L’ora degli scambisti – Trump e i suoi fedeli sono l’assicurazione sulla vita di cui Israele ha più bisogno che mai. 

per Gian Franco Ferraris
Autore originale del testo: Lucio Caracciolo
Fonte: Limes editoriale

L’ora degli scambisti – Trump e i suoi fedeli sono l’assicurazione sulla vita di cui Israele ha più bisogno che mai. 

1. Come il litro di latte o il vasetto di yogurt, anche le fasi geopolitiche scadono. A differenza di cibo e bevande, la data limite per il consumo non è scritta da nessuna parte perché nessuno è titolato a farlo. Siamo tutti nella mischia. C’è chi fa finta di nulla e continua a immaginarsi quello di sempre, fischiettando sotto la grandine. C’è chi anticipando il terremoto, come certi animali sensibili a vibrazioni per noi impercettibili, è già scappato dalla tana e gira impazzito in cerca del rifugio sicuro. C’è chi sentendosi spacciato scinde anima e corpo per studiarsi dall’esterno, con sguardo ipnotico. C’è chi si eccita al pensiero che sia giunto il suo momento. Tutti pregano il loro dio, atei e agnostici compresi. Chi si pensa Dio sacrifica a sé stesso.

Ritagliare la storia in tranci è esercizio arbitrario quanto necessario. Non puoi scalare una parete ripida senza fissarvi chiodi. Ma se l’alpinista mira alla vetta disegnata dalla natura, attori e analisti geopolitici non vedono il traguardo perché la storia è moto perpetuo.

Il centro della competizione geopolitica è la partizione del tempo. Potere di calendario. Le moderne rivoluzioni, dalla francese alla russa, si sono affermate sovrane inventando il proprio datario o emendando il corrente, in competizione con gli altrui. Mai assoluto. La rivoluzione americana avviata una generazione fa per ridisegnare il mondo daccapo sul proprio metro, altrettanto universale di quello di Sèvres, è scaduta nel suo opposto. L’Impero del Bene voleva salvare l’umanità. Ora deve salvare sé stesso. Con la brutalità imposta dall’urgenza di non morire sotto i ferri dell’alta chirurgia.

La differenza fra questo passaggio d’epoca e ogni suo precedente è che il destino dell’umanità non è più solo in mani umane. Rischiamo la dittatura del calcolo digitale, quindi dell’algoritmo che ne detta la procedura. Il matematico Paolo Zellini ha ragione di chiedersi se in futuro saranno gli algoritmi a governarci 1Elon Musk ha già risposto di sì. La Terra non sarà più per umani, ai quali il padrone di SpaceX offre il trasferimento su Marte (attendiamo modalità e prezzi, che prevediamo scanditi dalla sua tassonomia di subumani e sovrumani).

Limes siamo ostinatamente terrestri. In attesa della rivista marziana di geopolitica, restiamo all’italiana. Ma prendiamo atto che il mondo sta cambiando a velocità ipersonica. In quanto percezione diffusa fra i protagonisti della scena mondiale anche se non fosse vero sarebbe vero. In Italia il clima da ultimo giorno è meno soffocante che altrove. Rendiamo grazie al nostro scetticismo di antica radice, modo negativo della ragione che ne presuppone e prepara il positivo, se il giovane Hegel non aveva torto 2. Dall’America abbiamo importato molto, spesso godendone: i telepredicatori per fortuna no. Vantaggio dell’arretratezza. Come investirlo nell’ordine del caos?

La domanda riguarda, nel suo minimo, anche questa rivista. Fermi i nostri princìpi – su tutti quello dell’ascolto di ogni campana, condizione per qualsiasi analisi di conflitto – dobbiamo adeguare il nostro calendario ai tempi in accelerazione. E siccome all’orizzonte non si vede alcun katechon, nessun ragionevole potere frenante dunque anti-apocalittico, conviene concentrarci sulle partite geopolitiche che ci coinvolgono senza cedere al cronachismo febbricitante dei media.

Intuire rotte nel mare in tempesta comporta la certezza di sbattere su scogli non segnalati, al netto del naufragio. Ne siamo consapevoli, dunque applichiamo una dose di italico scetticismo anzitutto a noi stessi.

Traiamo dalle effemeridi della nostra rivista che siamo all’anno trentatreesimo. Nel 1993 eravamo sulla soglia della fase geopolitica che si sta chiudendo. I numerologi ci ricordano l’importanza del 33. Anni (supposti) di Cristo, massimo grado della massoneria di antico rito scozzese e via simboleggiando. A noi interessa soprattutto il valore diagnostico. Volta in grammatica e in fonetica (trentatré con l’accento acuto sull’ultima sillaba) questa è la cifra che i medici d’un tempo sollecitavano il paziente a pronunziare per auscultarne i polmoni. Pratichiamo l’esercizio su di noi. Diciamo il nostro trentatré e incrociamo le dita. Otterremo una prima diagnosi di come il vorticare delle partite geopolitiche incida sullo Stivale.

Il filo logico che abbiamo cominciato a svolgere indica le priorità: studio della rivoluzione americana, eruzione che investe il resto del pianeta; riflessi sulla riconfigurazione dei poteri alle diverse scale, locali incluse; impatto sull’Italia e conseguenti adattamenti, per tentativi, scartando le «verità» del passato. Concentrandoci sul nostro intorno, dove possiamo contribuire a ricucire una trama di pace nelle regioni in guerra (Medio Oriente e Ucraina) o ad anticipare la riesplosione di conflitti sedati (Balcani e Nord Africa). Toccheremo in corso d’anno ciascuno di questi teatri, qui cominciando dal primo. Dalla prospettiva di una quasi isola incardinata nel mezzo del Medioceano, che vive del libero accesso all’Oceano Mondo passando per porte strettissime, oggi meno sicure che mai. In metafora, l’imperativo geopolitico dell’Italia è ingentilire quei punti di strangolamento – traduzione letterale dal talassocratese «choke points» – in colli di bottiglia. Senza tappo.

2. Ricominciamo dal più strategico fra i nostri esteri vicini: Medioceano orientale e dintorni. Anello di congiunzione fra teatri ucraino e mediorientale della Guerra Grande. Visto da Taranto, connettore più diretto fra Italia e Suez (ahinoi solo sulla carta), è ricompreso fra Ionio e Golfo Persico, da cui si dirama via esistenziale Mar Rosso verso l’Oriente, mentre il Nero apre al cuore d’Eurasia. Corridoi entrambi in fiamme. Allarme a sud-est (carta a colori 1 – in apertura).

Nel senso comune, siamo in pieno mondo arabo. Doppio errore. Il senso comune vale quando regna bonaccia, se vale. Il mondo arabo non esiste. Esistono gli arabi. Prevalenti per numero tra Nord Africa e Penisola Arabica, ma divisi per tribù, clan, notabilati, milizie. Quindi dominati e spartiti fra gli imperi ottomano e persiano in varie declinazioni, poi da inglesi e francesi. I quali prima di non spontaneamente emancipare le colonie vi hanno ritagliato improbabili «Stati nazionali». Neanche fossimo in Europa.

 

Carta di Laura Canali - 2025
Carta di Laura Canali – 2025 

 

Dal 1948 gli ebrei scampati all’Olocausto hanno impiantato sulla costa levantina il loro primo e unico Stato, cacciando parte degli arabi che l’abitavano e serbandone una quota con status inferiore (carta 1 e carta a colori 2). Progetto laico dai tratti religiosi, oggi prevalenti. Netanyahu si rivendica in continuità plurimillenaria con re Davide e le antiche tribù di Canaan. Come ovunque nella regione, le dispute territoriali dentro e attorno Israele sono stracariche di significati religiosi, tali da renderle intrattabili.

Oggi nel «mondo arabo» esistono solo tre Stati veri, nessuno arabo: Turchia, Iran e Israele. I primi due di taglia, cultura e ambizioni imperiali, cantate nelle rispettive pedagogie. Il terzo in bilico fra miraggi para-imperiali e tentativi di suicidio. Turchi, persiani ed ebrei possono litigare su tutto, ma a partire dall’unico pregiudizio che li accomuna: il disprezzo per gli arabi. I quali al meglio possono essere aggiogati ai rispettivi progetti di espansione, al peggio repressi, esiliati o sterminati. Sentimento che riaffiora fra i nostalgici israeliani di Trident, l’allineamento informale espressione della segreta dottrina della periferia (torat haPeripheria), che fra 1957 e 1979 creò un canale riservato permanente fra gli Stati profondi di Gerusalemme, Teheran e Ankara. Con gli ebrei a intrattenere i persiani sulle gesta di Serse che salva il loro popolo dall’annientamento, e a ringraziare i turchi per l’ospitalità concessa dopo la cacciata dalla Spagna nel 1492 o nel periodo nazista. Il tutto condito da scorrettissime battute arabofobe. Cambiano i regimi, si rompono le amicizie, gli stereotipi restano.

 

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Carta di Laura Canali – 2025 

 

Eppure oggi le petrodittature della Penisola Arabica, insieme al barcollante Egitto e alla Giordania in eterna emergenza partecipano a pieno titolo dell’equazione di potenza regionale, riunite (e divise) nel Consiglio di cooperazione del Golfo: Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Kuwait, Bahrein, Qatar e Oman, oltre allo Yemen degli ḥūṯī che incombe sulla rotta tra Mar Rosso e Oceano Indiano. Tecnostrutture assimilabili al nostro concetto di Stato, prive però di base nazionale. L’idea stessa di nazione è loro estranea. Per la cultura clanico-tribale delle diverse collettività, per la concentrazione del potere nelle molto allargate e litigiose famiglie regnanti, infine per l’ampia quota di allogeni, originanti spesso dal Subcontinente indiano, adibiti ai lavori scansati dagli indigeni. Tradotto in fattore umano: non si può discettare di patriottismo saudita o emiratino, meno ancora di identità panaraba. Mentre il sentimento nazionale straripa in turchi, persiani ed ebrei, con punte razziste. Certo non si può imporre a un popolo il dovere di piacere a un altro.

Nella fase aperta il 7 ottobre 2023 con il pogrom di amās a Gaza, cui Gerusalemme ha scelto di rispondere a testa bassa stravolgendo i suoi princìpi strategici e tattici perché mira alla vittoria senza definirla, la nuova equazione si gioca entro il triangolo Israele-Iran-Turchia. Con sauditi ed emiratini a oscillare fra un campo e l’altro, facendo valere il peso dei loro formidabili patrimoni energetici e finanziari. Regimi condizionati dall’esibita fedeltà alla causa palestinese, cui non tengono affatto, ma che li obbliga a una retorica deputata a scongiurare che jihadisti di casa e/o infiltrati si impadroniscano della bandiera di Gerusalemme senza ebrei.

La transizione egemonica su scala mondiale si configura qui nella ritrosia americana a impegnarsi nell’ennesima avventura mediorientale. Logorante, costosa e umiliante, visti i recenti fiaschi afghano e iracheno. Gli stivali a stelle e strisce potrebbero forse calcare di nuovo quelle sabbie solo se Israele fosse in pericolo di vita. Un forse in caratteri cubitali, stante la fatica imperiale che volge la carica di violenza degli americani verso l’interno.

In Medio Oriente più che altrove nessuno si fida di Washington. Ne profittano i cinesi, che dai paradisi petroliferi e gasieri della regione continuano a estrarre risorse energetiche insostituibili, meno i russi, specie dopo il rovesciamento del loro cliente siriano.

Nella regione l’èra post-coloniale comincia adesso. Almeno per quanto riguarda noi occidentali. A contendersene i territori resta il triangolo Turchia-Iran-Israele. Combinazione che non promette latte e miele. Lasciati ai propri istinti primari, i tre protagonisti potrebbero logorarsi a vicenda in scontri sempre meno indiretti. Da italiani, lo scenario peggiore è la permanenza del caos. Conflitti senza sbocco, con il Medioceano nuovamente ridotto a Mediterraneo. E noi rattrappiti nel lago salato.

3. Radiografiamo il triangolo strategico. La lastra svela Turchia in ascesa, Iran smarrito, Israele in bilico.

Ankara è in euforia imperiale. Il suo irradiamento non vuole conoscere limiti. Erdoğan conta di portare un astronauta turco sulla Luna lanciato da uno spazioporto in costruzione nella sua Somalia. Un’apposita commissione voluta dal presidente dibatte su come turchizzare il termine astronot, banale calco dal francese: in lizza türkonot e gökmen (uomo del cielo). Nell’attesa, le frontiere orientali e meridionali della Turchia si dilatano ben oltre il ridotto anatolico residuato dal tracollo ottomano e il revisionismo di Atatürk (carta 2). Per ora di fatto, domani forse formalmente. La sfera d’influenza turca in Medio Oriente è protetta dall’espansione in Africa, nei Balcani e in Asia centrale. Riconquista di un’ampia porzione di Siria per mezzo di mercenari islamisti; penetrazione nelle aree curde siriane e irachene; sostegno alla causa palestinese stile Fratelli musulmani (amās): la Turchia ridimensiona contemporaneamente Iran e Israele. L’impero persiano vede interrotto in Siria e Libano il corridoio terrestre tra Herat e Beirut, fino a ieri percorribile senza incorrere in barriere confinarie. Lo Stato ebraico è sotto lo schiaffo delle milizie islamiste che cinquecento giorni dopo la controffensiva su Gaza si permettono il lusso di esibirvisi in parate militari ed elaborate cerimonie di consegna degli ostaggi. All’ombra di cartelli propiziatori: «Noi siamo il giorno dopo».

 

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Carta di Laura Canali – 2025 

 

Il rischio per l’impero turco in riformazione è di trovarsi a dover combattere una guerra contro Iran o Israele. Vale ovviamente anche per i suoi rivali. Le aree cuscinetto che li tenevano a distanza di quasi sicurezza si stanno riducendo. I tre cavalieri del Levante si scoprono faccia a faccia in quel che resta della Siria, dove Israele sta profittando del vuoto attorno al Golan per riempirlo. Le sue avanguardie si trovano a un’ora di carro armato da Damasco (carte a colori 3 e 4). Turchi e clienti curdi di iraniani o israeliani si fronteggiano in Iraq. Dove Teheran non può abbandonare le sue sgangherate milizie di prossimità, dopo i traumi subiti in Siria (fuga di al-Asad) e Libano (declassamento militare e politico di izbullāh). Senza dimenticare la frontiera azero(turco)-iraniana in riscaldamento dopo la rotta dell’Armenia, riferimento cristiano della Repubblica Islamica. Deputato a frenare gli irredentismi pan-azeri che sobbolliscono tra Baku e Tabriz, perno dell’Azerbaigian iraniano.

 

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Il grande sconfitto in questo tempo della partita triangolare è l’Iran. Il suo «asse della resistenza» è stato colpito e affondato in Siria, seriamente danneggiato in Libano, infragilito in Iraq. La prima linea di difesa persiana arretra di circa settecento chilometri. Dall’altopiano iranico si scorge con angoscia la crisi dello sbocco medioceanico libanese, mentre il Golfo Persico è pressato da portaerei americane e infestato da sottomarini israeliani. Contromossa di Teheran, la stretta su Bāb al-Mandab via i non fedelissimi ḥūṯī. Quando il padrone ha il fiato grosso, i clienti si prendono qualche libertà in più. Resta da determinare quanto il corridoio imperiale persiano fosse reale e quanto propagandistico (carta a colori 5). Di sicuro chi immagina che il regime dei pasdaran sgomberi il campo siro-libanese è fuori strada. Quanto meno, i persiani vorranno disseminarvi trappole. Eppoi le Sirie e i Libani restano in eterna transizione geopolitica, cui partecipano anche sauditi ed emiratini. Entrambi sconfitti dall’Iran sul fronte yemenita per mano degli ḥūṯī.

Quanto al duello con l’arcinemico Israele, l’apparenza non deve ingannare. Dopo il 7 ottobre, che Teheran non voleva né prevedeva, israeliani e iraniani hanno dovuto attaccarsi a vicenda. Ma a distanza. Ragione vuole che restino nemici necessari alla legittimazione dei rispettivi regimi e delle loro ambizioni espansive. Tesi contestata in Israele dall’ultradestra religiosa e più ambiguamente dallo stesso Netanyahu, tentato dall’opportunità di infliggere una lezione definitiva ai pasdaran, frenato finora da Trump. Certo il colpo più pesante l’Iran lo ha subìto in casa. I bombardamenti israeliani hanno quasi azzerato le sue difese aeree ed esposto la vulnerabilità dei siti atomici. La propaganda di Khamenei avverte che l’affronto sarà vendicato. Se ne deve dubitare. La controrappresaglia israeliana stavolta sarebbe devastante e riporterebbe il programma nucleare iraniano indietro di parecchi anni. La speranza delle fazioni razionali nell’arcipelago dei poteri persiani è una sponda americana per alleviare le sanzioni in cambio dello stop allo sviluppo della Bomba. Alternativa opposta: esibirsi finalmente potenza nucleare con una dozzina di atomiche semipronte per l’uso. Così l’Iran rischia di scatenare il Grande Satana. Non solo per salvare il Piccolo. Anche per frenare la corsa all’arma definitiva nella regione e nel mondo. Avvertimento per turchi e sauditi.

 

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 Nella fase terminale del mandato della Guida suprema la priorità è scongiurare il cambio di regime. La paura della guerra civile ha finora sconsigliato sollevazioni di massa. Ma la decisione di spostare presto la capitale nel Sud dimostra quanto insicura Teheran sia oggi agli occhi di ayatollah e pasdaran.

L’ordine del giorno nella partita del triangolo verte sul controllo di Damasco. Fuori gioco, per ora, l’Iran che l’ha appena perduta. Meta possibile per Israele, che si troverebbe però a gestire altri milioni di arabi. Probabile per la Turchia, sempre che i suoi affiliati locali le restino fedeli e non finiscano inghiottiti negli scontri con avverse fazioni. Per Erdoğan si avvera un sogno. Nel 2012 si riprometteva di pregare presto nella damascena Moschea degli Omayyadi. Dove ha appena fatto recapitare cinquemila metri quadri di tappeti rosso bordò da lui scelti e commissionati a un’azienda di Gaziantep, stesi per il Ramadan.

 

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4. Da qualunque angolo lo si osservi, il futuro del triangolo dipende soprattutto da Israele. Impegnato nella guerra che non può vincere né perdere. Eppure attratto dall’idea di evolvere in impero cominciando con l’annettere Giudea e Samaria, oltre a postazioni avanzate nel Libano e in Siria (carta a colori 6). Idea che lega mandato del Libro, laicissime ambizioni geopolitiche e svolta autoritaria in casa. Bilanciare questi fattori per battezzare via acquisizioni progressive spazi teoricamente estesi dal Nilo all’Eufrate (Genesi 15, 18) affidati all’imperatore di Gerusalemme parrebbe impresa acrobatica (carta 3). Ma lo shock del 7 ottobre ha spazzato il campo dai tabù originari. La deportazione di arabi dai Territori occupati destinati ai coloni è prassi ufficiale del governo. L’ultradestra religiosa di Bezalel Smotrich e Itamar Ben-Gvir celebra il trionfo postumo del rabbino Meir Kahane (1932-1990) fino a ieri bollato paria dall’establishment perché fautore dell’espulsione di tutti gli arabi da Eretz Yisrael. La maggioranza degli ebrei oggi pare pensarla come lui. A cominciare dal 72% che vorrebbe cacciare tutti i gaziani dalla Striscia. Anni fa un sionista di sinistra confessava: «In fondo al cuore siamo tutti Kahane. Il resto è questione di educazione» 3.

La creazione di un terzo impero nel cuore levantino del Medio Oriente prevederebbe l’espansione di Israele senza comprometterne l’impronta ebraica. Anzi rafforzandola, visto il grado di insofferenza fra le sue tribù. Il rischio di autodistruggersi nel tentativo di far quadrare tanto cerchio è alto. Netanyahu e associati sembrano disposti a correrlo. Per loro dopo il 7 ottobre non c’è più status quo da difendere. L’obiettivo è la vittoria totale nella guerra totale che eliminerà o sterilizzerà i nemici dello Stato ebraico. In continuità con la guerra di indipendenza del 1948-49 e successive, questo scontro affermerà Israele massima potenza regionale in quanto gemello diverso della massima potenza mondiale, gli Stati Uniti d’America. O sarà l’inizio della sua fine. Armageddon anticipato.

 

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Senza cogliere il fondo apocalittico della strategia di Netanyahu non capiremmo perché apra un fronte bellico dopo l’altro e non ne chiuda uno. La sua è vabanque geopolitica: gioca tutta la posta per raddoppiarla. Se vince, passerà alla storia quale fondatore dell’impero israeliano. Augusto di Gerusalemme. Se perde, la sua memoria sarà maledetta nei millenni dagli ebrei che gli sopravvivranno.

Di norma un impero si fonda su un nucleo nazionale che si espande, ingloba terre e popoli alieni da assimilare, integrare o costringere nel proprio Stato. Alla prima necessità Netanyahu ha risposto nel 2018 con la legge fondamentale su Israele Stato nazionale del popolo ebraico, ulteriore declassamento degli arabi interni. Ma lo Stato ebraico è proprio uno Stato, gli ebrei sono davvero nazione? Spiega a Limes un autorevole stratega locale: «Dovremmo chiederci che cosa significhi essere una nazione ebraica oggi, dopo millenni in cui eravamo comunità religiose senza sovranità». Domanda legittima dopo che amās ha violato il principio fondativo dello Stato, inteso rifugio per tutti gli ebrei del mondo – ma la cui maggioranza resta in diaspora (carta 4). Il 2024 ha segnato il record di ebrei emigrati da Israele, oltre 82 mila, contro 32.800 immigrati. Due atti anche moralmente opposti. In ebraico chi arriva compie una salita (aliyà), chi lascia è in discesa (yeridà). Secondo un sondaggio del giugno scorso il 62% degli ebrei israeliani valuta l’opzione yeridà. Il 37% ha o vuole avere un passaporto straniero 4.

Consideriamo poi la tendenza demografica. Se annettesse Giudea e Samaria, con i suoi 700 mila coloni ebrei, cittadini israeliani con accesso a scuole e servizi pubblici, e i 3 milioni di palestinesi, apolidi dunque esclusi dal voto, Gerusalemme sanzionerebbe il regime di apartheid. Ma dovrebbe deportare una quota notevole di arabi per non squilibrare il rapporto con gli ebrei di Israele, impegnati a serbare la maggioranza etno-religiosa in ossequio al precetto sionista. Intenibile in caso di inglobamento della Striscia. Di qui il tentativo di espellere il grosso dei gaziani oggi e dei cisgiordani domani (lavori in corso). Non basta: gli haredim, ebrei ultraortodossi che nello Stato di Israele conducono un’esistenza separata e come gli arabi vengono esentati dal servizio militare, sono oggi un sesto dei quasi dieci milioni di israeliani, poco meno degli arabi (un abbondante quinto). Ma destinati al raddoppio nel 2050. Gli ebrei laici e religiosi non ultraortodossi finirebbero dunque in minoranza. Ma se sei minoranza nel nucleo sionista storico, né hai vocazione all’assimilazione degli altri, come gestisci un impero? E se anche cacciassi tutti gli arabi, avresti la massa demografica sufficiente a sviluppare il tuo paese?

 

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Carta di Laura Canali – 2025 

 

In ogni caso per conquistare altro spazio Israele deve contare su Forze armate numerose ed efficienti. La guerra di Gaza e quella più limitata in Libano confermano che l’età d’oro delle Israel Defense Forces (Idf) è trascorsa. Tendono a prevalervi gli estremisti religiosi. Quanto all’intelligence civile e militare, per sua natura portatrice di spunti critici perché esposta allo studio e al contatto con il nemico, cresce la bolla solipsista. Risultato: avanti senza troppo riflettere, ripetendo consapevolmente gli stessi errori perché cambiare tattica in guerra non viene spontaneo. Esemplare della nevrosi – combatto male perché non vedo alternative, dunque (mi) perdo – l’ammissione del portavoce delle Forze armate, contrammiraglio Daniel Hagari: «amās è un’idea radicata nei cuori della gente. Chiunque pensi che possiamo eliminare amās sbaglia» 5. Netanyahu non ha apprezzato.

Di qui il ricorso massiccio all’Aeronautica, in tutti i sensi regina di Tzahal. L’arma aerea copre il 75% circa delle operazioni, tra chirurgie balistiche e bombardamenti indiscriminati, come testimoniano le decine di migliaia di morti fra la popolazione gaziana, soggetta a punizione collettiva. Problema: il costoso munizionamento dipende dai rifornimenti americani. Senza dei quali la guerra sarebbe già finita.

Lo Stato ebraico sarà stabilita potenza mediorientale quando avrà inventato una forma di convivenza con Iran e Turchia dopo averne stroncato le velleità espansive. Improbabile ma possibile a tre precondizioni. Se una sola venisse a mancare, altro che Grande Israele: niente Israele. In ordine di rilievo.

 Prima e indispensabile, la protezione americana. A sua volta vincolata alla riemersione degli Stati Uniti dal caos. Esito per nulla determinato. L’importanza del sostegno americano a Israele non può essere sopravvalutata. Semmai cresce: senza le bombe, i missili e le munizioni a stelle e strisce i suoi soldati non potrebbero combattere. Washington era, resta e forse sarà disposta a scendere in campo non per un qualsiasi «alleato» (le virgolette indicano pudore nell’uso di un termine ormai vuoto di senso) atlantico o per un socio anticinese, ma solo per il parente israeliano.

Seconda, la pace domestica. Compromesso fra le eterogenee componenti ebraiche e compressione della minoranza araba. Non palestinese. Differenza sostanziale. La prima definizione allude al pluriverso arabo. La seconda è riferita a una Palestina che non c’è né ha diritto a esistere. In emergenza, agli arabi direttamente o indirettamente sotto controllo israeliano si offrirà la scelta fra espulsione, idealmente «volontaria», liquidazione stile Gaza o rango di serie C nello Stato degli ebrei, in condizioni economiche e sociali comunque superiori a quelle offerte dai vicini. I quali tutti condividono il dogma per cui un simulacro di Stato palestinese potrebbe inventarsi fra Cisgiordania e Gaza, mai in casa propria. La fratellanza panaraba, ammesso esista, ha limiti. Per i dittatori in servizio, ma anche per gran parte dei loro sudditi.

Terza, la sterilizzazione degli Stati arabi. I cui fasulli confini, figli dei colonialisti britannici e francesi, sono sempre revocabili. L’importante è che non siano ostacolo o minaccia per il più grande Israele. Le cui frontiere vanno estese e infine fissate. Dopo tre generazioni, è tempo di determinare il limes dello Stato ebraico, specie l’orientale. Giudea e Samaria, vulgo Cisgiordania, sono nucleo irrinunciabile della nazione. Premessa di un impero dalle dimensioni comunque esigue. Israele dal Fiume al Mare sarà pure precetto del Libro, ma è soprattutto condizione minima per la sicurezza di Israele. Come il controllo in qualche forma di Gaza, del Libano meridionale e delle Alture del Golan in modalità allargata ai loro acquiferi grazie all’avvento a Damasco dei jihadisti filoturchi. In coerenza con il punto precedente, molti abitanti arabi di quelle aree saranno spediti in diaspora oppure assegnati a Sirie, Giordania ed Egitto. Se per far felice Israele la monarchia hashemita volesse ribattezzarsi Palestina, in elegante suicidio preventivo e previa assicurazione sui comfort dell’esilio, nessuno a Gerusalemme si straccerebbe le vesti.

5. Trump e i suoi fedeli sono l’assicurazione sulla vita di cui Israele ha più bisogno che mai. Il presidente non perde occasione per confermare Netanyahu nella certezza del supporto americano a tutti i costi. Gli accordi di Abramo patrocinati dal genero di Trump, Jared Kushner, in sentita intimità con il premier, sono progetto israeliano bollinato dalla Casa Bianca. Prodromo di impero light con Gerusalemme e gli autocrati del Golfo stretti in fidanzamento di convenienza. Tutto sotto il cielo a stelle e strisce.

America veglia sull’intangibilità del gemello ebraico, in postura servente. Interessante caso di Numero Uno manipolato da potenza minore. Spesso lieto di esserlo. Per l’amministrazione Trump la sovrapposizione di interessi è tale da consentirsi la bizzarria di evocare la provvisoria (?) annessione di Gaza – in competizione con Canada, Groenlandia e Panamá per il titolo di cinquantunesimo Stato americano – previa liquidazione di amās e foglio di via per i superstiti locali del massacro in corso. Vecchia idea già evocata da Kushner – ma senza espulsione dei gaziani – tanto che il rendering della futuribile Riviera di Gaza circola splendente in Rete (carta a colori 7). Ridurre il miraggio della Mar-a-Lago sul Medioceano a immobiliarismo geopolitico del genere già sperimentato senza successo dal primo Trump con il leader nordcoreano Kim Jong-un – io costruisco catene di alberghi nel tuo meraviglioso paese, paradiso turistico in sonno, e tu smaltisci l’arsenale atomico – trascura il fattore sentimentale, anzi spirituale, che muove i nuovi padroni di Washington. Non solo Trump.

 

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Ascoltiamo il segretario alla Difesa, Pete Hegseth, impegnato in queste settimane a ripulire il Pentagono da generali e ammiragli inaffidabili: «Non c’è ragione per cui il ristabilimento del Tempio sul Monte del Tempio sia impossibile» – sottotesto: basta abbattere la Moschea di al-Aqṣā. L’ambasciatore spedito da Trump a Gerusalemme, Mike Huckabee, così parlò nel 2017: «Ci sono termini che mi rifiuto di usare. Non esiste una West Bank. È Giudea e Samaria. Non esistono gli insediamenti. Sono comunità. Vicinati. Città. Non esiste una occupazione». In chiaro: «Non esistono palestinesi. Questo nome è solo uno strumento politico per sottrarre terra a Israele» 6. Mentre la collega inviata presso le nefaste Nazioni Unite, Elise Stefanik, stabilisce il «diritto biblico» del possesso israeliano di Giudea e Samaria 7.

Nulla di meno eccentrico. Chi si esprime così lo fa per convinzione profonda. Conscio che milioni di connazionali la pensano allo stesso modo. E non da oggi. Al fondo sta il sionismo cristiano elaborato da un paio di secoli in ambito inglese e americano. Teologia geopolitica a misura di evangelicali impregnati di letteralismo biblico. Costoro leggono il Libro come fosse un abbecedario, fuori da ogni contesto, contro filologia ed esegesi. Inconfutabile analfabetismo di andata senza ritorno. Concentrato nella Cintura della Bibbia (Bible Belt), roccaforte del protestantesimo evangelicale estesa dal profondo Sud – già avamposto anglicano, sempre memore del glorioso passato confederato – a spicchi di Midwest, fino all’Ohio. Cogliere profondità e diffusione di questa fede è essenziale per immergersi nell’universo culturale che è alla radice dell’empatia di tanti americani verso Israele. Prima condizione del suo esistere e degli impulsi espansionisti degli ultrasionisti che tengono in piedi il governo Netanyahu. Ciò che a europei disincantati può apparire temporale estivo è antico e sentito atto di fede nel popolo eletto da parte di chi non vi appartiene. Sionismo senza ebrei. Riavvolgiamo la pellicola per tratteggiarne senso e cogente attualità.

Il primo sionismo non è ebraico ma cristiano. Senza del quale Israele probabilmente non sarebbe nemmeno nato. Origina nel 1620 dallo sbarco dei padri pellegrini, fra cui decine di anglicani dissidenti, nel Nuovo Mondo. Terra promessa. Vengono nella moderna Gerusalemme, Bibbia alla mano, per compiere la volontà del Signore. Scritta nelle profezie bibliche. La restaurazione di Israele sulla terra assegnatagli da Dio prepara il secondo avvento di Gesù. Parusia che scompiglierà i maligni e convertirà gli ebrei, finalmente in grado di riconoscere il vero Messia.

Pochi mesi dopo lo sbarco dei missionari nell’odierno Massachusetts, un parlamentare inglese protestante e biblista appassionato, Henry Finch, descrive nel suo The World’s Great Restauration, or the Calling of the Jews l’imminente ritorno delle dodici tribù di Israele nella terra promessa. Pietra miliare del restaurazionismo. Il suo più celebre araldo sarà il conte di Shaftesbury, che nel 1854 fissa il motto caro a chi crede nel diritto divino di Israele a riprendere possesso di Eretz Yisrael: «C’è un paese senza nazione. E ora Dio, nella Sua saggezza e nella Sua misericordia, ci indirizza verso una nazione senza paese» 8. Piano di redenzione territoriale. Sicuramente influente nella scelta del consentaneo compatriota Arthur James Balfour, che nel 1917 prometterà agli ebrei erranti un «focolare nazionale» in Palestina.

La fortuna americana del sionismo con la croce è impressionante 9. E persistente. Eppure si tratta solo di una pur corposa branca del movimento evangelicale, zolfo per le classiche denominazioni protestanti. Ma assai influente nelle gerarchie intellettuali, politiche e accademiche, oltre che nei laboratori strategici statunitensi. Il testo di riferimento esce nel 1844 dalla penna del reverendo George Bush, ebraista all’Università di New York, ascendente di due presidenti degli Stati Uniti. È infatti cugino del trisnonno di George Herbert Bush quindi quadrisavolo di George Walker. Il suo canone restaurazionista è disegnato in The Valley of Vision, or The Dry Bones of Israel Revived 10. Le sue tesi esibiscono a posteriori quattro quarti di nobiltà a stelle e strisce e vengono tuttora citate dai sionisti cristiani decisi a rivitalizzare le «ossa aride» di Israele. Bush avverte approssimarsi il «richiamo finale della razza ebraica dalla sua lunga dispersione tra le nazioni e del suo reinsediamento nella terra che le è stata lasciata in eredità dall’Alleanza». Attenzione, perché il «ristabilimento nella terra di Canaan sarà definitivo e permanente» (carta 5) 11.

 

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Carta di Laura Canali – 2025 

 

Il dotto studio dell’ebraista Bush diventerà manifesto geopolitico nel 1891 per iniziativa di William Blackstone, predicatore metodista e uomo d’affari di Chicago, autore di Jesus Is Coming 12. La sua lettera aperta al presidente Benjamin Harrison – in copia ai sovrani del mondo che conta, fra cui il sultano Abdülhamid II, l’imperatore tedesco Guglielmo II, la regina Vittoria e perfino il nostro Umberto I, autoproclamato re di Gerusalemme – propone di «restituire la Palestina agli ebrei». Da buon trumpiano ante litteram, Blackstone chiede in cambio agli ebrei di contribuire a ripianare il debito pubblico dell’impero ottomano, titolare di Terrasanta. La lista dei 413 firmatari esibisce una selezione dall’establishment statunitense, compreso il futuro presidente William McKinley, tanto caro a Trump 13.

Alcuni fra i più incisivi inquilini della Casa Bianca non resteranno insensibili al grido di Bush. Da Theodore Roosevelt a Wilson fino a Truman, il presidente che riconoscerà de facto l’indipendenza di Israele 11 minuti dopo la sua proclamazione. Fervente sionista, come testimonia nella lettera «personale e confidenziale» inviata il 29 novembre 1948 al suo omologo israeliano, Chaim Weizmann: «Ciò che voi avete avuto dal mondo è assai meno di quanto vi spettasse» 14. Celebre il suo «io sono Ciro! Io sono Ciro!», autoidentificazione con il re di Persia che nel 539 a.C. sconfigge i babilonesi e consente agli ebrei loro prigionieri di tornare a Gerusalemme. Quando il letteralismo sposa l’anacronismo.

Dagli anni Cinquanta del secolo scorso la staffetta restaurazionista è impugnata con gran successo di pubblico dai telepredicatori cristian-sionisti. I quali non coltivano speciale simpatia per gli ebrei, se non in quanto esecutori potenziali del dettato biblico. Come dimostra il caso di John Hagee, l’anziano predicatore che vanta di aver «miracolato» Trump convincendolo a spostare la sua ambasciata da Tel Aviv a Gerusalemme. Eppure lui stesso nel 2008 aveva osservato che «Dio ha mandato Adolf Hitler per aiutare gli ebrei a prendere la terra promessa» 15.

6. Il caso dei sionisti cristiani e della loro influenza nell’amministrazione Trump illustra profondità e attualità del vincolo israelo-americano. Paradosso vuole che la corrente geopolitica più lontana dal trumpismo, la neoconservatrice, esprima altrettanta intrinsechezza con lo Stato ebraico. Così le élite liberal, in cui si riconosce la maggioranza dell’ebraismo a stelle e strisce. L’obbligo morale e strategico di garantire Israele, Piccolo o Grande che sia, corre lungo tutto lo spettro dell’America che conta, eterodossie comprese. La biografia politica di Netanyahu, con i suoi capitoli d’Oltreoceano marcati dalla tessitura di una rete di relazioni con l’establishment a stelle e strisce – Bibi è esponente di punta del Partito repubblicano prima che capo del Likud – e dalle intese con la crema del mondo economico e finanziario, esaltano il talento tattico dello spericolato premier israeliano.

Trumpisti e neoconservatori partono da premesse opposte. Entrambi però postulano la coincidenza fra interessi americani e israeliani. Se per i primi si esprime nella frenesia immobiliarista, con accento sulla dimensione materiale delle poste in gioco e sovrano disinteresse per quella umana, i leggendari neocon, tutt’altro che arresi, sono messianici in servizio permanente effettivo. Perciò immuni dalle repliche del reale. Ai trumpisti interessano le mura portanti. Ai neocon capita di sbatterci sopra a tutta velocità spinti da fede inconcussa. Pronti a ripartire a tutta birra sulla macchina di servizio. I trumpisti vogliono sostanziare il sogno americano in solide realtà. Colgono l’attimo per saldare il conto. I neocon amano sognare per il gusto del sogno. Indifferenti alle sveglie. Ne sono semmai eccitati. Confermati nel Credo.

Infine, e decisivo: mentre i sionisti evangelicali vicini a Trump sono talvolta antisemiti, quelli di matrice neocon professano sincera identificazione con il popolo eletto anche quando non sono ebrei. Ironia della geopolitica vuole che gli antisemiti siano più utili allo Stato ebraico di giudei di ascendenza trozkista sinceramente affezionati a Israele. Sicché ai primi ministri di Gerusalemme tocca coltivare i sionisti antisemiti per il bene del proprio paese. Talvolta ne pagano il prezzo, come pare sia capitato a Ehud Olmert, disposto a cedere quasi tutti i Territori occupati, costretto a dimettersi nel 2008 per uno scandalo dietro il quale lui vedeva la mano di certi «amici» d’America. Evangelicali sionisti avversi agli ebrei.

Se le radici del sionismo cristiano si perdono nei secoli, quelle dei neocon filo-israeliani sono recenti. Geopolitica in vena lirica. Il Grande Israele non si misura in chilometri quadrati. Non è aggiungendo qualche dipendenza all’esiguo condominio nazionale che si produce impero. Meglio lo spezzatino di Stati musulmani e arabi che dopo l’11 settembre Bush figlio, manovrato dai suoi neocon, immaginava di cucinare seguendo la ricetta della «guerra al terrore». Prima l’Afghanistan, poi l’Iraq, quindi l’Iran e così via. Divide et impera. Obiettivo: rianimare l’America sconvolta dalla banda di bin Laden, espanderne il modello a est di Suez e incoronare Israele quale gemello in ispirito e referente strategico per il Medio Oriente.

Per i neocon le dimensioni di Israele non hanno mai contato quanto quelle dei suoi avversari regionali. Legge fisica stabilisce che per ingrandirsi uno Stato deve rimpicciolire i suoi vicini. L’ebraico non fa eccezione. Ridurre la taglia degli adiacenti eleva automaticamente la sicurezza di Israele. E risparmia costose guerre di conquista a un popolo troppo esiguo per dissanguarsi in sfibranti campagne militari.

Questa idea di impero costruito alla rovescia ha un modello: il Piano Yinon 16. Risale al 1982, eppure affascina ancora gli strateghi israeliani, compresi coloro che nulla hanno a che fare con il sionismo religioso. Per i quali l’ideale sarebbe sposare il real estate trumpiano con lo sminuzzamento dei precari pseudo-Stati e staterelli mediorientali.

Intorno a quel progetto circolano teorie del complotto d’ogni colore. Come quasi sempre, le sulfuree elucubrazioni dei retroscenisti, che vi leggono cabale cifrate, confondono anziché chiarire. Il Piano Yinon è in tutta evidenza versione bruta della strategia perseguita dai neocon e dall’establishment israeliano, non solo di destra: costruire il primato dello Stato ebraico in Medio Oriente via frammentazione degli Stati artificiali che lo attorniano. Stretta attualità.

Da buoni letteralisti, partiamo dal testo, pubblicato in ebraico sulla rivista Kivunim (Direzioni), edita dall’Organizzazione Sionista Mondiale. Titolo: «Una strategia per Israele negli anni Ottanta». Autore: Oded Yinon, giornalista del Jerusalem Post, già consigliere del leader likudista Ariel Sharon e funzionario del ministero degli Esteri.

Per cominciare, il contesto. Secondo Yinon, l’umanesimo occidentale è al collasso. L’etica non conta nulla: «Tutto si riduce ai bisogni materiali»; «quasi tutti i valori stanno sparendo»; «assistiamo al crollo dell’ordine mondiale». Il caos circonda Israele. Per salvarlo, occorre abbattere le «provvisorie case di carta del mondo arabo e islamico, allestite da forestieri (Francia e Inghilterra) negli anni Venti contro i desideri dei loro abitanti». Di qui «diciannove Stati tutti frutto della combinazione di minoranze e gruppi etnici ostili gli uni agli altri, sicché ognuno di essi è minacciato dalla consunzione interna». Segue elenco degli Stati in via di disfacimento, dalla Siria all’Iraq, dal Libano alla Libia, fino alle monarchie del Golfo. Yinon si sofferma su due Stati in bilico – oggi più di allora: Giordania ed Egitto. Israele ha l’occasione unica di trasformare la prima in ostello per palestinesi sfrattati da Giudea e Samaria, assegnate ai propri coloni, mentre il secondo va sfrangiato in regioni separate, con uno staterello copto nel Nord «accanto a poteri locali e senza governo centrale». Di passaggio, Gerusalemme recupera il Sinai.

Per quanto riguarda Israele, «non è possibile continuare a vivere nel nostro paese se non separandone le due nazioni, spingendo gli arabi in Giordania per dar spazio agli ebrei nelle aree a occidente del Fiume». Gli arabi israeliani devono sapere che «la loro nazione può vivere sicura solo in Giordania»: «La soluzione del problema dei nostri indigeni arabi verrà solo quando riconosceranno l’esistenza di Israele entro confini sicuri fino al Giordano e oltre (tondo nostro, n.d.r.)». Ergo: «Il possesso di Galilea, Giudea e Samaria è la sola garanzia della nostra nazione. Se non diventiamo maggioranza nelle regioni di montagna faremo la fine dei crociati. (…) Controllare lo spartiacque da Be’er Sheva all’Alta Galilea è obiettivo nazionale».

Quanto al fronte orientale, Libano, Siria e Iraq sono maturi per la decomposizione. In particolare, dalla fricassea siriana deriveranno «uno Stato alauita lungo la costa» e due aggruppamenti sunniti rivali orbitanti su Aleppo e Damasco, più un soggetto druso.

Le tesi di Yinon, vecchie di 43 anni, echeggiano oggi più di ieri. Rielaborate dai neocon nell’età d’oro del globalismo a stelle e strisce, esprimono la potenza della lunga durata nelle partite geopolitiche di spessore. Si osservi il master plan per il «Nuovo Medio Oriente» tracciato dal tenente colonnello Ralph Peters nel giugno 2006 sulla rivista delle Forze armate statunitensi (carta a colori 8) 17. Balcanizzazione a man salva che garantirebbe Israele senza allargare le proprie frontiere ma amputando quelle dei due imperi rivali. Secondo Peters le questioni dei Territori occupati e di Gerusalemme sono «intrattabili al di là del nostro tempo di vita», perché sovraccariche di religione. Qui l’autore mostra virtù profetiche. Evoca l’avvento di Trump: «Dove tutte le parti in causa trasformano il loro dio in un tycoon dell’immobiliare, le battaglie per il territorio esibiscono una tenacia incomparabile con l’avidità di ricchezze petrolifere o le risse etniche». Il disinibito Peters non risparmia i diplomatici che sacrificano al mito dell’intangibilità dei confini, come se non cambiassero in continuazione dalla notte dei tempi: «Oh, aggiungo un altro sporco segreto confermato in cinquemila anni di storia: la pulizia etnica funziona». Tirate le somme algebriche, la Turchia subisce chirurgia imponente a vantaggio del Kurdistan Libero, esteso da Diyarbakır a Kirkūk, mentre l’Iran perde il Libero Balucistan anche se incamera, parziale compensazione, l’area di Herat nel «suo» Afghanistan. Conclusione: nel Grande Medio Oriente «possiamo contare su crisi senza fine».

 

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Carta di Laura Canali – 2025 

 

La partita che si gioca oggi dentro e attorno Israele è spaventosamente simile a sé stessa, incurante del tempo. Può darsi più concreta dimostrazione dell’insolubilità della questione arabo-israeliana, con la sua appendice palestinese?

7. L’11 ottobre 1975, quasi cinquant’anni prima che Donald Trump proclamasse l’intenzione di piazzare i marines a Gaza per garantire pace e ricostruzione, nella prima puntata dello show televisivo Saturday Night Live andava in onda un film di Albert Brooks sullo scambio di posto fra Israele e lo Stato americano di Georgia. Narratore: «Con una mossa senza precedenti destinata ad allentare le tensioni mondiali, Israele e lo Stato di Georgia hanno concordato di scambiarsi il posto. L’intera Georgia – residenti, affari, ogni forma di commercio – traslocherà in Medio Oriente il 1° gennaio 1977. Non si sposterà alcun edificio. Sarà un equo scambio di proprietà». La telecamera inquadra il leader israeliano: «Spero che New Orleans sarà più facile da trattare del Cairo». Soggiunge il rappresentante georgiano: «So che il mio Stato tutto gode alla prospettiva del calore senza umidità».

L’ironia dell’ebreo Brooks illustra l’ingovernabile tic americano di trattare all’americana dispute geopolitiche che molte personalità d’Oltreoceano non saprebbero dove collocare sul planisfero. Su pragmatiche basi transattive: io do una cosa a te, tu ne dai una a me. Ok, il prezzo è giusto. Storia, tradizioni, religioni? Non contano. Gerusalemme contro la capitale della Coca-Cola? Colpo di genio. Faraway deals for faraway issues.

Nel caso Trump decidesse di rilanciare Brooks, dovrebbe scontare il considerevole rimpicciolimento del suo paese. Il capo Maga farebbe l’America decisamente smaller. Lo Stato ebraico al netto dei Territori copre 21 mila chilometri quadrati scarsi, la Georgia quasi 154 mila; gli israeliani sono meno di 10 milioni, arabi compresi, i georgiani 11 abbondanti, tra cui 1.500 ebrei e un’esigua diaspora palestinese rappresentata nel locale parlamento dalla combattiva democratica Ruwa Romman, non sempre a suo agio con l’omologa ebrea, la repubblicana Esther Panitch. I filologi israeliani alzerebbero il sopracciglio scoprendo che il soprannome della Georgia – Peach State, ovvero Empire State of the South – fonde insieme prunus persica e impero, che per ebrei poco spiritosi (malgrado lo stereotipo, esistono) potrebbe evocare l’Amalek secondo Bibi, alias Repubblica Islamica dell’Iran. Meno complicata l’inversione degli inni: HaTikvà (La Speranza) contro Georgia In My Mind, sperabilmente nella versione di Ray Charles.

L’uscita del presidente su Gaza, da «provvisoriamente» evacuare in favore di un contingente Usa destinato a consentirne la trasformazione in Mar-a-Lago sul Medioceano, è stata bollata ennesima trumpata. Particolarmente sgradevole stante le sofferenze dei gaziani, trattati quali «animali» dalla rappresaglia di Israele come promesso dal suo ministro della Difesa, Yoav Gallant, poi dimissionato da Netanyahu perché poco tosto 18. È vero che difficilmente alle sparate di Trump corrispondono fatti. Spesso però producono effetti non voluti, cui il presidente con i suoi fedeli, volenti o nolenti, si adattano. E naturalmente ne cantano le lodi in quanto compimento del piano originario.

La Riviera di Gaza non la vedremo, probabilmente nemmeno la Striscia svuotata dalla massa dei sopravvissuti. Nella meno peggiore ipotesi, avremo un lungo stallo tattico che fermerà provvisoriamente la strage e scongiurerà la pulizia etnica semitotale stile Piano Eiland (carta 6), in attesa della formula magica che permetterà a tutti di fingere di aver salvato la faccia. Utile ipocrisia, se potrà salvare le vite dei civili prigionieri in quella gabbia chiusa dalla coppia Egitto-Israele, tuttora sotto il tallone di amās, che fino all’alba del 7 ottobre Netanyahu finanziava per congelare la questione palestinese scommettendo sul pragmatismo dei terroristi. Ma se tregua vera sarà, chi meglio dell’America potrà garantirla?

 

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Carta di Laura Canali – 2025 

 

Il dato rivoluzionario del ballon d’essai trumpiano è che smentendo la sua «dottrina» propone di inviare soldati americani a Gaza. Stivali sul terreno. L’idea di chiamare truppe statunitensi e atlantiche ad assicurare pace in Terrasanta era stata evocata in passato dall’Autorità nazionale palestinese, quanto di meno autorevole e più inutilmente corrotto si possa concepire. Sicché oggi in campo palestinese c’è chi pensa di espungere quella battuta del presidente dal contesto e prenderla sul serio.

Per esempio l’attivista palestinese Daoud Kuttab. Secondo il quale «Trump potrebbe scoprire che a garantire pace e tranquillità non sarebbe ciò che gli israeliani – e specialmente la destra israeliana – si attendono», quanto invece lo spiegamento di un contingente americano quale cuscinetto fra i duellanti. Un presidio a stelle e strisce «tra un potente occupante militaristico e una popolazione debole ma resistente è esattamente quel che serve alla regione» 19. La missione armata americana a Gaza, di fatto provvisoria annessione della Striscia agli Stati Uniti, garantirebbe insieme sicurezza di Israele, salvezza dei gaziani e ricostruzione. Kuttab è convinto che se Trump accettasse l’invito a frapporsi fra i contendenti si guadagnerebbe il titolo di protettore della pace – lunga tregua – fra Israele e palestinesi. E magari quel premio Nobel frettolosamente anticipato a Obama. Aggiungiamo che potrebbe spingere noi italiani e altri atlantici a mettere un gettone militare nella Gaza pacificata. Quindi al futuro tavolo dei negoziati.

È abbastanza avvilente constatare quanto scaduto sia il nostro peso nella regione rispetto a un passato non preistorico. Non ci illudiamo di presto recuperare influenza nello spazio del triangolo qui sceverato. Di recente qualcosa abbiamo ricominciato a muovere, specie nelle relazioni economiche e militari con sauditi e altri signori del Golfo, mentre in Terrasanta non tocchiamo palla. Qualche ruolo potremmo ritagliarci nell’eventuale recupero del negoziato non solo nucleare con l’Iran, dopo avervi ingloriosamente abdicato. Decisivo infine affrontare di petto la questione turca, di tutte in prospettiva la più rilevante dopo che Ankara si è installata in forze attorno a noi, dalla Tripolitania al Corno d’Africa, da Tirana a Damasco. Ci imbatteremo costantemente nei turchi durante la perlustrazione del nostro estero vicino qui avviata.

Confessiamo un grado di scetticismo sulla possibilità di una decente soluzione della sfida fra israeliani e palestinesi. Gli estremisti nei due campi rifiutano di riconoscere nel membro dell’altro popolo una persona. Impartire dall’alto lezioni di etica ai contendenti mentre si scannano sul campo sembra non indurci speciale disagio, quasi fossimo certi della nostra superiore moralità. Forse anestetizzati dalla narcosi bellica che induce media e politici a concentrarsi sui territori trascurando chi li abita in modalità di sopravvivenza. La misura della Guerra Grande sono i chilometri quadrati, non chi ci vive. Proponiamo quindi un’esercitazione che a molti parrà provocatoria, a noi necessaria.

Specialmente dedicata a chi accusa l’Unione Europea di non far nulla per Gaza. Vero, ma ingiusto: se non sei un soggetto geopolitico non puoi fare geopolitica. Tuttavia si tratta pur sempre di un’organizzazione di umani, cui nulla vieta di agire umanamente. Ergo: immaginiamo che ognuno dei suoi 27 Stati ospitasse in ragione della propria popolazione alcuni palestinesi di Gaza disposti a lasciare la Striscia e abilitati a poi rientrarvi in pace. La tabella dedicata propone doppia opzione: uno o due ogni diecimila abitanti. Davvero una goccia nel mare: su 449.206.579 europei salveremmo nel primo caso 44.912 persone, nel secondo 89.824. L’Italia ne prenderebbe 5.899 o 11.798.

Non accadrà – o forse invece sì. Però almeno capiremo chi siamo.

 

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Note:

1. Cfr. P. Zellini, La dittatura del calcolo, Milano 2018, Adelphi.

2. Cfr. G.W.F. Hegel, Rapporto dello scetticismo con la filosofia, Brescia 2018, Editrice La Scuola.

3. H. Majadli, «It’s Horrifying How Many Israelis Support the Expulsion of Palestinians», Haaretz, 9/2/2025.

4. Cfr. D. Perry, «We’re watching Israel self-destruct – at the hands of its own leaders and citizens», Forward, 7/12/2024.

5. «IDF spokesman says Hamas can’t be destroyed, drawing retort from PM: “That’s war goal”», Times of Israel, 20/6/2024.

6. Cfr. J. DeRose, A. Martínez, «What Trump team’s Christian Zionism beliefs mean for Gaza war, West Bank settlements», NPR, 2/12/2024.

7. J. Gedeon, «Trump UN nominee backs Israeli claims of biblical rights to West Bank», The Guardian, 21/1/2025.

8. Cfr. D. Lewis, The Origins of Christian Zionism: Lord Shaftesbury and Evangelical Support for a Jewish Homeland, New York 2010, Cambridge University Press, p. 205. Citato in J.-P. Filiu, Perché la Palestina è perduta ma Israele non ha vintoStoria di un conflitto (XIX-XXI secolo), Torino 2025, Einaudi, p. 5. L’analisi dell’anteriorità cristiana del sionismo qui dipanata ci ha guidato in questo scavo.

9. Cfr. P. Naso, «Sionisti con la Croce», I Quaderni Speciali di Limes, «La battaglia per Gerusalemme», luglio 2010, pp. 183-189.

10. G. Bush, The Valley of Vision, Or The Dry Bones of Israel Revived, New York 1844, Saxton and Miles.

11. Ivi, p. II.

12. W. Blackstone, Jesus Is ComingThe Revelation of Christ’s Return and the Christian Events Heralding His Rebirth, Paris 2018, Adansonia. L’edizione originale è del 1878.

13. «The Blackstone Memorial – 1891», lifeinmessiah.org

14. H.S. Truman, Memorie, Milano 1956, Arnoldo Mondadori Editore, vol. 2, p. 210.

15. «U.S. Pastor Apologizes to Jews for “God Sent Hitler” Comments», Haaretz, 14/6/2008.

16. O. Yinon, «A Strategy for Israel in the Nineteen Eighties», traduzione dall’ebraico e cura di I. Shahak, Journal of Palestine Studies, vol. XI-XII, n. 4-1, Summer-Fall 1982.

17. R. Peters, «Blood borders», Armed Forces Journal, 1/6/2006.

18. S. Karanth, «Israeli Defense Minister Announces Siege on Gaza to Fight “Human Animals”», Huffington Post, 9/10/2023.

19. D. Kuttab, «I’m Palestinian. Here’s why Trump’s Gaza gambit might just work», Forward, 21/2/2025

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