Fonte: Originale
di Vincenzo Musacchio, 8 gennaio 2018
Dopo la strage di Capaci e un giorno dopo quella di Via D’Amelio, l’allora ministro della Giustizia Claudio Martelli decise di firmare i primi provvedimenti che prevedevano il cd. “carcere duro” per i mafiosi. La normativa – fortemente voluta da Giovanni Falcone e alla quale non era stata data attuazione anche per via della sua estrema rigidità – fu quindi “sbloccata” proprio dalla strage di via D’Amelio. Lo scopo della norma a tutt’oggi resta elementare: impedire il passaggio di ordini o altre comunicazioni tra i mafiosi in carcere e le organizzazioni d’appartenenza sul territorio. È chiaro che tale tipologia di detenuto non deve e non può entrare in contatto con il proprio “mondo”. Qualsiasi ragionamento sul 41 bis, dunque, deve partire dal presupposto che il fine della norma non è rendere più afflittiva la sanzione penale ma interrompere i legami del mafioso con l’organizzazione criminale. Tutto ciò che va oltre tale scopo a noi non piace. Giovanni Falcone sosteneva – a ragion veduta – che il carcere duro ai mafiosi non poteva mai andar bene, abituati com’erano a comandare anche dal carcere. Oggi, dopo venticinque anni, dovremmo domandarci se il traguardo di questa norma sia stato raggiunto così come auspicava proprio Falcone. Credo proprio di no! Non vedo all’orizzonte una riforma carceraria che possa prevedere proprio nuove carceri speciali per questa tipologia di detenuti. Noto che le deroghe al fine di impedire i contatti con l’esterno cominciano a essere troppe. Mi chiedo come sia possibile, ad esempio, lasciar passare, sempre su autorizzazione del magistrato di sorveglianza, la corrispondenza fra alcuni detenuti sottoposti al 41 bis. Ho letto che alcuni mafiosi (ndranghetisti nel caso di specie) sono stati addirittura portati nel proprio territorio per dei permessi brevi e hanno potuto avere contatti con l’esterno e ordinare o suggerire strategie criminali. I fratelli Madonia (spietati killer siciliani) dopo alcuni anni si sono incontrati essendo in pieno regime di 41 bis. Francesco Schiavone pare conservi in carcere il suo storico ruolo di capo del clan dei Casalesi. Percepisce somme di denaro ed è attivo nella programmazione delle attività camorristiche del suo territorio. Totò Riina, sempre in pieno carcere duro, è riuscito a far giungere all’esterno la sua volontà di uccidere il magistrato Nino Di Matteo. Molti boss mafiosi dal carcere continuano a gestire il sistema degli appalti, delle estorsioni e delle collusioni con la politica. In base a tali fatti, direi che queste siano le vere disfunzioni a cui porre rimedio! Se modificare il 41 bis significa incidere su queste alterazioni allora sono d’accordo. Da tempo sono convinto che il 41 bis debba essere potenziato e i detenuti sottoposti al regime speciale di detenzione debbano essere ristretti all’interno di istituti a loro esclusivamente riservati, collocati se possibile nelle isole, sul modello territoriale di Pianosa e l’Asinara. I boss mafiosi col 41 bis e con la piena efficienza del sistema delle confische dei loro beni, saranno sconfitti e al tempo stesso avremo onorato la memoria di Falcone e Borsellino e di tutte le vittime delle mafie italiane. Sarò controcorrente ma a mio giudizio il 41-bis va inasprito e applicato con più rigore. Nella lotta alle mafie ancor oggi resta uno strumento indispensabile.
Vincenzo Musacchio, direttore scientifico della Scuola di Legalità
“don Peppe Diana” di Roma e del Molise.