“Verrà la morte e avrà i tuoi occhi”: l’accusa di Geno Pampaloni a Giulio Einaudi, per la pubblicazione (1951) delle inedite poesie d’amore di Cesare Pavese, per Constance Dowling “Connie”

per Gian Franco Ferraris
Autore originale del testo: Gian Franco Ferraris

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La notte tra sabato 26 e domenica 27 agosto del 1950, Cesare Pavese si chiude nella camera 43 dell’Hotêl Roma in Piazza Carlo Felice a Torino e ingerisce, sciolte nell’acqua, “venti bustine di sonnifero” . Il 14 luglio dello stesso anno, aveva scritto che “Lo stoicismo è il suicidio” (Il mestiere di vivere. Diario 1935-1950, 1952; nuova edizione 1990, redatta sul testo autografo). Ma “perché morire? Non sono mai stato vivo come ora, mai così adolescente” continua a raccontarsi il 16 agosto.

sul diario di quei giorni annota:


16 agosto: “Cara, forse tu sei davvero la migliore – quella vera. Ma non ho più il tempo di dirtelo, di fartelo sapere – e poi, se anche potessi, resta la prova, la prova, il fallimento.Vedo oggi chiaramente che dai 28 a oggi ho sempre vissuto sotto quest’ombra – qualcuno direbbe un complesso. E dica pure: è qualcosa di molto più semplice.

Anche tu sei la primavera, un’elegante, incredibilmente dolce e flessibile primavera, dolce, fresca, sfuggente – corrotta e buona – «un fiore della dolcissima valle del Po», direbbe chi so io.
Eppure, anche tu sei soltanto un pretesto. La colpa, dopo che mia, è soltanto dell’«inquieta angosciosa, che sorride da sola.”

Perchè morire? non sono mai stato vivo come ora, mai cosi adolescente.

Nulla si assomma al resto, al passato. Ricominciamo sempre.

Chiodo scaccia chiodo. Ma quattro chiodi fanno una croce.

“La mia parte pubblica l’ho fatta – ciò che potevo. Ho lavorato, ho dato poesia agli uomini, ho condiviso le pene di molti.”

17 agosto 1950

I suicidi sono omicidi timidi. Masochismo invece di sadismo.

Il piacere di farmi la barba dopo due mesi di carcere – di farmela da me, davanti a uno specchio, in una stanza d’albergo, e fuori era il mare.

E’ la prima volta che faccio il consuntivo di un anno non ancor finito.
Nel mio mestiere dunque sono re.
In dieci anni ho fatto tutto. Se penso alle esitazioni di allora.
Nella mia vita sono più disperato e perduto di allora. Che cosa ho messo insieme? Niente. Ho ignorato per qualche anno le mie tare, ho vissuto come se non esistessero. Sono stato stoico. Era eroismo? No, non ho fatto fatica. E poi, al primo assalto dell’ “inquieta angosciosa”, sono ricaduto nella sabbia mobile. Da marzo mi ci dibatto. Non importano i nomi. Sono altro che nomi di fortuna, nomi casuali – se non quelli, altri? Resta che ora so qual è il mio più alto trionfo – e a questo trionfo manca la carne, manca il sangue, manca la vita.
Non ho più nulla da desiderare su questa terra, tranne quella cosa che quindici anni di fallimenti ormai escludono.
Questo il consuntivo dell’anno non finito, che non finirò.

Ti stupisci che gli altri ti passino accanto e non sappiano, quando tu passi accanto a tanti e non sai, non t’interessa, qual è la loro pena, il loro cancro segreto?

18 agosto

La cosa più segretamente temuta accade sempre.

Scrivo: o tu, abbi pietà. E poi?

Basta un pò di coraggio.

Più il dolore è determinato e preciso, più l’istinto della vita si dibatte, e cade l’idea del suicidio.

Sembrava facile, a pensarci. Eppure donnette l’hanno fatto.

Ci vuole umiltà, non orgoglio

Tutto questo fa schifo.

Non parole. Un gesto. Non scriverò più.

-.-.-.-

Sul frontespizio dei Dialoghi con Leucò posato sul tavolino, Pavese scrive le sue ultime parole

Il suicidio di Pavese destò ovviamente molto scalpore, lo scrittore solo due mesi prima aveva vinto il premio Strega, con la Bella Estate; da subito i pettegolezzi presero il sopravvento come se il problema di Pavese fosse nei suoi genitali, mentre è chiaro che l’idea del suicidio ha accompagnato Pavese per tutta la sua vita e l’abbandono da parte dell’attrice americana Constance Dowling, “Connie”, fu solo un pretesto per togliersi la vita.

Poco dopo il suicidio dello scrittore, la sua casa editrice, Einaudi, ne pubblica un libriccino intitolato Verrà la morte e avrà i tuoi occhi (1951), 46 pagine di versi che a parere di taluni vorrebbero sfruttare a fini commerciali l’ondata emotiva e le dicerie seguite all’evento luttuoso.

Nel libro vennero pubblicate le dieci poesie che Cesare Pavese scrisse nella primavera del 1950 e dedicate a Constance Dowling (che riportiamo in calce). La pubblicazione suscitò la reazione di Geno Pampaloni che accusò la casa editrice torinese di speculazione e che contribuì a presentare il suo suicidio come “un fatto sentimentale e strettamente privato”

Non sono riuscito a trovare le fonti originali, ma questo testo di Stefano Lannuzza su Lunario Nuovo riporta fedelmente l’aspra polemica.

“A quella che apparirebbe un’inopinata o troppo tempestiva iniziativa editoriale, non si lascia attendere l’intransigente reazione del trentatreenne critico letterario Pampaloni: che, su “Il Ponte” (n. 6, giugno 1951), con l’articolo “Povero cuore che sussulti”, titolo virgolettato perché ripreso da un verso della raccolta postuma pavesiana, attacca apertamente l’editore. “Mi pare di dover dire che […] Giulio Einaudi ha commesso una cattiva azione, assai poco degna verso Pavese e verso la sua stessa casa editrice. […] Verrà la morte è il primo libro di Cesare Pavese, che esce dopo la sua tragica fine: l’editore che lo ebbe compagno di lavoro per anni e anni, che gli era amico e che ha sentito profondamente la sua perdita, a questo primo libro, di suo non ha messo che la scelta del titolo: e si vorrà ammettere che non è quel titolo serio, affettuosamente scelto per rispettare lo schivo pudore dell’amico morto; è un titolo profanatorio, il più profanatorio possibile, che ad un pubblico grosso può sembrare persino plateale, adatto a richiamare attorno alla memoria di Pavese proprio quelle pruriginose mosche cocchiere dello scandalo e del pettegolezzo che meno di un anno fa fecero gridare di sdegno tutta la gente di cuore”. Mentre non prende parte per “un libretto che trionfalmente insinua ‘cherchez la femme’”, in opposizione agli “amici politici di Cesare Pavese, i comunisti e tendenzialmente comunisti” che vorrebbero presentare la morte dello scrittore “come una disgrazia, un collasso, una delusione d’amore”, obbiettando che “un fatto sentimentale è strettamente privato” Pampaloni è dell’opinione che alla radice del suicidio di Pavese permanga l’esito d’una “tragica insicurezza e insoddisfazione, della crisi spirituale” e identitaria patita nel dopoguerra dagli intellettuali.

L’autoimmolazione attuata da Pavese (di cui Pampaloni recensisce, sempre su “Il Ponte”, n. 3, marzo 1950, i tre racconti di La bella estate, 1949, dando dello scrittore di Santo Stefano Belbo una vincolante chiave di lettura: “Questo presunto realista è in effetti invece uno scrittore di natura calligrafica, direi perfino elegiaca”) è soprattutto “il segno di una lacerata protesta” per la perdita d’ogni speranza non solo personale. Gravano sulle coscienze i disastri e i morti della scellerata Seconda guerra mondiale conclusa con l’entrata nel maggio 1945 delle truppe sovietiche a Berlino. Guerra che, costata all’Europa quasi sessanta milioni di morti, ha un funesto suggello il 6 e il 9 agosto dello stesso anno con il bombardamento nucleare di Hiroshima e Nagasaki…. “Vittorini,” prosegue Pampaloni nello stesso articolo “dopo i funerali, in un angolo della casa editrice, […] disse agli amici alcune cose bellissime, con quella sua focosa amarezza, su come, in qualche modo, siamo noi oggi tutti spiritualmente suicidi alla maniera di Pavese, per il buio che abbiamo davanti, per questa seconda e profonda non-speranza in cui ci troviamo a vivere”.

….Alla polemica innescata da Pampaloni contro la casa editrice di Verrà la morte non manca di rispondere Giulio Einaudi in persona, che respinge la velata accusa di speculazione economica; e, concludendo una lunga lettera pubblicata sul n. 8 (agosto 1951) del “Ponte”, prova a chiarire: “Quando ci siamo decisi alla pubblicazione di questa piccola raccolta di versi di Pavese, eravamo ben lontani dal supporre che tali versi potessero essere scambiati da qualcuno per una spiegazione del suo suicidio […]. Noi non abbiamo mai voluto avallare nessuna interpretazione semplicistica del suicidio di Pavese. Credo che il complesso dramma della sua vita possa essere indagato soltanto nell’insieme della sua opera – e dunque anche in questi versi”.

Nello stesso numero della rivista e senza recedere dopo le complessivamente accettabili parole di Einaudi, Pampaloni risponde premettendo di non voler opporre “una lunga replica, né i molti consensi” ricevuti sull’argomento. “Tanto più” persevera un po’ altero “che gli argomenti che egli [Einaudi] porta non mi sembrano tali da poter modificare l’opinione mia e di chi la condivise”.

Geno Pampaloni (1918-2001) è stato un intellettuale Sorretto da squisita sensibilità e da una cultura letteraria di vastissimo respiro, si servì di una scrittura accessibile e diretta, particolarmente incisiva, con cui non risparmiò giudizi anche negativi sulle opere prese in oggetto. Pampaloni non ha fatto l’accademico, ma chiamato da Adriano Olivetti a Ivrea, nel novembre 1948, a dirigere la biblioteca aziendale, divenne uno dei più fidati collaboratori dell’imprenditore piemontese, scrisse “Giacomo Noventa e Adriano Olivetti sono probabilmente gli uomini che hanno contato di più nella mia formazione e in definitiva nella mia vita”.

Pampaloni, a Cesare Pavese, ha dedicato l’unico volume monografico scritto nella sua lunga vita attiva, Trent’anni con Cesare Pavese. Diario contro diario (ibid. 1981), inclusivo di sette fra saggi e interventi radiofonici elaborati fra il 1950 e il 1980. Di una certa rilevanza quello dal titolo Proposte di lettura (1962), percorso nell’opera di Pavese che ha il respiro dei maggiori scritti monografici pampaloniani. In questi scritti, Pampaloni non muta la pregresse obiezioni e, ancora nel 1996, ripete: “Disapprovo che [Einaudi] abbia diffuso Verrà la morte poco dopo la sua scomparsa [di Pavese]: ritengo che, essendo un testo molto privato, andava lasciato ai posteri” .

Le dieci poesie di Cesare Pavese

Le 10 poesie (8 in italiano e 2 in inglese) per Constance Dowling, scritte a Torino e Roma tra l’11 marzo e l’11 aprile 1950, sono state trovate alla morte di Pavese in una cartella nella scrivania del suo ufficio nella casa editrice Einaudi. Dattiloscritte, portavano titoli e date di pugno dell’autore, sul frontespizio era scritto “Verrà la morte e avrà i tuoi occhi”

To C. from C.

You,
dappled smile
on frozen snows –
wind of March,
ballet of boughs
sprung on the snow,
moaning and glowing
your little “ohs”-
white-limbed doe,
gracious,
would I could know
yet
the gliding grace
of all your days,
the foam-like lace
of all your ways –
to-morrow is frozen
down on the plain
you, dappled smile,
you, glowing laughter
Tu,
screziato sorriso 
su nevi gelate – 
vento di Marzo, 
balletto di rami 
spuntati sulla neve, 
gemendo e ardendo, 
i tuoi piccoli “oh!” – 
daina dalle membra bianche, 
graziosa, 
potessi io sapere 
ancora 
la grazia volteggiante 
di tutti i tuoi giorni, 
la trina di spuma 
di tutte le tue vie – 
domani è gelato 
giù nella pianura – 
tu, screziato sorriso, 
tu, risata ardente.

Cesare Pavese – 11 marzo 1950

Traduzione di Italo Calvino



In the morning you always come back

Lo spiraglio dell’alba
respira con la tua bocca
in fondo alle vie vuote.
Luce grigia i tuoi occhi,
dolci gocce dell’alba
sulle colline scure.
Il tuo passo e il tuo fiato
come il vento dell’alba
sommergono le case.
La città abbrividisce,
odorano le pietre –
sei la vita, il risveglio.

Stella sperduta
nella luce dell’alba,
cigolio della brezza,
tepore, respiro –
è finita la notte.

Sei la luce e il mattino.

Cesare Pavese, Torino – 20 marzo 1950

Hai un sangue, un respiro.

Hai un sangue, un respiro.
Sei fatta di carne
di capelli di sguardi
anche tu. Terra e piante,
cielo di marzo, luce,
vibrano e ti somigliano –
il tuo riso e il tuo passo
come acque che sussultano –
la tua ruga fra gli occhi
come nubi raccolte –
il tuo tenero corpo
una zolla nel sole.
Hai un sangue, un respiro.
Vivi su questa terra.
Ne conosci i sapori
le stagioni i risvegli,
hai giocato nel sole,
hai parlato con noi.
Acqua chiara, virgulto
primaverile, terra,
germogliante silenzio,
tu hai giocato bambina
sotto un cielo diverso,
ne hai negli occhi il silenzio,
una nube, che sgorga
come polla dal fondo.
Ora ridi e sussulti
sopra questo silenzio.
Dolce frutto che vivi
sotto il cielo chiaro,
che respiri e vivi
questa nostra stagione,
nel tuo chiuso silenzio
è la tua forza. Come
erba viva nell’aria
rabbrividisci e ridi,
ma tu, tu sei terra.
Sei radice feroce.
Sei la terra che aspetta.

Cesare Pavese – 21 marzo

Verrà la morte e avrà i tuoi occhi

Verrà la morte e avrà i tuoi occhi
questa morte che ci accompagna
dal mattino alla sera, insonne,
sorda, come un vecchio rimorso
o un vizio assurdo. I tuoi occhi
saranno una vana parola,
un grido taciuto, un silenzio.
Così li vedi ogni mattina
quando su te sola ti pieghi
nello specchio. O cara speranza,
quel giorno sapremo anche noi
che sei la vita e sei il nulla

Per tutti la morte ha uno sguardo.
Verrà la morte e avrà i tuoi occhi.
Sarà come smettere un vizio,
come vedere nello specchio
riemergere un viso morto,
come ascoltare un labbro chiuso.
Scenderemo nel gorgo muti.

Cesare Pavese 22 marzo




You, Wind of March

Sei la vita e la morte.
Sei venuta di marzo
sulla terra nuda ‒
il tuo brivido dura.
Sangue di primavera
‒ anemone o nube ‒
il tuo passo leggero
ha violato la terra.
Ricomincia il dolore.

Il tuo passo leggero
ha riaperto il dolore.
Era fredda la terra
sotto povero cielo,
era immobile e chiusa
in un torpido sogno,
come chi più non soffre.
Anche il gelo era dolce
dentro il cuore profondo.
Tra la vita e la morte
la speranza taceva.
Ora ha una voce e un sangue
ogni cosa che vive.
Ora la terra e il cielo sono
un brivido forte,
la speranza li torce,
li sconvolge il mattino,
li sommerge il tuo passo,
il tuo fiato d’aurora.
Sangue di primavera,
tutta la terra trema
di un antico tremore.

Hai riaperto il dolore.
Sei la vita e la morte.
Sopra la terra nuda
sei passata leggera
come rondine o nube,
il torrente del cuore
si è ridestato e irrompe
e si specchia nel cielo
e rispecchia le cose ‒
e le cose, nel cielo e nel cuore
soffrono e si contorcono
nell’attesa di te.
È il mattino, è l’aurora,
sangue di primavera,
tu hai violato la terra.
La speranza si torce,
e ti attende ti chiama.
Sei la vita e la morte.
Il tuo passo è leggero.

Cesare Pavese – Torino 25 marzo

Passerò per Piazza di Spagna

Sarà un cielo chiaro.
S’apriranno le strade
sul colle di pini e di pietra.
Il tumulto delle strade
non muterà quell’aria ferma.
I fiori, spruzzati
di colori alle fontane,
occhieggeranno come donne
divertite. Le scale
le terrazze le rondini
canteranno nel sole.
S’aprirà quella strada,
le pietre canteranno,
il cuore batterà sussultando
come l’acqua nelle fontane –
sarà questa voce
che salirà le tue scale.
Le finestre sapranno
l’odore della pietra e dell’aria
mattutina. S’aprirà una porta.
Il tumulto delle strade
Sarà il tumulto del cuore
Nella luce smarrita.
Sarai tu – ferma e chiara

Cesare Pavese , Torino 28 marzo 1950


I mattini passano chiari

 
I mattini passano chiari
e deserti. Così i tuoi occhi
s’aprivano un tempo. Il mattino
trascorreva lento, era un gorgo
d’immobile luce. Taceva.
Tu viva tacevi; le cose
Vivevano sotto i tuoi occhi
(non pena non febbre non ombra)
come un mare al mattino, chiaro.
Dove sei tu, luce, è il mattino.
Tu eri la vita e le cose.
In te desti respiravamo
sotto il cielo che ancora è in noi.
Non pena non febbre allora,
non quest’ombra greve del giorno
affollato e diverso. O luce,
chiarezza lontana, respiro
affannoso, rivolgi gli occhi
immobili e chiari su noi.
È buio il mattino che passa
senza la luce dei tuoi occhi.

Cesare Pavese, Torino 30 marzo 1950

The night you slept

Anche la notte ti somiglia,
la notte remota che piange
muta, dentro il cuore profondo,
e le stelle passano stanche.
Una guancia tocca una guancia –
è un brivido freddo, qualcuno
si dibatte e t’implora, solo,
sperduto in te, nella tua febbre.
La notte soffre e anela l’alba,
povero cuore che sussulti.
O viso chiuso, buia angoscia,
febbre che rattristi le stelle,
c’è chi come te attende l’alba
scrutando il tuo viso in silenzio.
Sei distesa sotto la notte
come un chiuso orizzonte morto.
Povero cuore che sussulti,
un giorno lontano eri l’alba.

Cesare Pavese, Roma 4 aprile 1950

The cats will know

Ancora cadrà la pioggia
sui tuoi dolci selciati,
una pioggia leggera
come un alito o un passo.
Ancora la brezza e l’alba
fioriranno leggere
come sotto il tuo passo,
quando tu rientrerai.
Tra fiori e davanzali
i gatti lo sapranno.

Ci saranno altri giorni,
ci saranno altre voci.
Sorriderai da sola.
I gatti lo sapranno.
Udrai parole antiche,
parole stanche e vane
come i costumi smessi
delle feste di ieri.

Farai gesti anche tu.
Risponderai parole-
viso di primavera;
farai gesti anche tu.

I gatti lo sapranno,
viso di primavera;
e la pioggia leggera,
l’alba color giacinto,
che dilaniano il cuore
di chi più non ti spera,
sono il triste sorriso
che sorridi da sola.
Ci saranno altri giorni,
altre voci e risvegli.
Soffriremo nell’alba,
viso di primavera.

Cesare Pavese, Roma 10 aprile 1950

Last Blues, To Be Read Some Day

‘T was only a flirt
you sure did know-
some one was hurt
long time ago.

All is the same
time has gone by-
some day you came
some day you’ll die.

Some one has died
long time ago-
some one who tried
but didn’t know.

Era solo un flirt
tu certo lo sapevi –
qualcuno fu ferito
tanto tempo fa.

E’ tutto lo stesso.
Il tempo è passato –
un giorno venisti
un giorno morirai.

Qualcuno è morto
tanto tempo fa –
qualcuno che tentò
ma non seppe.

Cesare Pavese

Roma 11 aprile 1950



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