Fonte: Rimini Sparita
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di Grazia Nardi – 29 luglio 2014
Anche allora, la spiaggia, anzi la “marina” era il microcosmo dove si sviluppano ed alimentavo le storie di un’umanità pronta a spiccare il salto verso il “progresso”.
Perché, fenomeno di costume, un pataca è sempre un pataca ma se lo dici in spiaggia diventa internazionale.
Già a parlare di costume viene in mente subito quello da bagno. E basti dire che negli anni 50 la parte sexy spettava all’uomo con gli slip copripube, scosciati, uniti sui fianchi da un cordellino distrattamente rallentato…le donne, col costume in pudica tinta unita, di lana! Poi sostituito da quello di filanca, con un doppio riporto che garantiva la totale copertura del ventre e della peluria più intima e selvaggia. Eh sì perché i peli, allora, sul petto degli uomini o altrove nelle donne, stimolavano i sensori della sensualità.
Erano anni, quelli 50, in cui si usciva dalla guerra e lo spirito di conservazione era più forte di quello critico e/o creativo. Difficile percepire come impresa qualcosa che avveniva sulla sabbia. Ricordo uno dei bar di Marina Centro, una struttura in legno che i titolari, desolati per i mancati guadagni, non riuscivano a rivendere. I turisti si avvicinavano per qualche aranciata, i bambini per un bicchiere d’acqua, il resto veniva da casa trasportato con borse cariche di frutta, panini, ciotole e “cartocci”.
Tra i clienti c’erano gli operai delle fabbriche dell’Emilia e del Nord che scendevano con le loro famiglie per quindici giorni, a volte un mese, grazie ai prezzi modici delle pensioncine posizionate nelle retrovie. Le mogli, dal biancore latteo preservato dalle nebbie padane, prendevano i bagni di mare convinte di poter curare, in virtù delle acque salsoiodiche, le “infiammazioni “ di vario genere. La tintarella, dopo la prima fase obbligata di spellacchiatura, esibita come prova dell’acquisita condizione “turistica”, si assestava sul rosato.
Le “bagnanti” mogli di operai o operaie esse stesse, vivevano il soggiorno come una sorta di “risanamento”. Costumi coperti da vestagliette di cotone fiorato, mantenevano l‘espressione e l’atteggiamento di chi temeva di disturbare, aspettando accanto l’ombrellone chiuso che il bagnino le vedesse. Finita la giornata, sistemavano accuratamente gli sdrai, attente a non lasciare tracce di sabbia sulla passerella.
Tantomeno i mariti riuscivano ad entrare nella veste del “cliente” preferendo, spesso, aiutare il bagnino nei lavori manuali.
A questi non interessava la “posizione” dell’ombrellone, anzi nelle ultime file si sentivano più a loro agio, meno ingombranti, meno osservati.
Diversamente dai riminesi che ambivano alla prima fila, conservata e tramandata di generazione in generazione fino ai giorni nostri. Come già detto, era uno status symbol che diversi hanno raggiunto, scalando dalla terza fila (dalla quarta la missione era impossibile), alla seconda per poi arrivare, nei rari casi in cui si materializzava la disponibilità, alla prima. So di utenti che hanno rivendicato la prima fila come fosse un diritto sindacale ostentando la lunga militanza maturata in seconda o in terza.
Quella più vicina al mare era la fila del gossip raffinato, dei costumi all’ultima moda indossati sotto il prendi sole, degli odori provenienti dalle prime creme solari di qualità, dell’abbronzatura marrone scuro, del linguaggio che, dal classico, andava assumendo i toni e i modi importati dai film americani o dalle prime commedie all’italiana della nostra cinematografia, dopo il periodo del neorealismo. Arrivava “l’aperitivo” mentre le “corna” escono dal tabù. E sì per le corna, la spiaggia era e resta la cornice più naturale, per viverle e, sicuramente, per parlarne…..