di Toni Gaeta 19 settembre 2016
Allorché Laio, re di Tebe, seppe dall’oracolo di Delfi che il motivo per cui non aveva figli dalla regina Giocasta fosse la benedizione degli dei, i quali lo tutelavano dal parricidio di un futuro figlio, egli ripudiò la moglie senza dirle il motivo reale. Questa reagì facendolo ubriacare e portandolo nel talamo, dove inspiegabilmente fu concepito per la 1′ volta un figlio. Nove mesi dopo Laio strappò il neonato dalle braccia della madre e lo diede alla nutrice, affinché lo uccidesse. Quest’ultima forò i piedi del piccolo, per legarli insieme, in modo da appenderlo al freddo e alle intemperie sul monte Citerone (già conosciuto dai miei lettori nella descrizione della possibile interpretazione delle Baccanti di Euripde: https://www.nuovatlantide.org/le-baccanti-figlie-orgiastiche-della-grande-dea/
Gli dei olimpici, nel tentativo di influire sul suo “destino” di morte prematura, fecero in modo che un pastore corinzio lo trovasse, attraversando le balze del monte e lo chiamasse Edipo, a causa dei piedi deformati dalle ferite. Il pastore lo portò con sé a Corinto, dove regnava il re Polibo, anch’egli in attesa di un figlio. Edipo fu accolto con infinita gioia anche da Peribea, moglie di Polibo, che lo accudì come un vero figlio e come un grande dono degli dei.
Cresciuto, Edipo un giorno fu infastidito da un giovane corinzio, che sosteneva non fosse il vero figlio del re, per assenza assoluta di somiglianza con i presunti genitori. Egli, si recò allora presso l’oracolo di Delfi, per conoscere la verità, che fu rivelata al giovane nella forma di una traumatica ma anche enigmatica profezia: “Ucciderai tuo padre e sposerai tua madre !” – Per tale motivo Edipo, inorridito da questa profezia, si congedò dai suoi presunti genitori, che amava tanto e ai quali non avrebbe mai voluto fare del male. Tuttavia, nello stretto valico tra Delfi e Daulide egli s’imbatté in Laio con il suo cocchio, che gli intimò di scostarsi e di lasciare il passo ai suoi superiori. Edipo rispose che soltanto gli dei e i suoi genitori fossero suoi superiori. “Tanto peggio per te !” gridò Laio, che ordinò all’auriga Polifonte di fare avanzare i cavalli. Una delle ruote passò su un piede di Edipo, che, acceso dalla collera, uccise Polifonte con la lancia. Poi, dopo aver scagliato a terra Laio, imbrigliato nelle redini, Edipo spronò i cavalli, trascinando il corpo del padre fino a farlo morire.
Giunto davanti a Tebe, come molti sanno, egli superò l’ostacolo della Sfinge e fu accolto dai tebani come un trionfatore, che meritava di prendere in sposa Giocasta, come sua regina, giacché vedova di Laio, sebbene ignara madre di Edipo (e quest’ultimo suo ignaro figlio).
Come sappiamo dal proseguimento narrativo del mito, il tentativo divino di evitare ad Edipo la sopraffazione da parte del suo “fato” non riuscì. Questo perché il mito stesso intendeva essere di monito per tutti i Pelasgici, divenuti esseri dominati dai nuovi invasori indoeuropei (quelli che caratterizzarono l’Ellade: la Grecia storicamente conosciuta). Tale monito fu costituito dall’imposizione del culto del “padre”, quale fondamento della cultura patriarcale e dall’umiliazione della “madre”, quale efficace arma ideologica di svilimento delle preesistenti società matriarcali pelasgiche.. Ancora oggi la potenza simbolica di questo mito getta scompiglio tra le culture di tutti i popoli eurasiatici, nord-africani e nord-americani. Questo accade anche perché Sigmund Freud lo prese ad esempio, per spiegare taluni disturbi psichici, alimentati dalle dinamiche sessuali inconsce tra i componenti di una stessa famiglia (complesso di Edipo).
A tutt’oggi, però, quasi nessuno ha voluto seriamente considerare che, sia quello di Edipo sia altri miti imposti dai popoli indoeuropei, non assunsero le caratteristiche che lo stesso Freud attribuì alle implicazioni dei comportamenti “tabù” tra gli aborigeni dell’Australia. In particolare il tabù dell’incesto tra madre e figlio, quale presumile conseguenza della libertà sessuale vigente nelle società matriarcali.
Questo perché, come approfondiremo più avanti, nelle società matriarcali o mutuali non esisteva pericolo di incesto. I rapporti sessuali erano e sono ammessi soltanto tra appartenenti di clan diversi. Il clan matriarcale, inoltre, costituiva una collettività con capacità auto-regolatrici, che non richiedevano l’ausilio di espedienti mitologici. La profonda religiosità nei confronti della figura materna tutelava tutte le madri , rispetto a possibili comportamenti devianti da parte degli appartenenti ai clan. La società matriarcale, infine, in quanto caratterizzata da elevato rispetto della donna, garantiva a tutti l’impossibilità di essere travolti dal “fato”, che ha come sua caratteristica dominante quella di essere intriso di regole finalizzate all’esercizio del potere da parte di esseri umani a svantaggio di altri esseri umani.
Quindi, avendo le società matriarcali un carattere assolutamente mutuale, non si rendeva possibile un vissuto trasferibile alle nuove generazioni, fatto di insoddisfazioni in grado di alimentare rancori, vendette, faide e infine guerre. La ricchezza dei beni comuni era in grado di soddisfare tutti i componenti dei clan e dei villaggi (o città) dei clan matriarcali.
Lo scopo del mito di Edipo, pertanto, non fu quello di impedire l’inesistente pericolo dell’incesto, ma esattamente quello di infondere nuove paure nei confronti del potere del padre, rese più temibili e pericolose, giacché concomitanti con l’indebolimento del potere della madre. Questo significò che furono proprio i popoli invasori indoeuropei a generare le condizioni della nascita del “fato”.
Da quel momento storico, infatti, nelle vite individuali e sociali dei Pelasgici tutto cambiò, gettando per molti secoli un tremendo smarrimento in ogni coscienza, anche tra le più elevate, come quella di Sofocle, nelle cui tragedie traspare un senso di ineluttabile resa a un “fato”, di cui tutti avvertivano la potenza, ma di cui tutti ignoravano origini e dinamiche di potere in ambito sociale.
Forse la più emblematica in questo senso é proprio la tragedia di Sofocle che narra il proseguimento del dramma di Edipo, figlio di Tebe, costretto da un nuovo temibile “fato” prima a strapparsi gli occhi e poi a lasciarsi morire a Colono: un sobborgo di Atene.
In tutto lo svolgimento narrativo dell’ultima delle sue tragedie (Edipo a Colono) Sofocle drammatizza il leitmotiv della “magnanimità sventurata” di cui egli stesso fu vittima. L’occasione di recitarla gliela fornì l’ispirazione della crudele sorte destinata ad Edipo, re spodestato e costretto a vagare ceco fino alla fine dei suoi giorni. La forte sensazione dell’innocenza dell’eroe (giacché ignaro del suo “fato”), già resa evidente nella precedente tragedia intitolata ‘Edipo Re’, si chiarisce ancor più nell’Edipo a Colono, che costituisce un’analisi retrospettiva di tutta la vita del Re di Tebe, sotto le cui mentite spoglie si nasconde Sofocle stesso.
L’eroe, ridotto ormai al fantasma di se stesso, teso e raccolto nella morte imminente e finalmente attinta, ripercorre tutti i suoi casi, come in una sorta di confessione o autocoscienza, con la quale egli testimonia a se stesso e al mondo la sua fondamentale innocenza. Travolto dal “fato”, infatti, la sua vita fu piuttosto patita che agita. Con la consapevolezza di oggi, tuttavia, possiamo dire che Sofocle in questa tragedia soccorre un uomo vittima di un “fato”, che ha colpito tutti i Pelasgici: quello costituito dal dominio di nuove genti, che imposero come nuovi miti quelli che decantavano gli dei olimpici, nei quali gli indoeuropei si riconoscevano.
L’arroganza di Creonte, cognato di Edipo, era lì a testimoniare di cosa fossero capaci i neo-dominatori. Contro di essa non a caso lo stesso Sofocle innalza la pietas tutta femminile di Antigone, prediletta figlia di Edipo, che prima sostiene il padre (giacché non patriarca ma vittima) fino alla morte e poi sfida il potere patriarcale di Creonte, disobbedendo al suo ordine di non seppellire il fratello Polinice. Questi a sua volta era innocente come Edipo, per aver combattuto contro il fratello Eteocle, al fine di far rispettare il patto della diarchia sul regno di Tebe. In entrambi i casi Antigone rappresentò nelle tragedie di Sofocle il punto di vista femminile, ostile sia alle guerre sia alle ingiustizie derivanti da un “fato” dai caratteri patriarcali, come tale, non scelto e, quindi, non voluto. Non a caso ‘Antigone’ fu il titolo della 1′ tragedia scritta e sceneggiata dal poeta Sofocle.