“In luogo pubblico” di Paolo Gera (Puntoacapo Editrice)

per Davide Morelli
Autore originale del testo: Davide morelli

Questo libro di Paolo Gera è la dimostrazione che si può fare dell’autentica poesia solo quando si utilizza come meccanismo di difesa la sublimazione della sofferenza e non come fanno in molti oggi la razionalizzazione dei propri disturbi psicologici o del proprio disagio esistenziale. Molti sono tutti tesi a scrivere delle loro paturnie e dei loro parossismi, mentre invece il Nostro descrive l’acme febbrile della nostra civiltà occidentale con le sue contraddizioni insanabili. Il suo sguardo è volto verso l’esterno e non è mai introspettivo. In Gera spicca prima di tutto una sensibilità morale e sociale. Con le sue prose poetiche, che non sono mai microstorie(non avendo struttura narrativa tradizionale), dimostra anche di avere il gusto del paradosso, senza mai forzare la mano e finire nell’artificio o nella retorica. Difficile dire se in futuro sarà antologizzato o meno nei manuali di letteratura: la periodizzazione del secondo novecento e dei primi anni duemila sarà un argomento quanto mai controverso per gli italianisti futuri. In questa sede non voglio fare una disamina del linguaggio poetico e neanche della sua cultura. Posso intuire al primo colpo d’occhio che ha appreso bene la lezione del Manganelli di “Centuria”, rimanendo però sempre ancorato alla realtà odierna, che metabolizza e  restituisce al lettore sotto forma di straniamento. Il suo sguardo straniante e le sue giustapposizioni(cioè le associazioni tra gli elementi più disparati del reale) indagano sul grottesco senza alcuna bonomia. Gli unici elementi residuali dell’io restano la visione del mondo e lo stile, ma l’autore non si perde mai nei rischi della neoavanguardia a mio avviso, ovvero quello di fare un’epica del quotidiano oppure di perdersi nella pura oggettualità. La bontà di questa raccolta è dovuta al fatto che l’ autore non ha la pretesa di compiere alcun  itinerario della mente né di fare delle pretestuose astrazioni. Non cerca il gioco combinatorio né si volge agli infiniti possibili; piuttosto vuole immortalare l’hic et il nunc, il mondo come è adesso. Le sue amare verità vengono sempre disvelate dalle sue invenzioni. Come sottolineato da Mauro Macario nella Prefazione descrive “le moltitudini” della società odierna. Lo fa senza soffermarsi sulle analisi sociologiche. Poco importa sapere se siamo tutti piccolo borghesi perché come pensava Pasolini la classe operaia si è imborghesita oppure perché come pensa Walter Siti si è proletarizzata la borghesia. La poesia vera ha il dono di sondare la realtà, mentre invece un documento sociologico o una indagine ISTAT ci offrono solo una analisi o dei freddi dati. Gera è alieno da qualsiasi intellettualismo. La sua non è neanche una lingua “cannibale”. Non fa un discorso di natura prettamente generazionale, non privilegia “la sfera del mentale”, non si pone in modo antiautoriale come invece fanno i cannibali secondo il critico Tommaso Pomilio. Eppure senza strizzare l’occhio alle mode letterarie riesce a contaminare i generi e a mischiare i codici. Bisogna avere talento, vocazione e aver sperimentato molto letterariamente per riuscire a rendere senza alcuna indulgenza un  quadro della situazione così raggelante e sconcertante. Questa opera a tratti è cruda. D’altronde è doveroso scrivere sporcandosi un poco le mani per immergersi nel reale. Un artista non può evitare le brutture del mondo. Deve lordarsi di fango, di sangue e di merda. Deve essere sempre testimone ma mai discepolo del suo tempo.  Questo libro è come collirio per gli occhi dei lettori: offusca momentaneamente la visione per poi renderla più nitida. Cito testualmente alcune sue righe: “La scena è un condominio di un caseggiato in centro città. Ci si saluta veloci e non una parola oltre. Se qualche volta ci si parla sono commenti sul tempo, suddivisione di compiti per la raccolta differenziata, commenti sulla pulizia delle scale. L’uno non conosce dell’altro che la soglia. Gli zerbini a forma di gatto sono frontiere, la cornice delle porte d’ingresso metal detector. C’è l’aria tranquilla che precede il complotto”. In poche frasi e in estrema sintesi, senza  decostruzioni e senza leziosismi, viene descritta quella che gli scienziati sociali definiscono società senza più comunità. L’umanità è provata e deumanizzata. Siamo in un vicolo cieco. Il mondo è un gigantesco uroboro. Gera con dovizia di particolari ci ricorda che siamo in quella che Ferlinghetti chiamava l’Epoca dell’Autoapocalisse. Molto probabilmente il nostro autore la pensa allo stesso modo del saggista e scrittore Franco Del Moro, ovvero che la fine avverrà non per una catastrofe ma “ci sarà una lenta e progressiva implosione della civiltà in nome del progresso”. In questa sede comunque non ci importa della rielaborazione ideologica o politica del Nostro. Gera è estremo perché rivela la terribilità del mondo ed allo stesso tempo è anche enigmatico. Purtroppo però a questo mondo agli “interrogativi ultimi” di Popper si può solo rispondere con altrettante domande allo stato attuale delle conoscenze. La definizione più calzante di straniamento a mio modesto avviso è quella di Carlo Ginzburg, ovvero di “un espediente letterario volto a combattere l’automatismo delle percezioni e degli atteggiamenti”. L’autore finisce quindi per spiazzare, facendo vedere il mondo da angolature e prospettive nuove. Gera talvolta fa anche dell’ironica metapoesia, mettendo alla berlina la vanità e la smania di grandezza di molti verificatori attuali. Da una parte però Gera certifica che “ci sentiamo smarriti perché la gloria è morta”, mentre dall’altra scrive che le poesie sono “l’unico rimedio contro l’obsolescenza”: croce e delizia della comunità letteraria. Ad ogni modo molti magnificano il nulla oggi. L’autore con questa opera forse vuole esorcizzare il vuoto della società attuale, ma non cerca mai la quadratura del cerchio. Molti guardano al loro ombelico. Gera assolutamente no. Molti creano planisferi con le loro opere, ma nessuna superficie bidimensionale renderà mai fedelmente una realtà tridimensionale. Questo libro invece ha il pregio di essere un mappamondo e di essere perciò più vicino al vero. In definitiva Gera non tratta di salvezza ultraterrena o di aldilà ma rappresenta mirabilmente i nostri inferni reali. Ci indica i problemi del mondo e della vita(certo restano le sue impronte, ovvero la sua chiave interpretativa), ma lascia tirare le somme ad altri. Ha il buongusto, la discrezione e il buonsenso di lasciare ai lettori il giudizio e le soluzioni. Come scrive Vittorio Sgarbi “si impara soltanto da chi non vuole insegnarci niente”. Anche per questa ragione questo è un libro di qualità che si legge tutto di un fiato. Dopo averlo letto sorge spontaneo il dubbio che l’essenza della vita consista nella sua assurdità. Per Caproni si ha poesia quando lo scavo individuale trova l’universale. Questo libro perciò è poesia. Quindi è assolutamente consigliato. Questo è quanto.

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