Prendi quel treno, Billy

per Luca Billi
Autore originale del testo: Luca Billi
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di Luca Billi  4 aprile  2019

Nell’età d’oro del jazz le big band avevano una sigla, un pezzo con cui cominciavano sempre i loro spettacoli. La canzone che apriva le esibizioni della più grande delle big band, quella di Duke Ellington, era Sepia panorama, composta dallo stesso Ellington e arrangiata da Billy Strayhorn. Quando nel 1940 l’American Society of Composers and Publishers – a cui si era dovuto associare lo stesso Ellington all’inizio della carriera – aumentò le proprie tariffe per i brani che passavano alla radio – e naturalmente i suoi era tra i più eseguiti – Duke chiese a suo figlio Mercer e a Billy Strayhorn – che erano associati alla Broadcast Music Incorporated – di preparare un nuovo repertorio. E fu in quel momento che decise di cominciare a usare come sigla un brano proprio di Strayhorn, che era già in scaletta: quella canzone, Take the A Train, divenne non solo il pezzo più popolare dell’orchestra di Duke Ellington, ma uno dei simboli della cultura jazz.

L’attacco è inconfondibile: Ellington suona alcune battute sul proprio pianoforte, a cui subito risponde l’intera orchestra, con un ritmo che ti travolge, dall’inizio alla fine. Cominci un viaggio che non vorresti mai finire.

Take the A Train divenne in breve una leggenda e naturalmente ogni leggenda si alimenta di storie; e contribuisce a crearne. Attorno a questa canzone se ne raccontano molte. Secondo una versione, Strayhorn aveva gettato il manoscritto nel cestino, perché gli sembrava che non esprimesse il proprio stile, ma richiamasse troppo quello di uno dei suoi idoli, Fletcher Henderson: Mercer Ellington raccolse quella cartaccia e si accorse che si trattava di un capolavoro.

La seconda storia invece richiama direttamente il titolo della canzone. Il giovane Billy aveva conosciuto il già famoso Duke Ellington a Pittsburgh nel 1938. Duke gli disse che lo voleva incontrare di nuovo, questa volta a New York. Qualche mese dopo, Billy si fece coraggio, andò con la sua musica nella Grande mela e quando arrivò nell’ufficio di Ellington gli dissero che stava suonando in un club di Harlem e gli diedero le indicazioni per raggiungerlo; Billy non voleva perdere questa occasione, prese immediatamente la metropolitana, arrivò ad Harlem, trovò il club e aspettò la fine del concerto. Suonò un pezzo che impressionò moltissimo Ellington. Quando gli chiese il titolo, Billy, preso dall’emozione, riuscì a ricordare solo le parole che gli avevano detto nell’ufficio e che lui aveva ripetuto continuamente nel corso del viaggio per timore di dimenticarle e quindi di non trovare il club: le prime parole di quell’indicazione erano ovviamente “prendi la linea A della metro”.

All’epoca di Ellington e di Strayhorn la linea A collegava Brooklyn – con il suo quartiere dei neri Bedford Stuyvesant – con Harlem, a nord dell’isola di Manhattan, l’altro grande insediamento dei neri di New York; era la linea che tanti afroamericani utilizzavano per andare a lavorare nei quartieri ricchi, nei quartieri dei bianchi. O per andare a Broadway, ad ascoltare la musica dei bianchi.

Ci vollero quattro anni prima che Take the A Train avesse le parole. Nel 1944, su quella musica una giovane ragazza di Detroit, il cui padre era un attivista del movimento afroamericano, compose dei versi, che riuscì a far sentire ad Ellington. Da quel momento quelle diventarono le parole della canzone e quella ragazza, Joya Sherrill, la cantante della big band di Ellington. E le parole raccontano una New York diversa da quella che quegli artisti conoscevano, la New York che loro speravano e per cui lottavano: perché secondo la canzone la linea A non porta via da Harlem per andare nell’Upper East side, ma invece porta proprio nel loro quartiere, nel quartiere dell’Apollo – a due isolati dalla fermata della 125 strada, che molti anni dopo sarebbe stata intitolata a Martin Luther King. E così Take the A Train diventa una canzone dell’orgoglio nero, di quello che i neri degli Stati Uniti sanno fare, a partire dalla musica.

E Duke Ellington e Billy Strayhorn furono grandi interpreti di questa storia. Ellington deve essere considerato non il più importante compositore jazz o il più importante compositore afroamericano: nessuna di queste etichette rende giustizia al suo genio. Duke Ellington è uno dei compositori più importanti del Novecento, un artista che sa dipingere con la sua musica. E Strayhorn collaborò con lui per oltre trent’anni, contribuendo con i suoi brani e soprattutto i suoi arrangiamenti a creare quello stile unico: Strayhorn sapeva dare una sola voce ai grandissimi artisti che componevano quella big band. Per molti anni il suo ruolo non è stato abbastanza riconosciuto, anche se lui non ne ha mai sofferto né Ellington ha mai mancato di riconoscerlo; diceva spesso durante i suoi concerti:

Strayhorn fa molto del lavoro, ma io faccio tutti gli inchini!

Strayhorn, nero e omosessuale, amico di Luther King, fu un grande attivista nel movimento dei diritti civili.

Morì per un cancro nel 1967, mentre era in ospedale compose un ultimo brano che consegnò a Duke Ellington, con cui egli decise di aprire il suo lavoro successivo …and his mother called him Bill. Questo disco si chiude con Ellington che suona da solo al pianoforte un altro bel brano di Strayhorn, Lotus blossom, mentre si sentono le voci degli altri musicisti che raccolgono gli strumenti e si allontanano dalla sala di registrazione: l’ultimo saluto al treno che scompare nella notte.

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