Marco Revelli: “La lezione di Bobbio e il test di Askatasuna”

per Gian Franco Ferraris
Autore originale del testo: Marco Revelli
Fonte: La stampa

Marco Revelli: “La lezione di Bobbio e il test di Askatasuna”

Ho imparato l’importanza, politica e civile, della parola Dialogo fin dal primo anno di università, sui banchi dell’aula magna di Giurisprudenza dove Norberto Bobbio teneva le sue lezioni di Filosofia del diritto. Il dialogo, ci diceva, con l’aria di chi sapeva di essere vox clamantis in deserto (si era allora nel clima della guerra fredda), è la principale condizione della convivenza civile, ovvero del massimo bene che la politica può offrire agli uomini.

La violenza e la sua forma più estrema e distruttiva, la guerra, incominciano quando il dialogo – o, come lo chiamava lui, il «colloquio» – vien meno. Per questo, quando a Torino si sono colti i primi segni di “disgelo” intorno all’annosa questione del centro sociale di corso Regina Margherita, con l’apertura di una sia pur timida interlocuzione da parte dell’Amministrazione comunale che evitasse una prova muscolare e permettesse una regolarizzazione consensuale, l’ho colto con particolare favore.

Preferire alla pratica delle contumelie e delle scomuniche una franca discussione intorno a un tavolo, che metta a confronto le reciproche ragioni, magari conclusa con la sottoscrizione di una convenzione condivisa mi sembrerebbe una modalità apprezzabile non dico dalla totalità, ma da un’amplissima platea di cittadini che amino la propria città. Sono convinto che in un mondo retto dalla ragione, e non nella dantesca «aiuola che ci fa tanto feroci», dovrebbe essere così. Invece no. Invece ogni qual volta nel muro cieco delle contrapposizioni frontali si apre una crepa, e filtra un barlume di speranza che potrebbe preludere a una pacifica convivenza, subito salta fuori qualcuno che si mette di traverso. Come se il venir meno del clima di tensione gli levasse, in qualche modo, l’acqua in cui nuota. O l’aria viziata che respira. Succede nella grandi cose, nelle vere tragedie storiche, le guerre, appunto, che scoppiano esattamente per questo motivo (perché da una parte o da entrambe i maestri del veto bloccano ogni via di pace) e che stentano così tanto a finire – lo vediamo bene oggi – perché parlarsi attraverso le trincee è tradimento.

E succede nelle piccole contese locali, per fortuna meno cruente, ma non per questo meno distruttive del tessuto già fragile di una comunità. Di solito, questi artificieri di professione che minano sistematicamente ciò che i pontieri si sforzano di costruire, armano i propri argomenti con la retorica della Legge e dell’Ordine, preparando in realtà le condizioni di nuove trasgressioni e di nuovo disordine perché in effetti è nel clima di paura e incertezza che pescano i loro voti. Tra i vetri in frantumi e il fumo dei lacrimogeni.

Dicono, i nemici del dialogo, che si è troppo diversi. Che «non sono come noi». Soprattutto che non «vogliono essere» come noi. Ignorando che ogni dialogo, per essere tale, non può che avvenire tra diversi. I quali, in forza del rispetto reciproco conquistato grazie alla disponibilità al confronto, possono imparare a conoscersi e ri-conoscersi, modificandosi l’un l’altro senza pretendere di uniformarsi, anzi accettandosi nelle rispettive diversità (questa, per lo meno, la scommessa).

È l’Abc della democrazia, come forma di gestione dialogica della convivenza. E la posta in gioco nell’esperimento di Torino è esattamente questa, tanto più importante, direi “vitale”, in un’epoca così tormentata, delicata, pericolosa, soprattutto per chi è giovane, così densa di minacce per la democrazia, come l’attuale.

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