“L’effetto smart working brucia 250 milioni al mese”. Un titolo di giornale che solo Lor Signori avrebbero potuto architettare

per Gian Franco Ferraris
Autore originale del testo: Alfredo Morganti

Un titolo di giornale che solo Lor Signori avrebbero potuto architettare.

Non so quanti abbiano visto il titolo centrale di prima pagina de La Stampa senza provare disgusto: “L’effetto smart working brucia 250 milioni al mese”. Perché? Perché è un titolo mirabile, esemplare per certi aspetti. Perché sintetizza splendidamente quali siano le idee su cui si punta per il post-Covid, su cui punta il mondo delle imprese in special modo.

Cosa dice quel titolo? Intanto, mette in cattiva luce lo smart working, in quanto “spreco”. E poi dà l’idea che, se le persone restano a casa, se i lavoratori dipendenti non fanno i “bancomat” per il baretto e per chi vende panini, l’Italia crolla.

In questa chiave, il lavoratore in smart working non è presentato nella classica versione “fannullone” (modello Sindaco Sala, diciamo) ma in quello “povero Cristo sfruttato da troppe ore di lavoro, da una selva di videochiamate, dalla cattiva postura che si adotta davanti al PC, ecc”. Ipocrisia che gronda. Visione strumentale. Perché l’idea di fondo è sempre la stessa, ed è questa: già non fate niente sul posto di lavoro, mentre i capitani di impresa sgobbano per tutti, ora ve ne state pure a casa e non comprate nemmeno le pagnottelle durante la pausa pranzo. Peggio, non vi prendete nemmeno una pausa caffè.

Ecco cosa c’è dietro a quel titolo allarmato e alla difesa del povero smart-workista che viene sfruttato senza limiti di orario. C’è la preoccupazione che i dipendenti non adempiano il loro scopo precipuo: versare il loro stipendio in economia futile, provvisoria, incongrua, in beni di consumi spesso inutili, ulteriori, di pessima qualità (e questo, dopo aver versato il resto dello stipendio in fisco, sostenendolo quasi per intero, consentendo così anche l’erogazione della poca ricchezza sociale di cui tutti pure usufruiscono, per primi gli evasori col SUV).

Non c’è solo questo. Ma c’è l’idea che nulla muti, che tutti si conservi così com’è. E che i centri storici, ad esempio, siano quel che sono oggi: svuotati di residenze, escrescenze di bed and breakfast, salotti di banche e assicurazioni, covo di baretti e paninari (appunto) a cui mancano gli avventori in smart working. Di costoro prendeva le difese Sala quando rivendicava la necessità che si tornasse al lavoro, che si uscisse dalla grotta. Sala l’innovatore della Milano europea fa la battaglia dei venditori di panini e di caffè per i dipendenti.

Si badi, non ce l’ho con nessuno personalmente. Ce l’ho con chi parla di innovazione, ripartenza e 3, 4, 5.0 e poi è quel che è, cioè un conservatore dell’Italia così com’è: evasione, snaturamento dei luoghi e dei mestieri, piccolo cabotaggio e economico, ricerca disperata del consenso, anche contro gli interessi della città che pure si governa.

La vice ministra Castelli ha provato a dire che nuovo modello di sviluppo dovesse significare anche ricalibrazione delle attività imprenditoriali e del commercio. Perché non si può pensare di “cambiare” senza che ciò significhi anche un rimodulazione sociale ed economica del tessuto produttivo, col sostegno dello Stato certo, mica lasciando sole le persone. Beh, è stata attaccata come se avesse detto una castroneria.

Ma non è il capitalismo che si autodefinisce “distruzione creativa”, non sono Lor Signori a smuovere le produzioni in Asia, a spostare le sedi legali all’estero, a delocalizzare, e poi si inalberano se lo smart working farebbe decrescere il fatturato dei paninari? Non si parla sempre di città storiche degradate? E da cosa deriva il degrado, se non da modelli di sviluppo urbano ed economico senza alcuna finalità sociale, anzi totalmente preda della rendita, della banche, dei bed and breakfast e dei baretti?

C’è tutto questo dietro un titolo di giornale. C’è tutto questo dietro l’operazione FCA-Espresso-Repubblica-Stampa. Non è poco, anzi.

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