Autore originale del testo: Massimo D'Alema - trascrizione di Giovanna Ponti
Senza Gramsci il PCI non sarebbe mai stato quel Partito che ha segnato la storia d’Italia.
di Giovanna Ponti
Per chi non l’avesse visto, o desiderasse rileggere l’intervento di D’Alema, ne ho fatto una trasposizione. Ho tagliato alcuni pezzi, pochi, sulla sua storia familiare, ma credo di avere scritto tutto fedelmente.
Non avete idea di come mi piacerebbe stasera trovarmi con alcuni di voi per discutere un po’ di tutta la storia del PCI come ci viene tratteggiata da Massimo, ma soprattutto per ripensare al periodo Berlinguer e post-Berlinguer, quello che ho vissuto in prima persona. D’Alema fa delle osservazioni intelligenti, ma non su tutte mi trovo d’accordo, o forse solamente non le avevo capite mentre le vivevo.
Ecco, sono un po’ confusa.

LECTIO MAGISTRALIS
di Massimo D’Alema
sul centenario della nascita del Partito Comunista Italiano
21 gennaio 2021
“Il mio intervento non può essere una Lectio magistralis perché io sono troppo coinvolto in ciò che ora dirò. La mia vita è impregnata nella vicenda del PCI in modo preponderante e non posso avere il distacco che una Lectio magistralis richiede.
Non molti giorni fa Macaluso, al quale oggi abbiamo dato l’ultimo saluto, partecipò con noi a una conversazione sul PCI ed in quell’occasione disse una frase molto bella: “Il PCI mi è rimasto dentro il cuore perché ha segnato la mia vita” e questo vale anche per me.
In questi giorni si ricordano i 100 anni dalla nascita di quello che fu il progenitore del PCI che assunse quel nome solo nel 1943 per iniziativa di Togliatti.
Il Partito Comunista d’Italia, Sezione dell’Internazionale comunista nel nostro Paese, fu un partito che divenne parte della società italiana in modo profondo ed originale e questa fu la sua caratteristica più originale.
Questo spiega quello che sta accadendo nel centenario della sua costituzione con decine di pubblicazioni di libri ed articoli. E’ questa una partecipazione emotiva oltre che intellettuale di tantissime persone perché il PCI è stato parte della vita di milioni di italiani che viene ricordata da molti con rimpianto e nostalgia, e dagli avversari con rispetto. Credo che nessun partito comunista al mondo, nessun partito ormai scomparso da trenta anni, venga ricordato in questo modo.
Antonio Gramsci è tutt’ora uno degli intellettuali più studiati e tradotti al mondo ed Enrico Berlinguer è stato forse l’uomo politico più popolare del dopoguerra, una delle figure più significative della vita italiana degli ultimi 50 anni.
Grazie ai suoi dirigenti il PCI è una forza che gode di un grande prestigio internazionale. A Bagdad, al tempo occupata dagli americani, ho incontrato un Comandante dei partigiani curdi che mi ha raccontato che nella Scuola Quadri che i curdi avevano in Kurdistan, uno dei testi sui quali si studiava era “La carta per la pace e lo sviluppo” proposta dal PCI.
Il paradosso è che il PCI fu contrastato per i suoi legami con l’Unione Sovietica, ma ha avuto un’influenza internazionale per il contrario e cioè perché veniva considerato un esempio di comunismo diverso e indipendente dall’ortodossia sovietica.
Questo ci dimostra la complessità del comunismo italiano, se si vuole la sua duplicità, di essere allo stesso tempo parte del Comunismo Internazionale e una forza originale per lo sforzo compiuto nella sua elaborazione di conciliare l’ idea di comunismo con gli ideali della democrazia.
La scissione di Livorno non vide Gramsci protagonista, chi la guidò fu un ingegnere napoletano, Amedeo Bordiga, che poi è stato sostanzialmente dimenticato.
Gramsci nel 1923 scriveva a Togliatti che a Livorno si era sancita la separazione fra la maggioranza dei lavoratori italiani, che rimasero del Partito Socialista, e quei comunisti che si legavano alla Internazionale Comunista e definiva questa operazione un trionfo della reazione.
Nella tradizione comunista la nascita del PCI avvenne qualche anno dopo al Congresso di Lione che consacrò la funzione dirigente di ANTONIO GRAMSCI. In quel Congresso ci si liberava dell’estremismo, quello che Lenin aveva definito “malattia infantile del Comunismo” e si giungeva a una formulazione più matura che andava nel senso di una politica di alleanza fra operai e contadini, sempre in collegamento con l’Internazionale Comunista, ma di segno nuovo.
Il fondamento del Partito Comunista sono le opere di Gramsci. Questo illuminato pensatore eroico, chiuso nel carcere, seppe indicare una via del socialismo che non sarebbe stata quella dell’ottobre sovietico.
Gramsci individuò il ruolo nel partito degli intellettuali e il ruolo del Partito nella società moderna; elaborò il concetto di egemonia e cioè l’idea di una guida esercitata sulla base del consenso ovvero l’idea di una visione in grado di assorbire l’eredità del pensiero degli altri e di sintetizzarla in un pensiero superiore.
Questo principio ha ancora valore in questo momento.
Gramsci per una lunga fase fu isolato dal Partito. A partire dal 1926, poco prima di essere chiuso in carcere, in una lettera a Togliatti, Gramsci esprimeva il suo dissenso verso la politica russa all’albore dello stalinismo, politica che rischiava di distruggere il patrimonio della Rivoluzione di ottobre. Togliatti non considerò mai questa idea come vera e ciò fu il segno di una frattura che non fu mai colmata finché Gramsci restò in vita.
Quando nel 1929, con la grande crisi economica, l’Internazionale Comunista profetizzò il crollo del capitalismo e si lanciò in una offensiva che fu poi disastrosa, Gramsci si mosse in una direzione diversa e avviò quella sua analisi sulla trasformazione del capitalismo, l’americanismo e il fordismo, che è straordinariamente lungimirante, nella quale appare perfino il tema della globalizzazione e della contraddizione crescente tra “il cosmopolitismo dell’economia e il carattere strettamente nazionale della politica”.

Il dialogo fra Gramsci e Togliatti fu difficile perché i due avevano personalità molto diverse.
Quando Davide Lajolo gli chiese cosa sarebbe stato Gramsci nella Mosca staliniana, Togliatti rispose: “probabilmente si sarebbe fatto uccidere”.
PALMIRO TOGLIATTI era un politico realista e in alcuni momenti fu addirittura cinico. E’ stato un uomo che ha sacrificato al PCI l’intera sua biografia. Fu un grande politico e il fatto che in alcuni momenti si compromise con lo stalinismo non ne cancella la grandezza. Fu il segretario che riuscì a fare sopravvivere il PCI nella tempesta dello stalinismo e della guerra fredda.
Quando i tempi furono migliori, Togliatti attinse dalle idee di Gramsci per articolare il suo pensiero della prospettiva di una avanzata democratica del socialismo.
Certo ebbe la difficoltà di conciliare l’eresia del pensiero di Gramsci con il legame con l’Unione Sovietica.
I comunisti italiani hanno conosciuto prima il Gramsci di Togliatti e solo in seguito lessero e conobbero l’elaborazione gramsciana attraverso i suoi scritti, ma resta la realtà che Togliatti gradualmente attinse parecchia della sua azione politica per la difesa della democrazia proprio da Gramsci.
I comunisti furono un pilastro della Resistenza, fornirono al Tribunale Speciale l’80% degli imputati, la maggior parte dei partigiani che presero le armi erano comunisti. Non sarebbe stato pensabile senza il PCI che l’Italia trovasse il riscatto dalla vergogna dell’alleanza al nazismo, riscatto ottenuto con la lotta partigiana.
Il PCI nel dopoguerra svolse un ruolo straordinario: contribuì a creare le basi della nostra democrazia e rese partecipi dello Stato democratico grandi masse di lavoratori, di operai e di cittadini che avevano fino ad allora vissuto ai margini della storia nazionale.
La Democrazia Cristiana svolse lo stesso ruolo nel mondo cattolico.
PCI e DC si impegnarono in un’opera massiccia per convogliare il consenso di grande masse di cittadini verso lo Stato democratico.
Nel nostro campo il Partito coniugò la democrazia al lavoro. “Abbiamo insegnato ai braccianti che non ci si deve levare il cappello quando passa il padrone” disse Giuseppe Di Vittorio.
Questo ruolo di cofondatore della democrazia è il merito più straordinariamente incancellabile che ha avuto il PCI nella storia di Italia.
Il PCI ebbe la consapevolezza di essere parte della classe dirigente dello Stato. “Una forza di governo anche dall’opposizione” come seppe dire Togliatti con una geniale intuizione.

Una forza responsabilmente partecipe del destino del Paese, attenta all’interesse nazionale, certo in una contraddizione costante che fu il legame con l’Unione Sovietica. La collocazione internazionalista derivò anche dalla consapevolezza che occorreva conservare il legame del Partito con le masse popolari. Il mito della Rivoluzione di ottobre per lungo tempo ebbe una presa straordinaria su grandi masse di lavoratori ed era uno degli elementi che teneva unito questo Partito. Il problema del rapporto con l’Unione Sovietica convisse a lungo nel PCI creando momenti di criticità, ma anche elementi di ricchezza.
Nel mio rapporto con il PCI c’è un elemento di cesura: il ’68. Nell’anno accademico 1967/68 a Pisa mi iscrissi al PCI da un punto di vista critico e insofferente del movimento giovanile e carico di impazienza.
Il PCI fu il partito comunista europeo che seppe meglio raccogliere la sfida del ’68 e relazionarsi con i giovani. Non era un dialogo facile, ma il gruppo dirigente capì che il movimento del ’68 rompeva i rapporti statici e consentiva che il mondo degli intellettuali e parte della borghesia si spostassero a sinistra.
Longo prima e ENRICO BERLINGUER poi seppero dialogare con il movimento giovanile di quegli anni in cui si sviluppavano nuove relazioni umane, fra i sessi e nei luoghi di lavoro.
Il PCI riuscì a promuovere un incontro fra le avanguardie intellettuali e il mondo del lavoro. In quei pochi anni la trasformazione fu impressionante.
Quando mi iscrissi al PCI alla Normale c’erano tre iscritti: Fabio Mussi, io e il bibliotecario. Nel giro di pochi anni, nel 1972/73 la maggioranza degli studenti era iscritta al Partito.
Ebbe inizio nel Paese una grande spinta a sinistra e avvenne un cambiamento epocale. Alle elezioni amministrative del 1975 non solo il PCI superò la soglia del 30%, ma anche socialisti e socialdemocratici avanzarono: i tre partiti di sinistra raggiunsero il 51%.
Non è un caso che in quello stesso momento storico in Germania, altro Paese che aveva perso la guerra, vi fu il primo governo socialdemocratico dopo molti governi democristiani.
Il PCI fu la forza protagonista del processo italiano: la legge sul divorzio, sull’aborto, la chiusura dei manicomi, la riforma sanitaria furono un grande avanzamento dei diritti civili e sociali.
Nello stesso tempo però il PCI non era in grado di rappresentare ciò che la società italiana chiedeva, cioè una alternativa al governo del Paese.
Il limite fu la consapevolezza che un Partito Comunista non poteva proporsi come una forza di un sistema di governo fondato sull’alternanza, tipico delle democrazie occidentali. Fu allora che si incanalò la spinta di cambiamento dentro l’ala del compromesso storico che fu il punto più alto della strategia togliattiana dell’Unità Antifascista.
Il Paese che voleva cambiare si espresse anche nelle forme estreme di un ribellismo che, come disse Rossana Rossanda, “attingendo all’album di famiglia della sinistra”, giunse fino alla teorizzazione e legittimazione della violenza.
Dall’altra parte si sviluppò un’idea di violenza che si esprimeva nei gruppi più scuri del vecchio potere che volevano respingere la spinta del cambiamento: è il periodo delle Trame nere e di tutto ciò che hanno significato.
Il PCI di Berlinguer si trovò stretto fra queste due anime violente e scelse di fare una alleanza per difendere la democrazia. Questa scelta fu pagata un prezzo molto alto. I giovani di sinistra dal 1975/76 indirizzarono la loro lotta contro il PCI e il Sindacato e contro la politica di Unità nazionale aprendo una frontiera espostissima.
Nella primavera del 1977 vi fu un Comitato Centrale drammatico nel quale noi giovani sostenevamo la necessità di stare nel movimento dei giovani, mentre il gruppo dirigente del Partito ci invitava a difendere la democrazia, anche a costo di rompere con quel movimento o comunque indirizzandoci a fronteggiare senza esitazione le sue componenti più violente.
Con il rapimento e l’uccisione di Aldo Moro venne meno quel dialogo fra Moro e Berlinguer che aveva retto quella fase difficile e cominciò l’arretramento e la rinuncia della strategia del compromesso storico e dell’alleanza con i cattolici, alleanza che aveva costituito l’asse di tutta la politica comunista del dopoguerra.
Moro e Berlinguer interpretavano in modo diverso questo processo: per Moro era l’idea di un’alleanza con il Pci temporanea volta a legittimare, anche attraverso una sua trasformazione, il Partito Comunista e ad aprire una nuova fase della democrazia in Italia; per Berlinguer invece il compromesso storico doveva essere una alleanza di lungo periodo per una trasformazione profonda del Paese.
Io penso che la visione di Moro fosse assai più realistica rispetto a una democrazia dell’occidente. In Berlinguer c’era invece il sogno di una trasformazione più profonda che non toccasse solo le leve dell’amministrazione pubblica, ma agisse in profondità nella società e nei rapporti sociali.
Sta di fatto che questa vicenda si concluse con una sconfitta nella quale ebbe un peso la violenza, ma anche il fatto che il PCI si trovò al limite storico della sua esperienza, un limite oltre il quale un partito comunista legato all’Unione Sovietica non poteva spingersi.
Qui comincia la fase più drammatica della vicenda umana e politica di Berlinguer perché questo leader straordinario decise di guidare il suo esercito in ritirata e si pose il problema, in un momento di grande difficoltà, di ritrovare le ragioni profonde ed identitarie di questo grande partito, di questo popolo. Ma trovare le ragioni di unità di un partito comunista nell’epoca della conclusione della spinta propulsiva del comunismo reale non era facile.
Berlinguer si spinse verso nuovi orizzonti inserendo il suo partito nelle grandi contraddizioni del tempo, aprendo al tema del rapporto uomo-natura e quindi alla difesa dell’ambiente, cercando di interpretare la grande rivoluzione femminile come una delle leve di una moderna concezione rivoluzionaria, affrontando il tema della condizione umana di fronte alle nuove tecnologie.
Tutta questa ricerca rimane una delle ragioni del fascino di Enrico Berlinguer.
Nessuno potrebbe mai negare la fondatezza della questione morale, della degenerazione del sistema politico e tuttavia emerge un punto di debolezza perché, non essendo quel partito in grado di offrire una alternativa politica istituzionale a quella che era una crisi politica prima ancora che degenerazione morale, la lettura della crisi italiana contenne il rischio di sembrare una riflessione moralistica sulla diversità comunista. La critica moralistica al sistema dei partiti fu germe, non per volontà di Berlinguer perché questo accadde molto dopo la sua morte, di un sentimento antipolitico negativo.
In realtà la questione morale era politica, era l’incapacità del sistema politico di rispondere all’esigenza di uno sviluppo della democrazia e del ricambio della classe dirigente.
Dopo la morte di Berlinguer la storia del PCI è la storia di un declino, di un arretramento fino al momento in cui il coraggio di ACHILLE OCCHETTO segnò una cesura impressa da una svolta profonda, a mio giudizio necessaria, che aprì una storia nuova.
Io pensai allora che si dovesse cambiare e via via, nel corso degli anni, anche i dubbi che allora ebbi sul modo in cui la svolta si fece sono caduti.
Il resto non riguarda questa commemorazione del centenario del Pci ma vorrei fare alcune considerazioni sul dopo.
Quando il PCI, dopo Berlinguer, divenne altro, noi non riflettemmo a sufficienza su ciò che era vivo e ciò che invece doveva essere lasciato di quel Partito che volevamo modernizzare. Occorreva considerare che la politica è lotta organizzata, la più alta delle attività umane, è l’azione collettiva di donne e uomini uniti che hanno gli stessi valori, le stesse speranze. La politica nel Pci era stata studio, organizzazione, disciplina.
Io stesso quando ero segretario del Partito Democratico della Sinistra ebbi il desiderio di togliere quel “Partito” perchè mi sembrava superato, oppressivo, quindi proposi di cambiare nome e nacquero i DS.
Ma quella parola non era un peso, la società civile senza un partito ed una classe dirigente non riesce a svolgere un ruolo pedagogico, a costruire il consenso.
Questo patrimonio andava conservato e anche oggi andrebbe rifatto seppur in forme nuove e moderne.
Il Partito è anche disciplina.
Gramsci distingue tra le piccole ambizioni che sono individuali e particolari e le grandi ambizioni che invece si legano ad un progetto collettivo.
Oggi il Paese ha bisogno di forze organizzate in grado di interpretare il presente ed occorre mantenere un punto di vista critico del capitalismo.
Ci siamo illusi che all’interno del sistema si potessero ottenere miglioramenti sociali e ci siamo accorti che invece esso produce sempre più disuguaglianze insostenibili.
Quando si dice che Destra e Sinistra non esistono più si dice una sciocchezza: la Sinistra è la forza che si batte per l’uguaglianza.
Noi non abbiamo vigilato abbastanza sul mantenimento di una capacità critica, sull’esigenza di un sistema che voglia allargare il benessere delle persone.
Quando ad un incontro chiesi a Gorbaciov se si era pentito di avere decretato la fine dell’Unione Sovietica, lui mi rispose : “Proprio noi che siamo uomini di sinistra dovevamo abbattere quel sistema perché era un danno per le nostre speranze”.
Mentre Papa Giovanni Paolo II un giorno mi disse: “ Io ho sempre combattuto il Comunismo, ma ora che non c’è più chi difenderà i poveri?”.
Noi eravamo illuminati dall’idea di una società giusta e solidale. La politica ha senso se c’è un filo fra realtà ed utopia. Dobbiamo ricostruire questa tensione per una società più giusta, più umana, per uno sviluppo che consenta di superare le ingiustizie.
La sfida è questa: ricostruire un’ organizzazione entro la quale iscrivere la politica della sinistra.
E’ una sfida che riguarda i giovani. Noi possiamo consegnare la nostra esperienza, il patrimonio del passato”.