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di Michele Colucci 15 dicembre 2015
Michele Colucci ci riporta al dicembre del 1942 quando a Londra venne presentato il Rapporto finale della Commissione sulla riforma delle assicurazioni sociali, presieduta da William Beveridge. Colucci ricostruisce la personalità di Beveridge, ricorda l’enorme successo del suo Rapporto, che ha rappresentato una svolta storica del dibattito sullo Stato sociale e sostiene che esso conserva, pur nel mutato contesto, una perdurante attualità. La sua conclusione è un invito a non limitarsi a citarlo ma a leggerlo o rileggerlo.
Il 1 dicembre 1942 a Londra viene presentato alla stampa il Rapporto finale della Commissione sulla riforma delle assicurazioni sociali, insediata dal governo Churchill nel giugno 1941. Il volumetto contenente le conclusioni della Commissione, presieduta da William Beveridge, è messo in vendita nelle librerie, dopo un battage pubblicitario sapientemente allestito utilizzando soprattutto le radio. Il successo è immediato e impressionante: in pochissimi giorni vengono vendute 70.000 copie. Davvero tantissime per un libro stampato nel pieno della guerra che si occupa con linguaggio prettamente tecnico di questioni non “facili” come la previdenza, le assicurazioni, i salari, la sanità e il reddito. Il libro viene fatto circolare anche tra i soldati britannici impegnati sui fronti di guerra e viene tradotto e diffuso perfino nei paesi nemici, come l’Italia, dove arriva in una versione corredata da fumetti e vignette esplicative.
I sondaggi rivelano che l’85% dei cittadini britannici si dichiara favorevole al piano contenuto nel Rapporto. Ma il Parlamento, riunitosi nel febbraio 1943 per discuterlo, rinvia ogni decisione alla fine delle ostilità belliche. Le forze politiche sono spaccate: laburisti e liberali sono propensi all’attuazione immediata del progetto, mentre i conservatori sono contrari, anche se 36 deputati conservatori (i cosiddetti Tory Reformers) si dissociano e approvano una dichiarazione di appoggio al piano. Nel 1945 il Rapporto in Gran Bretagna conta più di 500.000 copie vendute. Ma chi era Beveridge e come riuscì a fare breccia in una congiuntura così delicata?
Nato nel 1879, lavora con Churchill fin dal 1908, quando viene chiamato presso il Board of Trade e nel 1942 è una figura già molto importante, non solo in Gran Bretagna. Di idee e di formazione rigorosamente liberali, collabora a lungo non solo con i conservatori ma anche con i laburisti. I suoi interessi e i suoi progetti si concentrano in particolare sui problemi della disoccupazione e del collocamento. Durante la prima guerra mondiale, viene assegnato al Ministery of Food, con l’incarico di sovrintendere alla sorveglianza dei prezzi e al razionamento degli alimenti. Nel 1919 viene nominato direttore della London School of Economics, su indicazione dei coniugi Webb, che ne erano stati fondatori. Ne resta a capo per quasi un ventennio, fino al 1937: un periodo ricco di ricerche e di attività per Beveridge, che diventa molto conosciuto non più solo come funzionario pubblico ma anche come studioso di economia e scienze sociali. Nel 1937 diventa rettore dell’University College of London. Allo scoppio della seconda guerra mondiale resta inizialmente fuori dagli incarichi governativi, soltanto con la formazione del gabinetto Churchill (11 maggio 1940) – e grazie al consenso che le sue idee riscuotono in alcuni settori laburisti – inizia a collaborare attivamente con il governo.
Il periodo in cui si riunisce la Commissione che Beveridge presiede e in cui viene prima redatto e poi lanciato il Rapporto finale (giugno 1941 – dicembre 1942) è un periodo cruciale per le sorti della guerra e dell’alleanza internazionale antifascista. La Carta atlantica firmata il 14 agosto 1941 da Roosevelt e Churchill afferma, al quinto punto, che i paesi contraenti “desiderano attuare fra tutti i popoli la più piena collaborazione nel campo economico, al fine di assicurare a tutti migliori condizioni di lavoro, progresso economico e sicurezza sociale” e, al sesto, che “dopo la distruzione definitiva della tirannide nazista, essi sperano di veder stabilita una pace che consenta a tutte le nazioni di vivere sicure entro i propri confini, e dia la certezza che tutti gli uomini, in tutti i paesi, possano vivere la loro vita liberi dal timore e dal bisogno”.
Proprio di “libertà dal bisogno” aveva parlato già il 6 gennaio 1941 Roosevelt, annunciando la sua scelta di campo contro la guerra nazifascista. La guerra, nel 1941, aveva ormai un nuovo fronte, quello della battaglia per i diritti sociali e Beveridge aveva intuito l’importanza di riempirlo di contenuti, di proposte e di progetti che potessero rilanciare l’aggregazione delle potenze democratiche.
Ma non è soltanto la dimensione ideologica della guerra a condizionare con forza l’elaborazione delle proposte di Beveridge. E’ anche la sua dimensione materiale. La guerra infatti ha prodotto nella società britannica un clima nuovo, di mobilitazione permanente, in cui i confini tradizionali e abituali tra le classi sociali si sono modificati, in cui il livellamento generale delle condizioni di vita ha generato un riavvicinamento complessivo della popolazione, unita non solo nello sforzo di sostenere la guerra ma anche nella fatica di sopravvivere ad essa. E’ lo “spirito di Dunquerque”, ma è anche, secondo Beveridge, un’occasione per poter riscrivere le regole del patto sociale, approfittando del maggiore senso di responsabilità diffuso tra i cittadini e del peso minore delle differenze sociali. La guerra e le sue conseguenze possono quindi diventare una risorsa eccezionale per affrontare in modo nuovo quelle questioni su cui Beveridge già da tempo aveva focalizzato la sua attenzione, anche rivedendo alcune delle sue certezze liberali rispetto al rapporto tra Stato e mercato: l’assistenza sociale, la sanità, la disoccupazione, l’indigenza, il collocamento, il ruolo economico dello Stato, il rapporto tra cittadini e istituzioni.
Ma quali sono i punti salienti della sua proposta e perché hanno avuto tanto successo e ancora oggi sono considerati fondamentali?
La prima novità del suo approccio è costituita proprio dalla cornice unitaria che tiene insieme i differenti settori che caratterizzano l’intervento dello Stato a favore della protezione sociale. Una cornice che è innanzitutto orientata alla razionalizzazione amministrativa degli interventi, considerata da Beveridge una questione di carattere non soltanto tecnico ma squisitamente politico a cui assegnò sistematicamente un ruolo centrale nei suoi scritti.
In estrema sintesi, possiamo individuare tre tipologie di intervento, finalizzate a raggiungere l’obiettivo dell’”abolizione del bisogno”.
- L’introduzione di un sistema previdenziale unificato e obbligatorio per tutti i cittadini, capace di coprire i periodi di “interruzione o perdita della capacità di guadagno”. E’ la riforma in senso universalistico e progressivo non solo del sistema pensionistico ma dell’intero sistema delle assicurazioni sociali. Il tema della previdenza viene da Beveridge declinato non in termini di intervento in situazioni di emergenza ma come un pilastro del progresso sociale, capace di combattere la miseria e gli altri quattro giganti che si frappongono al “cammino della ricostruzione”: Malattia, Ignoranza, Squallore, Ozio. Il calcolo delle pensioni e delle quote di sussidio alla disoccupazione e all’invalidità sono rigorosamente pianificati nella relazione del 1942, in cui viene prevista la definizione dell’età pensionabile e la quantificazione della pensione minima. La previdenza viene svincolata dall’assistenza sociale. Beveridge prevede che il suo piano possa riguardare la stragrande maggioranza dei cittadini e delle cittadine, indipendentemente dall’età lavorativa, inclusi i minori e le donne che non lavorano. Oltre a quantificare gli interventi per le pensioni, la relazione del 1942 si sofferma anche su altre indennità, quali quelle per la disoccupazione, per il tirocinio, per la nascita e il sostentamento dei figli, la vedovanza, la separazione, le spese funerarie, la gravidanza.
- L’organizzazione di un sistema coerente e articolato di servizi sanitari, gratuiti e aperti a tutti, pensati anche in un’ottica di monitoraggio e prevenzione delle malattie. Dalle urgenze alla riabilitazione, il servizio sanitario nazionale è il secondo pilastro previsto da Beveridge, capace di sostenere e tutelare i cittadini non solo nei momenti di difficoltà ma anche nella loro quotidianità.
- La realizzazione della piena occupazione, ritenuta il requisito indispensabile per poter mettere in atto e far sviluppare correttamente il piano di protezione sociale previsto. Nella relazione del 1942 (e non soltanto in essa) sono numerosissimi i riferimenti alla necessità di prevedere un’indennità di disoccupazione (senza accertamento del reddito ma con un graduale accompagnamento verso la riqualificazione professionale) e di favorire l’avviamento al lavoro. Tuttavia Beveridge – consapevole che una disoccupazione superiore al 3% avrebbe reso impossibile qualunque riforma – nella successiva relazione del 1944 (Il pieno impiego nella società libera) propone un sistema complesso di iniziative pubbliche finalizzate alla massima occupazione e alla sua tutela. Il piano di protezione sociale elaborato da Beveridge, come è noto, non è incentrato sulle categorie occupazionali e non è basato esclusivamente sulla figura del cittadino-lavoratore; tuttavia, il lavoro resta un elemento fondamentale della sua analisi e dei suoi progetti, e come tale non può essere delegato soltanto al mercato e al mondo dell’impresa.
Come Beveridge stesso precisa anche in contributi successivi a quelli del 1942 e del 1944, le innovazioni principali della sua proposta non sono da individuare soltanto nella loro dimensione unitaria (sia in senso amministrativo sia dal punto di vista dei destinatari) e universalista, cui abbiamo già accennato. Esistono almeno altre tre novità cui prestare attenzione. La prima è che il principio contributivo possa costituire la base del finanziamento – a seconda delle possibilità di ognuno – del sistema di protezione sociale. La seconda è l’esigenza di mantenere sempre viva la responsabilizzazione dei destinatari utilizzando accorgimenti idonei a non renderli passivi percettori di prestazioni (un esempio sono i corsi di formazione professionale per chi riceve l’indennità di disoccupazione).
Non è di secondaria importanza ricordare, a questo proposito, che Beveridge avversò la tendenza a associare la parola welfare al suo piano. L’indipendenza dei cittadini e la loro autonomia erano a suo avviso obiettivi fondamentali da perseguire e l’idea di uno Stato “Babbo Natale” era lontanissima dai suoi propositi.
La terza novità è che in entrambe le relazioni è ben evidente il tema della redistribuzione del reddito, richiamato in più occasioni come orizzonte irrinunciabile di riferimento.
L’intero corpus delle iniziative proposte da Beveridge è strettamente legato a una sorta di utopia tecnocratica, che vede negli uffici pubblici e nei funzionari dello Stato i luoghi e gli attori di un’azione capace di trasformare le condizioni materiali dei cittadini e le loro aspettative. Una sorta di “rivoluzione dall’alto” – quindi – che deve essere accompagnata da una generale responsabilizzazione “dal basso”, in cui (non sembri questa una contraddizione) non c’è traccia di aspirazioni rivoluzionarie.
E’ doveroso ricordare che le proposte di Beveridge furono messe in pratica non dal governo di coalizione ma dai laburisti che, pur con alcune differenze, le fecero proprie quando, a sorpresa, vinsero le elezioni nel 1945.
Nel corso del tempo, il dibattito sullo Stato sociale si è fatto sempre più complesso, come d’altronde sempre più complesse e variegate sono diventate le società che hanno sperimentato i diversi percorsi di welfare. Il discorso pubblico su quest’ultimo è sempre più appannaggio degli addetti ai lavori e si è frantumato in specialismi e tecnicismi che ne hanno indubbiamente messo a dura prova la popolarità e la capacità di penetrare in settori ampi della popolazione. Paradossalmente, a riempire di contenuti ideali il dibattito sul welfare sono oggi coloro che ne predicano l’estinzione. Chi ne difende lo spirito e la legittimità fatica a elaborare un discorso capace di mobilitare le persone e le coscienze.
Rileggere Beveridge a più di 70 anni di distanza può servire anche a ripensare l’attuale dibattito pubblico sulla protezione sociale.