dialoghi con Leucò si deve a Italo Calvino che lavorava con Pavese alla casa editrice Einaudi e che da poco, a 24 anni, aveva pubblicato ‘Il sentiero dei nidi di ragno”.

Calvino così esordisce:

Qualcuno, a leggere i Dialoghi con Leucò (Einaudi, 1947), ci rimarrà disorientato: questa da Pavese non se l’aspettava. Chi lo conosce, no: sa che questo Pavese dei Dialoghi è sempre esistito accanto all’altro, quello dei romanzi; anzi senza questo l’altro non sarebbe possibile: sono un Pavese solo, insomma.
Questo nuovo libro può servire a scoprire quanta fatica, quanta ricerca anche erudita costi la sua tecnica creativa: scopre cioè il Pavese umanista; perché là dove qualcuno crederebbe di trovare uno scrittore il più spregiudicatamente moderno, i cui interessi si fermano ai Vittoriani e a Melville, c’è invece un filologo che si traduce e annota il suo pezzo d’Omero ogni giorno, e uno scienziato che ha sviscerato tutta la più avanzata cultura mondiale in fatto d’interpretazione delle religioni primitive. Cesare Pavese, che molti si ostinano a considerare un testardo narratore realista, specializzato in campagne e periferie americano-piemontesi, ci scopre in questi Dialoghi un nuovo aspetto del suo temperamento. Non c’è scrittore autentico, il quale non abbia i suoi quarti di luna, il suo capriccio, la musa nascosta, che a un tratto lo inducono a farsi eremita. Pavese si è ricordato di quand’era a scuola e di quel che leggeva: si è ricordato dei libri che legge ogni giorno, degli unici libri che legge. Ha smesso per un momento di credere che il suo totem e tabù, i suoi selvaggi, gli spiriti della vegetazione, l’assassinio rituale, la sfera mitica e il culto dei morti, fossero inutili bizzarrie e ha voluto cercare in essi il segreto di qualcosa che tutti ricordano, tutti ammirano. E ne sono nati questi Dialoghi.
Sembrerebbe che Dialoghi con Leucò sia un’arida ricerca di filologia mitologica: è al contrario un appassionato quadro di un’umanità alle soglie della coscienza, che abbandona l’età della comunanza assoluta con la natura, l’età dei mostri e delle metamorfosi, per sentirsi a un tratto come separata dalle cose a trasformare la natura in nomi e in dèi, e a trovarsi di fronte i dubbi del destino, della libertà, della morte.
Un’antica verità che ancora vive sotto le nuove forme, il paganesimo animalesco e sanguinario dei primi culti contadini, che rimanda a quello descritto da Carlo Levi in “Cristo si è fermato a Eboli”.



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