di Fausto Anderlini – 8 maggio 2019
La lingua che batte dove il dente duole
Negli ’80, e ancora nei ’90, frequentai con una certa assiduità Massimo Cacciari e posso dire che fui anche onorato della sua amicizia. Ci vedevamo alle riunioni redazionali di Laboratorio Politico a Roma e più spesso nelle attività dell’Istituto Gramsci Veneto a Venezia, quando fui incluso nel suo comitato scientifico. La sede dell’Istituto, ora defunto, era allora in una splendida e appartata dimora nell’oscurità di una calle non più larga di un metro in quel di Cannaregio. Oltre che animale intellettuale bifronte, di gran taglia e straordinaria curiosità, ovvero dominato da una tensione sempre irrisolta fra un’indole filosofico-teoretica esoteristica e una vocazione irresistibile alla politica pratica, Cacciari era un animale sans phrase e poteva abbandonarsi a una socialità maschia e senza ritegni formali. Le cene che suggellavano gli impegnati convegni praticati con grave e certosina dedizione nelle più svariate località del Veneto erano occasioni di grandi baldorie. Era impossibile sottrarsi al suo fascino e tutti ne eravamo in qualche modo innamorati. Per quanto non mancassero le donne (comunque poche e sempre con una virile caratterizzazione) ci si sentiva partecipi di una sorta di androceo, un team sportivo selezionato, un’orda amicale a sfondo erotico-intellettuale, un coacervo di eretici border-line. Ma pur sempre il cenacolo critico e scapigliato di una precisa nazione politica, persa la quale sarebbe venuta meno anche la nostra consistenza.
Poi, andata smarrita quella magica comunità, chiuso il Laboratorio Politico, in crisi politica il sodalizio con Tronti, Asor Rosa e Accornero dopo la ‘svolta’, agonizzante la stagione dei ‘rinascimenti urbani’ e altro…, ci siam persi di vista. Dalla fine dei ’90 mi diedi a una vita domestica e per quanto egli sia capitato spesso a Bologna per via del suo teatrale sodalizio con Ivano Dionigi mi son sempre tenuto alla larga. Se devo essere sincero più di recente ho osservato con un qualche desolato stupore le sue performances televisive. E tuttavia, malgrado le censurabili oscillazioni in epoca renziana, i pensieri di Massimo accedono sempre a metaforologie intriganti quanto dotate di spessore esistenziale. Non sono mai chiacchere.
Un esempio lo scritto di ieri su La Repubblica a proposito della Patria. La vera Patria, questo il succo, appartiene sempre a un luogo che è andato perduto, sicchè il patriottismo è una nostalgia che ci si porta dietro nell’esilio che consegue allo sradicamento. E le nuove Patrie che andiamo cercando sopraffatti dalla memoria di quella sfumata nel passato e recisa dal destino ci fuggono davanti. Un inseguimento destinato alla frustrazione, come fu per Dante, Machiavelli e Leopardi. La vera Patria che ci rimane per le mani la portiamo addosso, anzi in bocca, ed è una Matria, cioè la lingua. Che è pensiero, storia, cultura. La lingua nel suo aspetto nutriente, liberata dall’ossessione del Padre Padrone e per questo capace di dialogare con le altre lingue.
Senonchè la lingua è condivisa anche dai barbari, che aderiscono alla stessa fonetica ma fanno strame del suo significato matriarcale più profondo. Onde per cui, ne deduco, anche la Lingua è materia di contesa e può essere una ‘nazione’ solo per quelli che la usano in un certo modo. Non per tutti. Se la Patria è un mito la realtà della Matria non può essere altro che la secessione di una parte in una guerra civile senza fine fra parlanti che non possono intendersi perché incompatibile è il lievito del comune idioma (forse la vera radice comune dell’Europa). Cioè un Partito.
Ripensandoci, e traslando i concetti alla bisogna, che cos’è per noi questa Matria se non la ‘cultura politica’ ? Ovvero un insieme di modi di esprimersi, di guardare il mondo, di praticare le sfumature che conseguono all’uso di precisi concetti, di condividere storie e sentimenti ? Abbiamo perso il Partito, la Patria paterna, comunista e italiana, che ci affanniamo a voler ripristinare in sempre fuggenti e imponderabili ‘sinistre rifondate’ su scale incognite, mentre ci è rimasta la Matria, la lingua comune, la Cultura politica. Bellissima, ma impotente. Un legame per soli affiliati e amatori. Come una lingua morta. E questo, tanto per non farci illusioni, è lo stato dell’arte. Almeno decidessimo di parlarla questa lingua con affetto e indulgenza, in accoglienti case di cura per glottologi. Valorizzandone l’etimo comune (la nostra ‘lingua salvata’) e tacendo le inflessioni diasporiche e recriminatorie più accanite. Allora se non un partito avremmo almeno rimesso insieme una famiglia linguistica nella quale volerci bene. Da Maleandammo a Benveniste.