Tutti a parlare di Elkann, nemmeno fosse lui #Proust

per Gian Franco Ferraris
Autore originale del testo: Alfredo Morganti
Tutti a parlare di Elkann, nemmeno fosse lui #Proust
Se avessimo impegnato e indirizzato meglio le energie intellettuali sprecate per commentare le sciocchezze scritte da Alain #Elkann sul suo giornale padronale, forse oggi l’Italia sarebbe diversa da com’è, forse oggi l’Italia sarebbe migliore, almeno intellettualmente (e non sarebbe poco). Quando siamo tutti così impegnati a parlare con caparbietà dei padroni o dei loro generi, mariti e figli, vuol dire che essi restano ancora il faro dei nostri occhi, perché noi siamo pressoché ciechi, quasi non vediamo più nemmeno noi stessi, e per questo non possiamo andare granché lontano. Anzi, siamo fermi, come un semaforo (spento). Ecco. L’ho detto.
-.-.-
FABIO FINOTTI

Estratto dell’articolo di Fabio Finotti* per “la Repubblica”

*L’autore è direttore dell’Istituto Italiano di Cultura di New York e professore emerito all’Università della Pennsylvania.

FABIO FINOTTI

Caro Direttore, ho letto su Repubblica il bel racconto di Alain Elkann sui “nuovi lanzichenecchi”. Poi ho visto le critiche, e mi sono sorpreso e rallegrato. Ma dunque la letteratura può ancora scandalizzare, muovere le coscienze, dare scandalo? […] Chi dice “io” in un racconto non è lo stesso che dice “io” nella realtà, lo sappiamo tutti.

Il protagonista del nostro racconto non è e non potrà mai essere il vero Alain Elkann. L’autore di un racconto si incarna nel personaggio che dice “io” ma ugualmente nei suoi antagonisti (qui i lanzichenecchi). Bakhtin la chiama polifonia. Fatta chiarezza (ma siamo all’ABC dell’analisi letteraria), vediamo come si presentano quei “lanzichenecchi” in difesa dei quali si sono alzate tante spade.

Se nessuno porta l’orologio non è perché siano dei poveracci, ma perché il loro tempo è ormai segnato dal telefono. Sembrano appagati di quel che sono, tanto da non vedere il mondo attorno che li circonda. Di fronte a loro c’è lo scrittore che li descrive. Il vero poveraccio sembra lui. Il suo vestito è «molto stazzonato di lino blu».

L’impressione è di disordine, sciatteria. C’è malinconia nel modo in cui lo scrittore si affida […] a vecchi materiali, usa non lo zaino ma una cartella «di cuoio marrone», e da lì tira fuori un armamentario di oggetti tutt’altro che virtuali: giornali, libri, un quaderno, una penna… a guardarlo con gli occhi dei giovani sembra un campionario da rigattiere.

Ma il punto è questo: i giovani non vedono. Non si rendono conto che tra quelle cianfrusaglie c’è qualche gemma, per esempio un Proust. Non sono i vecchi lanzichenecchi, sono quelli “giovani”. Non usano la lancia ma dissolvono egualmente tutto quello che sfiorano, perché non lo riconoscono, non lo guardano, non ammettono la sua esistenza. Il protagonista è uno di quegli scrittori crepuscolari […] Uomini che nascono e muoiono senza che il mondo si accorga di loro[…]

Ma i lanzichenecchi, questi giovani barbari che viaggiano in prima classe, meritano una difesa a spada tratta? Il vocabolario, l’ostentazione di potere, l’idea della donna davvero sono l’ideale che vogliamo difendere? Qui siamo di fronte a due mondi diversi, e chi ha deciso di schierarsi col secondo, quello più giovane, ha fatto una scelta tra due classi non sociali ma intellettuali.

La rivoluzione per i lanzichenecchi “esterni” al treno, che colpiscono lo scrittore dai social, è la cieca prepotenza del gruppo, mentre la cultura è un vezzo da snob. Lo scrittore esce dal treno silenzioso e non visto. Può considerarsi fortunato. La prossima volta il nuovo fascismo invece di ignorarlo potrebbe aggredirlo perché ha osato essere diverso dagli altri. Magari solo scrivendo con la stilografica un diario. Oppure creando un racconto. È meglio che non ci provi più.

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