Roventini: ‘Al governo manca una visione di politica economica. E quota 100 va bene solo per Savona’

per Gabriella
Autore originale del testo: Gea Scancarello, Keynes Blog,
Fonte: businessinsider.

di Keynes Blog 18 giugno 2019

Intervista molto condivisibile ad Andrea Roventini. Qui riassumiamo i punti principali (ma vi invitiamo a leggerla per intero):

– Il problema del capitalismo odierno è la crescita delle disuguaglianze e la finanziarizzazione che creano instabilità e ingiustizie sociali. Altri ingredienti negativi del Washington consensus: flessibilità del lavoro e riduzione delle tasse;
– Mario Draghi ha salvato l’euro e dovremmo fargli un monumento, ma manca la politica fiscale: regole troppo rigide basate su una teoria economica poco solida;
– Minibot sono un passo per uscire dall’euro: inutili e pericolosi
– E’ falso che potremmo reggere il 200% di debito come dice Savona: non siamo gli USA o il Giappone, crisi finanziaria ci travolgerebbe molto prima
– La Lega persegue politiche liberiste, a partire dalla flat tax che sarebbe una ulteriore distribuzione di ricchezza a favore dei ricchi, affiancate da regali elettorali come Quota 100.
– Serve uno “stato innovatore” che vari un New Deal “verde” con investimenti ad alto moltiplicatore e un salario minimo nazionale in attesa di uno europeo
– Le sparate contro l’Europa non servono a nulla, serve un bagno di realtà e più serietà.

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Ecco l’intervista a Andrea Roventini di  Gea Scancarello

Roventini: ‘Al governo manca una visione di politica economica. Serve più euro e meno liberismo. E quota 100 solo per Savona’

Questa avrebbe potuto essere un’intervista al ministro dell’Economia, una chiacchierata con l’uomo incaricato di portare l’Italia fuori dalla sua stagione di incertezze, anche economiche: il ministro del cambiamento, insomma. Invece, all’altro capo del telefono c’è Andrea Roventini, economista, professore associato alla Scuola superiore Sant’Anna di Pisa e ministro mancato: sacrificato da Luigi Di Maio, che pure lo aveva scelto e presentato al pubblico nella sua squadra di governo, sull’altare del patto scellerato – almeno dal punto di vista dei consensi per il Movimento 5 Stelle – con Matteo Salvini e del rimbalzo di incarichi tra Paolo Savona e Giovanni Tria.

Come sarebbero andate le cose se ci fosse stato lui in via XX Settembre non è dato sapere, ma qualcosa è lecito immaginare. A partire da un paio di concetti che Roventini snocciola qui e là, mentre gli chiediamo come si può, e deve, migliorare il capitalismo e il suo impatto sulla società. La politica economica della Lega, dice, è segnatamente neoliberista, con qualche concessione elettorale. E ancora: serve più euro e più Unione Europea, uscirne sarebbe una disgrazia. Un’Europa diversa, però. A partire dai pensieri di fondo, e dalle visioni profonde, sul neoliberismo, sulla spesa pubblica e sulle politiche fiscali dell’attuale sistema.

Partiamo da qui: cosa va riformato nel capitalismo?

La crisi dei mutui subprime e la Grande Recessione del 2008 hanno mostrato chiaramente che il modello di sviluppo neoliberista, nelle sue varie accezioni, non funziona. Parlo delle espressioni più estreme ma anche della cosiddetta “Terza via” di Blair e Clinton, che attribuiva ai mercati un ruolo prominente limitando quello dello Stato a interventi minimi di regolamentazione e correzione dei fallimenti di mercato. D’altronde lo dicono da tempo economisti e premi Nobel come Stiglitz.

Cos’è che non funziona?

L’intervento omeopatico dello Stato non ha corretto alcune tendenze: la prima è la crescita della disuguaglianza. Se si guarda alle statistiche, si vede che la disuguaglianza di reddito e di ricchezza ha ricominciato a crescere dagli anni 70 con le politiche neoliberiste di Thatcher e Reagan, e ha raggiunto i massimi di recente, alla vigilia della crisi del 2008, esattamente come accaduto prima della Grande Depressione del 1929.

L’altro grande errore è stata la liberalizzazione dei mercati finanziari negli Usa, che ha diffuso l’idea che di fronte a disuguaglianze crescenti e salari stagnanti le famiglie potessero sostenere i loro consumi attraverso il credito, in una gigantesca catena di Sant’Antonio. Anche in questo caso si pensava che il mercato avesse sempre ragione perché il rischio poteva sempre essere diversificato attraverso nuovi strumenti finanziari, tra cui i CDO (collaterized debt obligation, ndr), i CDO di CDO, i CDS (credit default swap), e tutti quegli strumenti derivati che giustamente Warren Buffett ha chiamato armi di distruzione di massa.

La politica si è adeguata a quello che si chiama Washington Consensus, cioè le politiche economiche proposte in vari decenni dal Fondo Monetario Internazionale (Fmi), che hanno fatto perdere dieci anni di crescita all’America Latina, e che peraltro adesso sono anche quelle proposte dalla Commissione europea, tanto che oggi si parla di Washington Berlin Consensus.

La Commissione europea propone politiche neoliberiste?

Quelle del Washington Consensus sono politiche basate sulle privatizzazioni, sulla flessibilizzazione del lavoro – che significa in pratica ridurre i diritti dei lavoratori – e sulla riduzione delle tasse, in un quadro complessivo di pareggio di bilancio. Questi pacchetti di politica economica si basano in una fede cieca nella magia del mercato, cioè sull’idea che il mercato sia l’unico modo per promuovere la crescita economica. Se l’economia cresce tutti ci guadagnano. Ma la favola dello sgocciolamento (“trickle down”) non è supportata dell’evidenza empirica: i benefici della crescita economica possono essere appannaggio solo delle classi più abbienti. La politica economica europea ha un forte grado di schizofrenia. Sull’innovazione e sul cambiamento climatico si stanno facendo buone cose, ma dal punto di vista della politica monetaria e fiscale esistono problemi. Come è possibile perseguire l’agenda di Lisbona per l’innovazione e combattere il cambiamento climatico sotto i vincoli del Fiscal Compact? Anche la politica monetaria perseguiva inizialmente la stabilità dei prezzi e la Bce non poteva fare la banca centrale.

Questo però Mario Draghi l’ha cambiato.

Sì, e come italiani dovremmo fargli un monumento. Sono stato molto contento quando la Scuola Superiore Sant’Anna gli ha conferito il dottorato honoris causa in economia. La politica monetaria è migliorata, anche se gli spazi di manovra della Bce rimangono più ristretti rispetto a quelli della Fed, la banca centrale americana. Ma la politica fiscale ancora non funziona, le regole sono troppo rigide. Un esempio: il deficit strutturale si calcola in base all’output potenziale, cioè il massimo potenziale di crescita dell’economia. Per ottenerlo si fanno delle assunzioni teoriche che producono pastrocchi, per cui, ad esempio, il tasso di disoccupazione naturale di equilibrio dell’Italia è il 10%. È difficile crederci.

È sconfortante, oltre che difficile. Ma qual è l’alternativa?

L’Unione monetaria è un’anatra zoppa, perché manca il pilastro della politica fiscale, come del resto rilevato anche dal Fondo monetario internazionale. Come potrebbe essere riformata? Per esempio si potrebbero scorporare gli investimenti pubblici dal calcolo del deficit, o almeno gli investimenti pubblici legati alla lotta al cambiamento climatico. Ci vorrebbero stabilizzatori anti-ciclici come un sussidio di disoccupazione europeo che possano aiutare le economie colpite maggiormente da una recessione a rialzarsi. Ancora meglio sarebbe avere un bilancio europeo, con un ministro delle Finanze europeoMerkel e Macron hanno parlato di recente di salario minimo europeo, e sarebbe una strada da battere: tutto quello che porta più Europa aiuta a salvare l’euro.

Più Europa! Strano che Di Maio l’avesse scelta come ministro potenziale…

Quando parlai con l’onorevole Di Maio dissi che per l’Italia era imprescindibile restare dentro all’euro, e lui era d’accordo: questo è uno dei motivi per cui accettai la proposta del Movimento. L’euro si trova in un equilibrio non stabile, come indicato dal Fondo monetario internazionale, e ci sono due strade: o si va verso più integrazione e un’unione fiscale o verso la disintegrazione, e l’Italia ne uscirebbe a pezzi. Quindi è inutile stare a parlare tutti i giorni dei minibot…

Parliamo dei minibot, ecco.

La settimana scorsa ero con alcuni colleghi argentini e dopo che ho spiegato loro di cosa si trattasse mi hanno detto “Sono come i patacones”, quelli che vennero introdotti in Argentina dopo la crisi del 2001 e che non funzionarono affatto. Noi potremmo chiamarli “Marcioni”, per cercare un nome simile.

Marcioni: un nome, un progetto.

Ha già spiegato tutto Draghi, ed è molto grave che il nostro parlamento abbia obbligato il presidente della Bce a commentare queste trovate, che ci delegittimano sui mercati finanziari e nelle sedi internazionali. Se i minibot sono strumenti di debito, infatti, fanno aumentare il debito, ma allora perché non usare i BOTSe invece sono moneta, sono illegali per via dei trattati della Ue. Oltretutto sono inutili perché le pubbliche amministrazioni al momento hanno ridotto i loro tempi di pagamento, il problema è l’arretrato che si è accumulato.

Perché li vogliono fare allora?

Be’, basta cercare in giro un po’ di video su YouTube per vedere che ci sono quelli, come l’onorevole Borghi, che li teorizzano come primo passo per uscire dall’euro. Lo schema è semplice: l’Italia crea una moneta parallela, andiamo a negoziare con la Ue con la pistola puntata, e se finisce male ce ne andiamo dall’Europa. Alla Grecia però non andò tanto bene. Ovviamente uscire dall’euro significa farsi molto male come pensano la maggior parte degli economisti che probabilmente hanno studiato più dell’onorevole Borghi.

A proposito di sparate e di dubbi, cosa pensa dell’uscita di Savona, che sostiene che l’Italia può permettersi un debito al 200% del Pil?

Penso che forse questo è l’unico caso in cui Quota 100 sarebbe stata utile per favorire un pre-pensionamento. Battute a parte, se si guarda alla letteratura economica teorica ed empirica, è vero che non c’è un limite assoluto del debito pubblico, ed è pure vero che il debito privato è più pericoloso di quello pubblico: su questo fronte l’Italia è ben posizionata. Ma questo non significa che l’Italia possa raggiungere un debito pubblico pari a 200% del Pil. Il limite del rapporto tra debito pubblico e Pil dipende dai fondamentali di ogni Paese: ci possono arrivare gli Stati Uniti che hanno una moneta molto forte, o il Giappone, che ha avanzi delle partite correnti rilevanti, ma per noi sarebbe folle, ci sarebbe una crisi finanziaria molto prima.

Questo ci porta a una questione di fondo, rilevante. Che ruolo hanno le ideologie nelle politiche economiche? Quanti sono i limiti imposti dai fondamentali, quanto contano le visioni, e quanto ci si può spingere in là?

Gli economisti hanno sempre fatto finta che l’ideologia non sia importante, perché propongono modelli analitici come verità assolute. In realtà, se uno avesse voglia e pazienza di scavare un minimo capirebbe che al di là dei modelli c’è una forte componente ideologica. Le politiche attuali sono basate sull’utilitarismo di Bentham e sulla fisica newtoniana: ed è bizzarro perché nel frattempo la filosofia e la matematica hanno fatto progressi enormi, ma l’economia standard è rimasta ancorata a strumenti dell’800.

Qual è la visione che regge dunque le scelte che si fanno oggi in Italia?

Nessuna! Manca una visione di insieme: le politiche che vogliono fare i due partiti al governo sono diametralmente opposte. La Lega persegue politiche di stampo liberista, a partire dalla flat tax che sarebbe una ulteriore distribuzione di ricchezza a favore dei ricchi e non porterebbe a una maggiore crescita. Vuole lasciare liberi gli imprenditori con condoni vari, non mira a farli crescere con quote forfettarie e in più vuole guadagnare voti attraverso la famigerata quota 100, un regalo ai maschi alla fine della loro carriera lavorativa del Nord. In sintesi, politiche neoliberiste più qualche promessa elettorale.

E i Cinque Stelle?

Hanno un’impronta più volta a correggere gli squilibri del mercato e alla lotta alla disuguaglianza: dal decreto dignità che vuole riformare la disciplina del Jobs Act, al reddito di cittadinanza che, al momento, visto che non ci sono i navigator, è un Rei potenziato per contrastare la povertà. Condivido tali politiche che tuttavia sono ortogonali a quelle della Lega e quindi manca una visione unitaria di politica economica.

Dove ci porta la mancanza di visione?

Si ritorna all’inizio. Le ricette neoliberiste non funzionano. Dovremmo mettere i pochi soldi che abbiamo nelle cose giuste: università e ricerca, in primis, ed investimenti pubblici che hanno un moltiplicatore fiscale più elevato. Inoltre, serve una politica industriale di sviluppo, dopo che per diversi decenni si è parlato solo di privatizzazioni. Bisognerebbe identificare missioni chiave per la politica industriale, per esempio nel campo del cambiamento climatico: lo Stato dovrebbe essere innovatore, come scrive Mariana Mazzucato, e mettere in campo risorse perché il Pil cresca a zero emissioni. Sarebbe una politica vincente perché capace di portare nuove innovazioni, nuove imprese e più lavoro: le ricerche indicano che i settori green creano più lavoro che altri settori. E si potrebbe avere diverse sotto-missioni, per esempio una potrebbe essere legata alla riduzione del rischio idrogeologico: quello italiano è il più alto d’Europa, e il riscaldamento climatico non farà che aumentare la necessità di interventi. L’Italia dovrebbe cercare di perseguire una crescita sostenibile e inclusiva, cioè che riduca le disuguaglianze. Da questo punto di vista, il decreto dignità e il reddito di cittadinanza sono interventi corretti. Manca il salario minimo: dobbiamo averne almeno uno italiano, in attesa di quello europeo. È fondamentale per categorie di lavoratori come i rider, ma anche per evitare che sindacati farlocchi, diversi dai tre federali, firmino contratti con le aziende in nome dei lavoratori. Ci sono diverse proposte in Parlamento: spero che si arrivi presto ad un accordo di concerto con i sindacati.

Le ricette sono chiare, ma la domanda resta: possiamo farlo in concreto?

Bisogna fare un bagno di realtà e di coscienza, e dirci che i problemi dell’Italia non arrivano solo dall’Europa, che non possiamo uscire dall’euro e che la nostra strategia dovrebbe essere basata su due linee: ridurre gradualmente anno dopo anno il rapporto debito pubblico/Pil, senza cure da cavallo che ammazzano l’economia ma con avanzi primari ragionevoli; e un atteggiamento cooperativo con la Commissione, per sedersi ai vari tavoli con proposte concrete di riforma che farebbero bene non solo all’Italia ma a tutti. Certo, perché succeda bisognerebbe avere persone preparate e più presenti a Bruxelles, ma spesso i nostri parlamentari europei e ministri preferiscono disertare vertici e sedute per fare sparate dall’Italia.

Ammettiamo che si sposi una ricetta diversa come quella di cui parla lei, quanto ci vorrebbe per vedere cambiamenti?

È un processo che deve durare anni, ed è difficile perché i cicli politici non amano il lungo periodo ma vivono sull’immediato. L’oscena quota 100 è un caso emblematico. Bisognerebbe trovare un accordo in parlamento su cose di lungo periodo e importanti, per esempio il salario minimo.

Quanto all’euro, spero non sia necessario arrivare a una vera e propria crisi per riformarlo.

Riformarlo come?

Come dicevo, serve una politica fiscale comune. Servono strumenti controciclici di breve periodo, che entrano in gioco cioè quando le economie sono in recessione: la cosa più facile sarebbe un sussidio di disoccupazione europeo. Oltre a investimenti europei, con un potenziamento del piano Juncker, con missioni mirate (per esempio il cambiamento climatico), e un bilancio sempre più grande gestito da un ministro delle finanze UE.

Il bilancio Ue rinforzato non pare in linea con l’attuale governo, ma nemmeno con le posizioni tedesche…

Con Marcello Minenna, Giovanni Dosio, Roberto Viola abbiamo fatto una proposta per arrivare in una ventina di anni ad aver un unico debito pubblico europeo: non condividendo il debito italiano con quello degli altri Paesi europei, uno scenario che non piacerebbe ai contribuenti tedeschi e del Nord Europa, ma condividendo il rischio, dietro pagamenti extra da parte dell’Italia. Insomma, una scelta improntata sulla correttezza che potrebbe portare ad una maggiore integrazione europea.

Ci tolga una curiosità, per concludere. Vista la piega che han preso le cose, e le sue proposte, dal Movimento la chiamano ancora?

Nel corso dell’anno ogni tanto ci siamo parlati. Ultimamente non ci sentiamo più, probabilmente sono molto impegnati.

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