Le baccanti: figlie orgiastiche della Grande Dea

per tonigaeta

di Antonio Gaeta  19 agosto 2016

Nell’odierna morale comune un raduno orgiastico é considerato uno dei peggiori comportamenti umani. Questo perché si attribuisce a tale pratica un significato trasgressivo delle regole della civile convivenza. Tuttavia, le leggi e i codici civili di tutti i Paesi occidentali non vietano i raduni orgiastici (purché non in luogo pubblico o aperto al pubblico), giacché essi fanno parte della cosiddetta “vita privata” (o privacy) dei cittadini. Pertanto, molto più corretta sarebbe l’ammissione che i raduni orgiastici ledono le regole morali e più propriamente religiose e non quelle civili delle comunità umane.

Questa ammissione sarebbe oltremodo esatta in considerazione dell’origine specificamente religiosa dei rituali orgiastici. Parliamo ovviamente di una delle tante forme e manifestazioni religiose in onore della Grande Dea, comuni a tutte le culture mutuali, appartenenti alle società propriamente conosciute come “matriarcali”.

Ho già scritto sul significato recondito del mito di Dioniso nell’antica Grecia patriarcale (attualita-del-significato-storico-della-tragedia-greca).

Qui voglio solo evidenziare che il carattere asiatico dei cortei, dei canti, dei balli e dei raduni orgiastici, attribuiti ai rituali dionisiaci, é connesso con l’effettiva loro origine nei territori meglio conosciuti dai Greci antichi come “Frigia” (corrispondente all’attuale Anatolia centrale).

Tale origine non é soltanto fondata sull’adorazione della Grande Dea da parte di una popolazione comunque indoeuropea, quale fu quella dei Frigi, proveniente dai Balcani tra il 1.200 e il 1.100 a. C. e, quindi, sicuramente già contagiata dalla straripante cultura Kurgan nell’ambito dell’Est europeo (vedi una-storia-nella-preistoria-europea-le-ipotesi-kurgan-e-atlantide). Essa é anche testimoniata da Euripide, che fa dichiarare espressamente al coro delle Menadi (o Baccanti – 407/406 a. C.) la loro origine frigia.

Omero nell’Iliade (VI sec. a. C.) asserisce che i Frigi nella decennale guerra contro gli Achei furono alleati dei Troiani. Questo avvalora il carattere più marcatamente patriarcale e di conquista del significato della Guerra di Troia, accentuato dallo stesso Eschilo, allorché scrisse la trilogia dell’Orestea (458 a. C.).

E’ interessante osservare che l’Iliade fu un poema frutto della raccolta di più canti sulle gesta (compiute o immaginate) dei re e dei principi Achei: la 1^ popolazione indoeuropea, che invase le comunità pelasgiche (autoctone) stanziate sulla terraferma e sulle isole, che nel loro insieme solo dopo le invasioni indoeuropee presero il nome di “Greci”.

Inoltre, mentre le culture degli Achei, come anche dei Frigi, furono coinvolte e in parte assorbite da quelle mutuali (e relative mitologie) delle antiche comunità pelasgiche (soprattutto dalla cretese, che poi assunse il nome di Minoica), gli Ioni, gli Eoli e soprattutto i Dori (1.100/800 a. C.) furono portatori di accentuazioni delle caratteristiche patriarcali, al punto da trasformare completamente la preesistente mitologia mutuale: cosa di cui testimonia ampiamente Robert Graves nei “Miti Greci” (Longanesi & C.).

C’è, pertanto, da chiedersi: quale necessità indusse il o i raccoglitori dei miti Achei (Omero, VI sec.) e i tragediografi del V sec. a. C. (Eschilo, Sofocle, Euripide) ad esibirsi in ideazioni artistiche, ispirate da leggende favorevoli alle nuove culture patriarcali, nonostante i popoli indoeuropei avessero già conquistato tutta la Grecia e distrutto l’impero Ittita in Asia Minore ?

Una spiegazione molto realistica, sostenuta da numerose testimonianze sul periodo storico conosciuto come “Medio Evo Ellenico” (1.100/800 a. C.), é quella che le invasioni dei popoli indoeuropei costituirono per le culture mutuali autoctone (e relative civiltà “matriarcali”) la stessa catastrofe che, molti secoli dopo subì l’Impero Romano, con le “invasioni barbariche”.

La capacità creativa in campo artistico, ingegneristico e architettonico e quella organizzativa nell’ambito della civile convivenza sociale, tipica delle preesistenti culture cretesi, egizie (pre-faraoniche) e mesopotamiche, costituenti la “Mezza Luna Fertile”, furono gradualmente distrutte dall’irruenza di popoli “barbari”, provenienti dal mare (ma anche dall’entroterra balcanico) e portatori di culture grette e rudemente inneggianti ai valori tipicamente Kurgan (e, quindi, tipicamente patriarcali) di arroganza muscolare e di esaltazione della morte in battaglia.

Subito dopo questo lungo e devastante periodo di conquiste, di distruzioni e di stragi , le nuove civiltà che si svilupparono, fondate sulla stratificazione in classi sociali (quale elemento di garanzia del persistente dominio da parte dei discendenti degli invasori), ebbero la necessità di qualificare le rudi caratteristiche delle classi dominanti: innanzitutto quella dei guerrieri (leggi origini-sviluppi-limiti-delle-societa-patriarcali). Pertanto, le mie riflessioni sul significato dell’antica tragedia greca, esposte nell’articolo sopra citato e ad essa dedicato, costituiscono una 1^ risposta alla sopra indicata domanda centrale di questo nuovo articolo.

L’esame delle “Baccanti”, ultima delle tragedie di Euripide, costituisce un approfondimento del significato del culto dionisiaco e dell’ostilità incontrata da parte dei custodi dei valori degli indoeuropei chiamati “Greci”: valori guerreschi in ambito politico, rigidamente codificati (apollinei) in campo artistico, nonché misogini in quello sociale.

Sono convinto che questi stessi valori li portiamo dentro di noi ancora oggi ed essi sono tra le maggiori cause delle attuali guerre, delle devastazioni ambientali e delle violenze contro le donne, i bambini e i più deboli in generale.

Nelle culture mutuali, appartenenti alle civiltà cosiddette “matriarcali”, nessuno poteva usare violenza nei confronti dei più deboli, giacché protetti dal clan di rispettiva appartenenza (a suo volta protetto dal sistema dei clan di villaggio o di città). Allo stesso tempo, nessuno avrebbe mai osato giudicare i comportamenti sessuali di qualcuno: soprattutto allorché esibiti nell’ambito di rituali religiosi. Per questo é bene ancora una volta precisare che i riti dionisiaci avevano caratteristiche assolutamente religiose, di cui i raduni orgiastici costituivano la parte conclusiva delle relative esaltazioni, in onore del dio Dioniso.

L’ampia libertà sessuale, caratteristica delle culture mutuali, di cui ci parla con dovizia di particolari Jacopo Fo nel 2° e 3° video fatto proprio dalla pagina/rivista FB “Antropologia: sintesi biologica della specie” (nonché documentata dall’insigne antropologa Heide Gottner-Abendroth, in “Le società Matriarcali” – Edizioni Venexia), fa capire molto bene il perché la pratica del raduno orgiastico costituisse una forma di festeggiamento della libertà collettiva. Si trattava di un bene prezioso, che la Grande Dea donava agli esseri umani e, quindi, tale manifestazione di libertà non é paragonabile ad alcun comportamento di altre specie animali.

La caratteristica mutuale delle prime civiltà dell’Homo Sapiens non prevedeva, infatti, che uno soltanto dei maschi della singola collettività potesse fecondare le femmine (come accade in altre specie animali appartenenti ai vertebrati superiori), ma che le giovani e meno giovani donne potessero scegliere tutti i partner sessuali desiderati, perché il legame di coppia non era vincolante. Essendo i bambini considerati “figli di un clan” (da questo nutriti, curati ed educati) e non di un uomo e di una donna, il costume sessuale rendeva la vita privata dei singoli del tutto scevra da condizionamenti sociali di sorta.

Era del tutto naturale, quindi, che nel corso dei festeggiamenti in onore della Grande Dea fossero praticate tutte le forme di divertimento, orgie sessuali incluse, giacché accettate dall’intera collettività. La libertà sessuale delle donne non era considerata “tabù” e, quindi, non sarebbe mai stato possibile che qualcuno osasse castigare i riti orgiastici, accusandoli di turbare un possibile sentimento affettivo, con annesso senso di appartenenza e voluto auto-convincimento morale, anche di un solo individuo. L’amore, infatti, non includeva l’idea del possesso. Ancora oggi in molte isole caraibiche, già oggetto di deportazioni di africani, appartenenti a clan matriarcali, permane questo tipo di comportamento sociale.

Tutto ciò ci fa capire, meglio di quanto già esposto nell’articolo sopra citato, il perché i rituali in onore del dio Dioniso fossero un retaggio di un passato mutuale, di cui i dominatori patriarcali temevano costantemente il ritorno. Di questo forte timore si fecero interpreti i nuovi filosofi, ad iniziare da Socrate (come dimostra Nietzsche nella “Nascita della tragedia greca”) e si fecero interpreti anche alcuni drammaturghi, come Euripide: soprattutto allorché scrisse e sceneggiò le “Baccanti” !

Il dramma si svolge a Tebe, dove secondo alcuni Dioniso nacque, come figlio di Zeus e di Semele, figlia di Cadmo (fondatore di Tebe), sebbene la paternità divina fosse negata dalle sorelle della madre (tra cui Agave) e per questo sospinte sui monti, giacché affette da un “assillo d’orgia”, indotto dall’arrivo sulla scena di Dioniso, che si mostra in sembianze umane assieme con le Menadi (il Coro).

A questi si oppone il giovane re Pènteo (nipote di Cadmo e figlio di Agave), che vede nell’attività orgiastica un grave pericolo per l’etica pubblica, e si appella allo stesso Cadmo e a Tiresia (*), per giustificare il suo trarre in arresto Dioniso. Tuttavia, manifestandosi come dio, questi si libera provocando un terremoto, che sconquassa e distrugge la reggia del re: cosa che induce Pènteo a recarsi sul monte Citerone, per spiare le orge, al fine di vendicarsi.

Tuttavia, il re viene scoperto e fatto a pezzi dalla madre Agave e dalle sue compagne, in preda ad una forma di ebrezza dionisiaca volutamente esagerata da Euripide, che ne attribuisce la causa alla presenza del dio. La stessa Agave reca su un tirso la testa del figlio, credendola quella di un leone. Tornata in sé, essa si dispera al cospetto del vecchio Cadmo, accusando Dioniso d’empia ferocia, sebbene il dio affermi che la vendetta contro Pènteo fosse giusta e meritata.

Molti sono stati i commenti di questo dramma, a cominciare dalle origini di Dioniso, che già nella Grecia di allora fu conosciuto come un dio asiatico: ovvero proveniente dalla Frigia, il cui tipico berretto fu assunto dai rivoluzionari marsigliesi (rivoluzione francese) come simbolo di libertà (**)

Tuttavia, l’aspetto saliente del dramma é costituito dal contrasto tra una mentalità rigidamente razionale, che invoca il rispetto di regole morali, rappresentata non a caso da un’autorità istituzionale (personificata dal re Pènteo) e una consapevolezza della più autentica natura umana, dedita all’adorazione del culto di Dioniso, giacché fondato sull’esaltazione delle sensazioni corporee, contenute nello stato di ebrezza (paragonabile con l’euforia e non con l’ubriachezza) e sulla ricerca del piacere: quali aspetti insostituibili della gioia di vivere.

Oggi in Occidente e in Oriente molti sanno che il persistente ragionamento, allorché imbriglia le spontanee emozioni del corpo irrigidisce tutta la muscolatura (stress) e, quindi, il totale rilassamento corporeo é conseguentemente necessario. Pertanto, queste caratteristiche dell’essere umano non contrastano tra loro e la saggezza si può perseguire gestendo entrambe con oculatezza. Tuttavia, per millenni abbiamo vissuto l’acerrimo scontro tra cultura e natura, tra razionalità e irrazionalità, tra spirituale religiosità ed estasi dei sensi: scontro che ancora oggi perdura in molti individui, che subiscono il prevalere di forme di scissione corporea. Quest’ultima é il risultato di una Storia umana non scritta, fatta di profonde discriminazioni tra gli esseri umani, volute dalle culture del dominio patriarcale !

Non é un caso che la stragrande maggioranza dei disturbi psichici e psicosomatici ha come principali presupposti “interiorizzazioni individuali”, che fanno coincidere l’impegno psicofisico per l’assolvimento del dovere (imposto da una forma di dominio) come “lato maschile o paterno”, mentre la piacevole ricerca del rilassamento corporeo (che fugge i precetti del dominio) é fatta coincidere con il “lato femminile o materno”. Da qui il famoso “complesso di Edipo”.

Ecco che, per avere un’idea di quanto il culto di Dioniso riproponesse quello della Grande Dea o Madre Terra, osserviamo che nella stessa tragedia di Euripide tutta la natura e l’intero cosmo sono immersi in uno scenario pervaso dall’afflato del dio. Da Delfi all’Olimpo, dal Tmolo a Tebe, si diffonde l’euforico palpito dell’ebrezza. Esso si spande fin sul monte Citerione, scintillante di neve, tra le selve e l’erba, nel ronzare delle api e dei rivoli del loro miele, nelle fenditure rocciose, in cui scorrono le acque, nel fremito dei milioni di fronde, nello strisciare dei serpenti e nell’occhieggiare delle fiere. Ovunque é un frastuono di timpani, di flauti, di canti. Si sfrenano le danze e le rincorse dei partner, così come i sussulti di desiderio e le frenetiche ricerche del piacere, fra gli abbandoni dei corpi e le dolcezze che essi scambiano sui prati.

Un re non può sopportare il diffondersi di ciò che ai suoi occhi, brillanti di senso del potere, appare pura anarchia dei comportamenti, priva dei canoni del sensato ragionamento, considerato unica garanzia di obbedienza ai principi del dominio. Ecco, quindi, che il dramma deflagra nei suoi aspetti più assurdi e comunque non auspicabili: l’eliminazione fisica di chi si fa portatore di un comportamento giudicato “umanamente inaccettabile”.

Se oggi questa eliminazione fisica é esaltata dalla lucida follia del partner maschile nei confronti del partner femminile (come dal terrorista nei confronti della diversità, da cui si sente escluso), Euripide invece, cercò di mettere in cattiva luce le atrocità cui fu indotta una donna, nei confronti persino del figlio. C’è da domandarsi, quindi, il perché di questo tipo di narrazione.

Anche per questo dramma la risposta potrebbe sembrare la stessa che troviamo nell’Orestea di Eschilo, allorché una dea dell’Olimpo (Athena), conquistata alla causa dei dominatori, asserisce in accordo con Apollo, che non esiste legame di sangue tra una madre e un figlio, perché i nuovi dei sono tutti figli di Zeus. Pertanto la nuova mitologia greca impone il rispetto della rigida discendenza di sangue esclusivamente in linea maschile.

Tuttavia, nelle Baccanti Euripide si propone di evidenziare un dramma nel dramma, che si manifesta con il “rinsavimento” di Agave e la sua disperazione di madre, che implora ed esorta la condanna di Dioniso. Anche nei clan matriarcali, pur nella cura collettiva dei figli, ogni madre sapeva esattamente quali fossero quelli generati dal suo ventre. Quindi, il sentimento dell’amore materno non ha mai cessato di esistere. L’accusa che Euripide sembra indirizzare verso il culto di Dioniso, per bocca di Agave, é proprio quella di aver sottratto una donna ai suoi doveri di madre, per inseguire futili piaceri. In questo aspetto Euripide si fa portavoce del pensiero dominante, attribuendogli un fondamento destinato ad essere accolto da tutti gli spettatori, che ancora oggi applaudono.

Noi sappiamo che tra la cura di un figlio e la gioia del rapporto sessuale non esiste soluzione di continuità. Chi vuole imporre con un pessimo ragionamento una cesura, che contrasta con il naturale principio del piacere, si rende autore di un misfatto nei confronti dell’essere umano. Questo tipo di manipolazione delle coscienze é stato sempre il piatto forte dei ceti intellettuali non liberi e indipendenti: esattamente come oggi nell’ambito delle scienze al servizio delle industrie nocive e inquinanti e dell’informazione al servizio del potere dominante !

Infatti, come nell’Orestea Eschilo scredita le Erinni, così nelle Baccanti Euripide scredita le Menadi, giacché entrambi i cori rappresentano collettività femminili, che rivendicano ciò che oggi si definirebbe “vecchio” (e, quindi, da rottamare). Entrambe le tragedie tacciono sul vero significato innovatore delle esperienze del passato: le stesse che ancora oggi sono tenacemente perseguite in ambiti umani, che si ribellano al dominio imposto con l’inganno dalle classi sociali al potere.

(*) Tiresia: Uno dei miti più diffusi racconta che, passeggiando sul monte Citerone, vedendo due serpenti che copulavano, egli uccise la femmina, perché quella scena lo infastidì. Nello stesso momento Tiresia fu tramutato da uomo a donna. Visse in questa condizione per sette anni provando tutti i piaceri che una donna potesse provare. Passato questo periodo venne a trovarsi di fronte alla stessa scena dei serpenti. Questa volta uccise il serpente maschio e nello stesso istante ritornò uomo.

Un giorno Zeus ed Hera si trovarono divisi da una controversia: chi potesse provare in amore più piacere: l’uomo o la donna. Non riuscendo a giungere a una conclusione, poiché Zeus sosteneva che fosse la donna, mentre Era sosteneva che fosse l’uomo, decisero di chiamare in causa Tiresia, considerato l’unico che avrebbe potuto risolvere la disputa, essendo stato sia uomo sia donna. Interpellato dagli dei, egli rispose che il piacere sessuale si compone di dieci parti: l’uomo ne prova solo una e la donna nove, quindi una donna prova un piacere nove volte più grande di quello di un uomo.

(**) Nell’antica Roma, divenne il copricapo che veniva donato dal padrone agli schiavi liberati (liberti) fu quindi molto probabilmente in epoca romana che il berretto frigio (chiamato pileus) assunse il suo valore simbolico di libertà.

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4 commenti

orgdon 22 Agosto 2016 - 2:06

molto bello ed interessante..questo articolo.

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