Il rischio della tempesta perfetta sull’Euro

per Gian Franco Ferraris
Autore originale del testo: Marcello Minenna
Fonte: Fondazione Lelio e Lisli Basso Issoco

di Marcello Minenna – 14 marzo 2017

È POSSIBILE UNA RIFORMA RADICALE DELLA GOVERNANCE FISCALE EUROPEA?

Questa è una iniziativa che reputo molto importante perché consente di affrontare dei temi con onestà intellettuale (che non è un dettaglio di questi tempi) e portando purtroppo a nudo dei problemi rilevantissimi che ci sono all’interno di questa nostra area valutaria non ottimale. Noi italiani conosciamo le aree valutarie non ottimali; per più di un secolo abbiamo infatti avuto la lira. E abbiamo anche saputo gestire la sua non ottimalità con interventi vari dai trasferimenti ad utilizzi straordinari della politica fiscale. Insomma siamo intervenuti per gestire il problema e risolvere le disfunzioni che altrimenti avrebbero fatto della lira uno strumento inconsapevole di aggravamento della questione meridionale. All’inizio del nuovo millennio siamo volontariamente usciti dalla lira dopo più di un decennio di sperimentazione, non sempre di successo, di bande di oscillazione dei cambi più o meno ampie. Come dicevo anche l’euro è un’area valutaria non ottimale ma che presenta oramai delle disfunzioni per le quali non vedo tentativi di risoluzione da parte dell’Euroburocrazia. Una valuta che ha diversi costi del denaro non è una valuta realmente condivisa; e lo spread che certifica questa criticità viene erroneamente trattato nel documento dei 5 Presidenti delle Istituzioni europee come una fisiologia mentre dovrebbe essere percepito e gestito come una patologia.

È infatti di tutta evidenza che questa discriminazione nel costo del denaro altera la competitività nell’Eurozona dato che le imprese devono finanziare la loro produzione manifatturiera sostenendo oneri molto differenti. A questo si aggiunge il problema, forse il più rilevante, della condivisione dei rischi che, ancorché tracciata nei principi fondanti dei Trattati, nei provvedimenti attuativi non esiste. È disarmante come l’Accademia e l’Euroburocrazia abbiano accettato di cambiare il centro della discussione dal risk sharing alla risk segregation. Nel 2011 questa transizione era iniziata da poco, e infatti in parallelo si dibatteva ancora anche di possibili iniziative basate sulla condivisione dei rischi, come gli Eurobond: oggi invece l’unico problema è come garantire che gli Stati membri rispettino il Fiscal Compact e come sia opportuno, a tal fine, realizzare una ristrutturazione dei debiti pubblici in varie forme. Siamo molto lontani da interventi innovativi originali, come quelli del Presidente della FED Bernanke negli Stati Uniti d’America che, ad agosto 2012, dopo una serie di manovre strutturali di politica monetaria unite a una politica fiscale espansiva dichiarava: ho trasformato la Federal Reserve in una bad bank, ed è un nuovo corso di politica monetaria. L’Eurozona è invece bloccata; basta vedere la dimensione asfittica del bilancio della nostra Banca Centrale Europea se confrontato con quello di altre Banche Centrali. Mancano quegli interventi straordinari che servono a stabilizzare l’economia, ad operare in maniera anticiclica quando serve ed a riavviare la convergenza tra i Paesi membri. Il Fiscal Compact ha un’algebra scientificamente non supportata ed è criticabile perché se le cose vanno male, le fa andare peggio. È un accordo pro-ciclico e lo ha capito anche l’opinione pubblica quando arrivò la prima critica alla nostra legge di bilancio nell’ottobre del 2014 con la lettera riservata del Commissario Europeo Katainen.

Il governo Renzi la pubblicò sul sito del ministero dell’Economia rendendo così noto agli italiani che l’Europa ci chiedeva di correggere il tiro per qualche miliardo. Ma la cosa più rilevante di quella lettera è che si spiegava all’opinione pubblica che non era tanto la regola deficit/pil al 3% la più rilevante perché c’era una regola ancora più stringente e cioè quella del deficit strutturale e dell’obiettivo di medio termine. Per come funziona il Fiscal Compact, infatti, questa regola ulteriore presenta un’algebra tale da ridurre i margini di manovra rispetto al deficit nominale invece di aumentarli per tenere conto del ciclo economico avverso. Il che è una contraddizione nei termini se si vuole realmente realizzare l’obiettivo presente nei Trattati di una politica fiscale anticiclica. Da quel momento le lettere non si sono più contate. Tra le tante vale la pena di ricordare quella arrivata il 5 dicembre 2016, proprio immediatamente dopo il referendum costituzionale. Una lettera in cui si parlava del bilancio dei vari Paesi membri ma a ben vedere il malato principale era l’Italia alla quale si chiedevano windfall measures per recuperare oltre 15 miliardi di euro e si ipotizzava anche una tassa patrimoniale. Una nota di colore è che ora i miliardi che mancano sono più di 20 dato che nell’ultima lettera si chiede un aumento dell’avanzo primario dall’1,5% al 3,2% nel 2018. Come si recupereranno questi denari? L’aumento dell’IVA è forse dietro l’angolo? Mi permetto sommessamente di ricordare che in 43 anni abbiamo avuto 7 aumenti dell’IVA, e non hanno mai fatto bene al nostro paese: nel 1982 tutti ricordano l’aumento di tre punti dell’aliquota di questa imposta; qui se ne ipotizzano due nei prossimi due anni. Qualcuno potrebbe dire che si troverà un modo per evitarli. Ma in realtà l’algebra delle regole con cui ci confrontiamo non fa sconti. Se osservate il bilancio anno dopo anno da quando il Fiscal Compact è in vigore noterete come le clausole di salvaguardia occupino sempre più spazio. Oggi due terzi della nostra capacità di spesa è impegnato dalle promesse di quello che faremo in futuro. In altre parole il rispetto delle regole ipoteca, anno dopo anno, i nostri margini di manovra. Attenzione però: nel biennio 2018-2019 ci sarà il redde rationem.

È per questo che bisogna intervenire prima e la discussione sul recepimento del Fiscal Compact nei Trattati che è prevista entro quest’anno sarà il momento clou. In questa prospettiva, già ora ci sarebbero le condizioni per resistere alle richieste dell’Euroburocrazia. Le richieste di correzione sono infatti basate su una variabile, l’output gap, la cui stima non è solo controversa ma presenta anche un errore statistico che contiene largamente l’entità della correzione. Consentitemi di fare l’analista quantitativo: in casi come questo si soprassiede e non si va avanti come dei panzer nel chiedere inesorabilmente correzioni e interventi strutturali. Questa in estrema sintesi la politica fiscale dell’Eurozona; trattiamo ora la politica monetaria. Molti commentatori scrivono che la politica monetaria ha fatto “tutto quello che poteva fare” e che ha esaurito i suoi effetti. Mi dispiace ma questo non è vero. Gli interventi compiuti non sono stati infatti strutturati nel rispetto del principio del risksharing ma al contrario sono stati realizzati nell’ottica della segregazione dei rischi all’interno dei singoli Stati membri. Questa impostazione, se da un lato riduce i danni collaterali per un progetto di Europa a più velocità dall’altro, supporta pericolosi e disgreganti, per la valuta unica, processi di nazionalizzazione dei rischi. Li ricordo di seguito. Il Securities Market Programme. Siamo all’apice della crisi, nel 2011, e la Banca Centrale Europea attraverso questo programma, già in vigore, inizia a comprare titoli di Stato degli Stati membri della periferia in difficoltà, Italia e Spagna in primis. Si parlava di Paesi in difficoltà nell’opinione pubblica ma non si affrontavano le determinanti delle difficoltà. Alcuni tra gli episodi più significativi sono stati l’incontro di Deauville tra Sarkozy e la Merkel nell’autunno del 2010 che aveva de facto “fisiologizzato” lo spread e dato il via alla gestione nazionale e non europea dei rischi dei debiti pubblici e le dichiarazioni della cancelliera Merkel all’indomani del salvataggio della banca IKB – fallita in seguito alla crisi subprime proveniente dagli USA – che stabilivano nuovamente la gestione nazionale e non europea dei rischi dei debiti privati. In estrema sintesi si dava il via al processo di nazionalizzazione dei rischi nei vari Stati membri. Ognuno per sé, anche se così facendo l’Euro non sarà per tutti, volendo proseguire la parafrasi del noto proverbio. Tornando al Securities Market Programme esaminiamone le caratteristiche.

Il punto chiave è che i Paesi membri non ricevevano sconti sugli interessi pagati. In altri termini la BCE incassava i rendimenti di mercato sui titoli acquistati. Vengo subito alle cifre, la Banca Centrale Europea ha incassato oltre dieci miliardi di interessi dalla periferia. Poi secondo le regole dell’Eurosistema, questi miliardi sono stati distribuiti secondo la capital key nei bilanci delle banche centrali nazionali. Quindi la Bundesbank, avendo la quota maggiore nella BCE, ha preso una quota di oltre 2 miliardi di euro. Siamo arrivati ai trasferimenti al contrario: la periferia, in difficoltà, che fornisce denaro ai paesi core che non sono in difficoltà e che anzi stanno beneficiando dalle incompiutezze architetturali dell’Eurozona. Consentitemi un paragone con la Federal Reserve statunitense; quando la FED ha avviato i suoi programmi di acquisto di Treasuries per contrastare la crisi – per una serie di meccanismi che ora per motivi di tempo devo tralasciare – l’operatività relativamente agli interessi è stata realizzata con una partita di giro in modo da neutralizzare guadagni e perdite tra banca centrale e Governo. Se si è nella stessa barca si rema infatti nella stessa direzione. Nell’Eurozona le cose purtroppo non stanno così. Abbiamo addirittura Banche centrali con statuti diversi per cui ci sono Stati come la Germania per cui i guadagni della Bundesbank sono nelle disponibilità del Governo e Stati come l’Italia dove la Banca centrale distribuisce il 70% dei suoi guadagni ai suoi soci privati. Comunque tralascerei questi dettagli e tornerei agli interventi straordinari della BCE. Dopo la crisi dei debiti sovrani, la Banca Centrale della nostra Unione Monetaria si è trovata a dover affrontare la crisi dei sistemi bancari. La soluzione sono state le Long Term Refinancing Operation (LTRO), prestiti agevolati a 3 anni all’1%, che all’epoca erano tassi assolutamente bassi; noi avevamo lo spread tra il 5% e il 6% a seconda della struttura a termine delle scadenze. A cosa sono serviti gli LTRO? Se andiamo a vedere il saldo TARGET2, questi prestiti sono serviti fondamentalmente per due motivi: uno, per consentire alle banche della periferia di pagare i loro debiti verso le banche dei Paesi core, segnatamente la Germania; due per consentire sempre alle banche della periferia di comprare i titoli di Stato – del loro Paese di residenza – che le banche dei Paesi core “scaricavano” sul mercato. Si nazionalizzavamo quindi i rischi dei debiti pubblici e si europeizzavano – sul sistema Target 2 – i rischi delle banche tedesche che avevano erogato credito nei confronti della periferia. Se esaminiamo questo intervento alla luce della bilancia commerciale tedesca che all’epoca consolidava un surplus realizzato fondamentalmente nell’ambito dei confini dell’Eurozona ci accorgiamo come gli LTRO abbiano consentito la conclusione di un ciclo di vendor financing. Le banche tedesche avevano finanziato la periferia dell’Europa affinché comprasse la manifattura prodotta in Germania. Nel momento in cui questi crediti avevano raggiunto una quota di 700 miliardi di euro, considerata oramai troppo rischiosa data l’evoluzione e la difficoltà del contesto economico-finanziario europeo, le banche dovevano “rientrare” da questo rischio di credito. In termini più espliciti non si sapeva che fine avrebbe fatto l’Eurozona e quindi servivano dei prestiti, gli LTRO appunto, per consentire di ridimensionare l’esposizione delle banche teutoniche verso i Paesi periferici. Come vedete anche in questo provvedimento il risksharing è assente. Poi a fine 2012 è stato stipulato l’accordo dello European Stability Mechanism. Nell’ambito di queste accordo sono state fatte diverse cose.

Ai fini della disquisizione di oggi ciò che è di interesse sono le Collective Action Clauses (CAC): le nuove clausole di azione collettiva che accompagneranno l’emissione di titoli di Stato con durata superiore a un anno a partire da gennaio 2013. Molte sono le possibili letture di queste clausole; purtroppo il diritto consente interpretazioni non essendo algebrico. Io personalmente esamino il lato complementare della disciplina e quindi noto come de facto i titolari di un titolo di Stato, con una quota del 25% più uno, possano bloccare il processo di ridenominazione di quel titolo di Stato in una valuta differente dall’euro. In altri termini, le CAC avviano un processo che limita il diritto di uno Stato membro di applicare la Lex Monetae al proprio debito pubblico spingendo verso la risk segregation nei vari Stati membri. Il debito pubblico diventa infatti di due tipi. Un debito pubblico certamente ridenominabile in una nuova valuta, ed un debito pubblico che rischia di non poter essere ridenominato. Non a caso il provvedimento successivo, ancora una volta non risk-sharing, cioè il Quantitative Easing, si ricorda di questa clausola. E infatti le banche centrali nazionali dell’Eurosistema (salvo poi una modifica che verrà fatta più tardi ad hoc per la Germania) non potranno comprare più del 25% di ciascuna emissione di titoli di Stato dell’Eurozona. A confermare questa criticità interviene poi nel secondo semestre 2014 l’International Swaps and Derivatives Association (ISDA) che stabilisce dei nuovi standard per i Credit Default Swap, cioè i derivati di credito che assicurano dal default degli Stati. In questi nuovi standard viene prevista espressamente la copertura dal rischio di ridenominazione del debito pubblico. Quindi da quel momento sul mercato si quotano due Credit Default Swap, quelli redatti nel rispetto dello standard internazionale del 2003 (cioè l’ISDA 2003) e quelli secondo il nuovo standard, c.d. ISDA 2014.

Ora, è evidente che se i mercati hanno l’esigenza di creare uno strumento finanziario di copertura dei rischi che vada ad affrontare un tema specifico, è chiaro che quel tema è sul tappeto. Trattiamo ora l’ultimo intervento straordinario il Quantitative Easing. L’architettura è veramente originale. Levata una quota risibile, non è la Banca Centrale Europea a comprare i titoli di Stato, ma le banche centrali nazionali con denari prestati dalla dalla BCE. Insomma, è l’antitesi del risk sharing. Si sublima la nazionalizzazione dei rischi dei debiti pubblici che dopo aver riempito i bilanci delle banche ora vengono “stoccati” in grande quantità negli attivi delle banche centrali nazionali. Consentitemi una rappresentazione da ingegnere finanziario. Se si esaminano i flussi, il QE è un derivato di credito. La Banca d’Italia sta vendendo un CDS alla Banca Centrale Europea. Provo a semplificare, dati i tempi: se le cose dovessero andare male la Banca d’Italia rimane indebitata con la BCE in euro, mentre il debito pubblico viene ridenominato in nuove lire che – complice la possibile svalutazione – perderà sensibilmente di valore. Questa mia rappresentazione finanziaria pubblicata sulla rivista internazionale RISK fu dibattuta. La conferma del mio lavoro è comunque arrivata inconsapevolmente qualche settimana fa allorquando il presidente della BCE ha dichiarato che, laddove uno Stato membro dovesse uscire dall’Eurozona, dovrebbe prima regolare integralmente il proprio saldo TARGET2. Ebbene, per noi questo saldo è una passività di oltre 350 miliardi di euro, e per due terzi è determinato dai flussi del QE, cioè dagli acquisti di BTP fatti dalla Banca d’Italia.

Il Quantitative Easing sicuramente non è stato perciò uno strumento di politica monetaria funzionale a condividere i rischi. Rispettando quindi una percorso a tappe forzate a trazione tedesca, dopo aver consolidato un percorso di segregazione dei rischi, sentiamo in piena campagna elettorale la Cancelliera Merkel aprire all’Europa a più velocità. Non solo. In quei giorni, uno dei suoi consiglieri economici, Lars Feld, ha dichiarato che le CAC dei titoli di Stato dovrebbero essere sostituite con una nuova clausola, che si chiama Credit Participation Clause (CPC). Sapete qual è la differenza fra le CPC e le CAC? Che le CPC escludono esplicitamente il rischio di ridenominazione del debito pubblico. In altri termini non si intende correre neanche il rischio che gli investitori si debbano mettere d’accordo raggiungendo la quota del 25% più uno per bloccare un processo di ridenominazione. Quel debito pubblico non deve essere ridenominabile; punto e basta. Dopo di che assistiamo a lavori di autorevoli ricercatori, anche di istituzioni come il Fondo Monetario Internazionale, che fanno esercizi statistici sulle ristrutturazioni dei debiti pubblici nazionali attraverso il reprofiling dove guarda caso il case study è l’Italia. Il tempo scorre e nel mio caso finisce; mi riferisco alla relazione ovviamente. Sargent e Wallace dicevano che politica monetaria e politica fiscale devono essere coordinate per raggiungere il migliore effetto possibile. Entro il 2017 il Quantitative Easing andrà ad esaurirsi. Quindi l’effetto positivo su tasso di interesse e cambio che abbiamo avuto, per forza di cose, riceverà un ridimensionamento. Dall’altro lato il Fiscal Compact rischia di essere prorogato così com’è. Credo che se i due economisti intendessero commentare questa situazione direbbero che stiamo entrando nella tempesta perfetta.

L’Italia rischia cioè di entrare in una situazione estremamente difficile, perché politica fiscale e politica monetaria, entrambe male impostate, remeranno contro la nostra economia. Qualche minuto fa l’ANSA ha diramato i dati sulla produzione industriale italiana (-2,3%), mentre l’Eurozona sfiora il +1%. Peraltro, la media dell’Eurozona include l’Italia o meglio sarebbe dire è ribassato dall’Italia; il che significa che i nostri compagni di valuta vanno assai meglio di noi. Cosa fare quindi? Sul fronte della politica fiscale è stato già detto. Ci vuole una golden rule sul Fiscal Compact che tiri fuori gli investimenti con moltiplicatore maggiore di uno dall’algebra disgregatrice del Fiscal Compact. Nulla quaestio su questo punto. Ma per avere una politica monetaria sincrona in grado di seguire l’intuizione di Sargent e Wallace che cosa si potrebbe fare? Si dovrebbe intervenire sulle modalità di “chiusura” del Quantitative Easing. Il Quantitative Easing va concluso con un nuovo tipo di tapering che porti i titoli di Stato comprati dalle banche centrali nazionali nel bilancio della BCE e li tenga lì per un po’, per poi vedere cosa farne. I prestiti delle Banche Centrali Nazionali verrebbero così estinti, i bilanci dell’Eurosistema verrebbero “nettati” e il saldo Target2 si normalizzerebbe di conseguenza. Gradualmente questo nuovo ed originale “tapering” porterebbe un nuovo equilibrio risk shared nell’Eurosistema; questa soluzione darebbe un forte segnale ai mercati di volontà di sostenere l’euro come valuta unica, “whatever it takes”. E questo probabilmente spingerebbe gli investitori istituzionali a scommettere sulla convergenza verso un’unica curva dei tassi di interesse come fu al momento dell’avvio della nostra area valutaria. La Banca Centrale Europea comincerebbe a fare la banca centrale. Cosa che francamente è necessario fare dato che è l’unico strumento reale che abbiamo all’interno di questa unione così imperfetta; invece di continuare a far girare questa macchina con due ruote sgonfie, per usare un eufemismo.

Il 2017 può quindi essere l’anno di un nuovo corso di politica economica à la Sargent e Wallace in cui la politica fiscale vede la revisione del Fiscal Compact e quella monetaria un tapering originale del QE che ripristini il risk-sharing nell’Eurozona. L’alternativa è l’entrata in una tempesta perfetta che avvierà la disgregazione dell’euro.

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