SINISTRA: SERVE IL PARTITO DEMOCRATICO PER IL SOCIALISMO

per Riccardo Aprea
Autore originale del testo: Riccardo Aprea

Intervistato da Repubblica (V. edizione di lunedì 17/8/2020) sulle nuove sfide del capitalismo e sulla conseguente attualità a ome di Marx, alla domanda “Lei cosa propone, continua a definirsi anticapitalista?” Bertinotti risponde: “Se per superamento del capitalismo si intende una riedizione del socialismo novecentesco – l’idea di una rivoluzione provvista di un disegno sociale prestabilito e compiuto – credo che questa alternativa non sia proponibile. Quella del XX secolo è una storia finita, anche se ne sono figlio. E rivendico le grandi conquiste del movimento operaio, oggi travolte da un’insopportabile damnatio memoriae” E quando l’intervistatore gli chiede se propugna l’abolizione del capitalismo che é (così dice l’intervistatore) una soluzione bocciata dalla storia, afferma:”Io non so più se sono per il totale sovvertimento del sistema capitalistico. Sono, petrò, convinto che l’attuale assetto globale finanziario sia incompatibile con la democrazia….La pandemia ci sbattuto in faccia tutti i problemi collettivi e istituzionali e le ferite e sociali e ambientali prodotte da questo sistema”

Massimo D’ALema, nell’ultimo capitolo del suo recentissimo e interessante libro “Grande è la confusione sotto il cielo. Riflessioni sulla crisi dell’ordine mondiale” (Donzelli Editore) afferma che “a trent’anni dalla caduta del Muro di Berlino, dobbiamo invece, con maggiore realismo e minor fervore ideologico, misurarne le debolezze (del modello liberale fondato sull’economia di mercato e la liberaldemocrazia, che dopo la caduta del comunismo in Europa si riteneva sarebbe diventato universale e avrebbe dominato il mondo, nota mia riassuntiva del precedente logico), in particolare l’incapacità di garantire uno sviluppo equilibrato e non minato da laceranti diseguaglianze sociali e da un drammatico conflitto con l’esigenza di salvaguardare l’ambiente naturale. Certamente la globalizzazione ha portato ad una crescita impressionante della ricchezza. Ma questa ricchezza non si è distribuita in modo ragionevole e la diseguaglianza ha condotto con sé conflitti sociali, rancore e nuove instabilità”

Due leader espressioni di due diverse sinistre politiche, “radicale” il primo e “riformista” il secondo, che tuttavia mettono il dito sulla piaga: l’incompatibilità del sistema capitalistico, nella sua attuale versione finanziarizzata e globale, con un assetto sociale che, da un lato, non generi così profonde diseguaglianze sociali e non concentri in così poche mani il grosso della ricchezza prodotta, in tal modo minando alle radici l’assetto democratico, dall’altro non perseveri nella distruzione dell’ambiente naturale.

Ho posto tra virgolette gli aggettivi radicale e riformista perché, nella fase storica che stiamo vivendo, qualunque valutazione delle politiche avanzate da forze di sinistra per fronteggiare e superare le conseguenze, appena accennate, derivanti dal dominio del sistema capitalistico, non può assolutamente prescindere da una valutazione di merito. Metodo di valutazione, questo, naturalmente sempre valido, ma nell’attuale fase, in cui le distanze fra le due sinistre sembrano attutirsi, ancora più necessario.

Prima, però, di proseguire sul punto, mi preme riprendere un passaggio dell’intervista a Bertinotti, dove l’intervistatore giudica “…l’abolizione del capitalismo…..una soluzione bocciata dalla storia”.

Mi chiedo cosa possa mai significare l’espressione “bocciata dalla storia”

Il sistema capitalistico è la forma che ha assunto, a partire dalla rivoluzione industriale (diciamo, più o meno, a partire dalla seconda metà del 1700) l’assetto delle società da essa interessate, estendendosi, quindi, sempre più a tutte le aree del pianeta caratterizzate da questo tipo di sviluppo. Nel corso della sua affermazione come assetto sociale dominante ha subito degli arretramenti considerevoli dalle tre principali esperienze rivoluzionarie del ‘900 – la rivoluzione russa – la rivoluzione cinese – la rivoluzione cubana) e da alcune esperienze di governo di tipo socialista sorte all’interno di sistemi democratici e grazie alla democrazia: una fra tutte, l’esperienza di governo cilena di Unidad Popular, guidata dal presidente socialista Salvador Allende e della quale, proprio ieri è ricorso il quarantasettesimo anno della sua caduta in seguito al colpo di stato del generale Pinochet, burattino manovrato dal burattinaio governo degli Stati Uniti d’allora 

Se è vero che la rivoluzione russa è fallita perché non ha retto il tentativo di Gorbaciov di collocarla, gradualmente, all’interno di un alveo democratico, senza, tuttavia, rinunciare a conquiste sociali assolutamente fondamentali, e quindi che su di essa ha nettamente prevalso, per ora, il sistema capitalistico (dei più beceri, fra l’altro, caratterizzato dalla formazione di un’elite imprenditoriale super ricca e di amplissimi strati popolari in sofferenza sociale), ma non certo la tanto, giustamente, auspicata democrazia, piuttosto, invece, una autocrazia, o anche, come si dice ora, con neologismo di indubbia efficacia, una “democratura”, tale essendo il regime costruito da Putin; così non si può assolutamente dire per le altre tre esperienze. 

Da un lato, l’indubbia conversione della Cina, sotto la guida del  partito comunista cinese, verso un’economia di mercato di tipo capitalistico, non rende tale sistema immediatamente sovrapponibile al capitalismo occidentale di nostra conoscenza. 

Si tratta di un sistema in cui è fortemente presente l’elemento dell’interesse pubblico che, evidentemente, convive con il profitto privato, che pur tale sistema sta consentendo di accumulare creando un ceto di super ricchi. Tuttavia, non si possono assolutamente sminuire le notevoli conquiste sociali che il capitalismo di tipo cinese ha consentito di conseguire negli ultimi 15 anni lungo i quali una popolazione di ben 600 milioni di persone è stata sottratta alla povertà (V. https://www.china-files.com/in-cina-e-asia-70-milioni-di-poveri-in-meno-entro-il-2020/)

Restano,  naturalmente, i problemi dello scarso livello di democrazia e di diritti individuali, che naturalmente costituiscono il grande buco nero di quel sistema, ma certo il capitalismo di tipo occidentale, che, secondo la vulgata, avrebbe vinto la sfida della storia, non riesce, a sua volta, a risolvere l’altro altrettanto grande problema costituito dalla proliferazione di una ricchezza sempre più spinta concentrata in mani sempre minori, a fronte di una crescita delle diseguaglianze dovuta all’allargamento di fasce di popolazione sempre più interessate dalla precarizzazione del lavoro, se non proprio dalla disoccupazione e, pertanto, da una consistente riduzione del reddito disponibile. 

Dall’altro l’esperienza cilena rappresenta proprio il contrario della vittoria del capitalismo, nel senso che esso ha potuto far naufragare quella esperienza, che stava gradualmente introducendo elementi di socialismo nel sistema economico-sociale, solo grazie alla violenza, come ricordato, del colpo di stato voluto e sorretto dalla politica Nixon-Kissingeriana-degli Stati Uniti. 

Resta celebre la frase dell’ex segretario di Stato Henri Kissinger: “Non vedo perché dovremmo restare con le mani in mano a guardare mentre un Paese diventa comunista a causa dell’irresponsabilità del suo popolo. La questione è troppo importante perché gli elettori cileni possano essere lasciati a decidere da soli” (V. https://www.corriere.it/esteri/20_settembre_11/cile-l-altro-11-settembre-golpe-che-chiuse-l-esperimento-socialista-allende-722774b8-f408-11ea-8510-bc9735e39b6a.shtml)

E che dire, poi, dell’esperienza anticapitalistica, socialista, di Cuba che, nonostante il pluridecennale embargo degli Stati Uniti d’America e il venir meno dell’appoggio dell’Unione Sovietica, riesce ancora a non crollare, a resistere nel suo sistema economico-sociale non fondato sull’egoismo del profitto capitalistico e che, proprio per questo, ha conseguito risultati straordinari nel settore della sanità pubblica.

E che dire dell’Italia? Anche il nostro Paese è stato oggetto di un attacco furibondo, direi di un vero e proprio colpo  di stato volto ad impedire la partecipazione del Partito Comunista Italiano nel governo. Con l’inevitabile senno del poi, questo è stato il vero fine politico dell’attentato a Moro del 1978: le forze conservatrici, abbarbicate mani e piedi al sistema capitalistico, hanno approfittato dei “compagni che sbagliavano” per impedire che l’entrata del PCI nell’area di governo potesse comportare l’introduzione, nel sistema economico-sociale di quegli “elementi di socialismo” di cui parlava Enrico Berlinguer. 

Vincere con la violenza non equivale a vincere con il consenso popolare e, quindi, l’affermazione “…l’abolizione del capitalismo…..una soluzione bocciata dalla storia” mi sembra alquanto azzardata. 

Ciò chiarito, resta il problema per la sinistra del “Che fare” e, aggiungo, del “Come fare” per praticare una politica di trasformazione economico-sociale volta alla forte riduzione delle disuguaglianze sociali che, per essere chiari, significa una politica per, da un lato, ridurre ricchezze del tutto ingiustificate ed abnormi, dall’altro, tendere alla piena occupazione e all’incremento  di redditi oggi troppo bassi, oltre che, oggi, di trasformazione ecologica dell’economia per tutelare il Pianeta dai disastri di un riscaldamento climatico contro il quale gli interessi di forti potentati economici impediscono di conseguire risultati significativi.

Per quanto possa apparire banale sostenerlo, una tale politica, che dovrebbe essere propria di una forza di sinistra, non è un pranzo di gala! 

Si tratta, inevitabilmente, di scontentare talune forze sociali e di accontentare strati rilevanti della popolazione. 

Vorrei provare ad andare nel concreto, precisando che, a mio parere, obiettivi politici di tale portata possono realizzarsi solo se nel sistema economico-sociale vengono inseriti, al livello decisionale, interessi antagonisti rispetto a quelli “egoistici” coerenti con la ricerca del profitto capitalistico che, quindi, possano fare da contraltare all’altrimenti unico dominio di quest’ultimi. 

Serve uno sforzo di analisi di alto profilo, perché si tratta di affondare il bisturi nell’assetto profondo del  sistema, senza di che non si potrà riuscire a sciogliere quel nodo gordiano che chiamiamo “anticapitalismo” 

Innanzi tutto occorre promuovere una legislazione di sostegno volta a favorire l’acquisizione di aziende direttamente dalla forza lavoratrice tutta (operaia, impiegatizia e anche dirigenziale), attraverso la diffusione delle cooperative di produzione e lavoro. 

La proprietà dell’azienda, in tal caso, ricadrebbe non già su un singolo soggetto o su un  gruppo di privati, ma direttamente sui lavoratori. Si tratterebbe, quindi, di una proprietà naturalmente spinta, nell’adozione delle scelte aziendali a tutti i livelli, da quelle più squisitamente produttive a quelle di relazione con il territorio di riferimento, non già da un’angusta logica privatistica, ma da una più complessiva logica, coerente con una proprietà che potremmo definire espressione di un privato sociale. Senza dire, poi, che tale forma di proprietà aziendale elimina alla radice lo sfruttamento capitalistico principe nella contraddizione capitale-lavoro, che era stato individuato da Marx nell’appropriazione da parte del proprietario della fabbrica del plus-valore prodotto dal lavoro operaio. Nelle aziende di proprietà dei lavoratori, non sussistendo alcuna separazione fra proprietario e produttore, la contraddizione viene, logicamente, a cadere.

In Italia non si parte da zero su questo fronte. Sussistono circa trecento realtà produttive, cadute nella dinamica fallimentare, che sono state recuperate e risollevate con risultati incoraggianti, dai lavoratori, riunitisi sotto la forma cooperativa, che le hanno acquisite utilizzando il loro tfr. 

Non c’è dubbio che lo sviluppo di esperienze di proprietà collettiva di questo tipo, comporta la riduzione all’interno del mondo produttivo del potere della classica proprietà privata, del padronato nelle sue forme moderne, e l’introduzione nel sistema economico-sociale di un interesse qualitativamente diverso da quello della proprietà individuale, in quanto molto più disponibile a sostenere scelte economico-aziendali in sintonia sia con l’interesse dei lavoratori-proprietari, sia con interessi di tipo pubblico, nel senso di interessi che coinvolgono la collettività in generale o le tante collettività-comunità presenti nei territori di riferimento. 

Nell’ottica del bilanciamento dei poteri tra lavoratori/trici, cittadini/e e imprese, inoltre, di notevole interesse appare la proposta del Forum Diseguaglianze  e Diversità (V. https://www.forumdisuguaglianzediversita.org/consigli-di-lavoro-e-di-cittadinanza/) di dare vita, prima in modo sperimentale, poi in via legislativa, al Consiglio del Lavoro e della Cittadinanza, con l’obiettivo di “riunificare lavoro a tempo indeterminato e lavoro precario; far dialogare interessi del lavoro e del territorio (ambiente, servizi, consumo); costruire centri di competenza tecnica che innalzino il confronto con l’impresa 

Si tratta, quindi, anche qui, di individuare forme di inserimento nel sistema di interessi antagonistici rispetto a quelli della sola impresa nella sua forma proprietaria classica, suscitando, così, un confronto ed una dialettica che possano pervenire alla realizzazione di scelte che tengano conto sempre più dell’interesse pubblico delle comunità di riferimento. 

Inutile sottolineare che una intelaiatura istituzionale di questo tipo gioverebbe notevolmente alla concreta tutela dell’ambiente dei territori interessati, perché tale tutela è propria di una visione complessiva di tutti gli interessi in gioco e non solo di quelli meramente produttivistici della singola impresa, soprattutto quando la sua direzione ripropone la classica dialettica capitale/lavoro. 

Probabilmente un’impostazione di questo tipo trova ancora molte resistenze a livello sindacale nel timore che un tale sistema possa di fatto irretire la forza lavoro, il sindacato, in un governo fittizio dell’azienda e, quindi, risolversi in una sostanziale violazione della autonomia dei lavoratori. 

Si tratta di timori sicuramente da non sottovalutare, tuttavia si pone il problema, molto concreto, di introdurre nel governo delle aziende un punto di vista diverso da quello padronale, che possa far sentire tutto il suo peso nelle scelte aziendali e nel loro impatto, sia circa la vita concreta dei lavoratori in azienda, sia, circa le ricadute che dette scelte hanno, come detto prima, sull’interesse pubblico, sull’interesse della collettività in generale e delle tante collettività-comunità territorialmente diffuse. 

Tuttavia, come mi è già capitato di scrivere Non basta un governo dell’economia dall’alto, non basta la lotta sindacale per cercare di contrastare scelte aziendali, diciamo così, egoistiche, occorre una ramificazione dentro le aziende di interessi, di punti vista diversi (diciamo anche antagonisti) rispetto a quelli squisitamente proprietari.

Come si vede si pone, in modo ineludibile, in un’ottica anticapitalistica di sinistra e che non bisogna certo vergognarsi di definire di tipo socialista (aggettivo che nella sinistra italiana sembra scomparso), il tema della proprietà privata, il cosiddetto “terribile diritto”

Da ultimo, occorre ri-organizzare una presenza dei poteri pubblici nell’economia, una nuova IRI che sappia farsi carico della tutela di interessi strategici nazionali (dalla rete unica nel settore delle telecomunicazioni, alla gestione dell’acqua), accompagnare al risanamento aziende in settori produttivi fondamentali (acciaio – vedi Ilva – trasporto – vedi Alitalia), che costituisca il braccio armato di una programmazione economica e industriale che abbia nel governo la sua testa pensante.

Se il capitalismo non è, come ho cercato di dimostrare, l’unico, inesorabile, modo di organizzare l’assetto sociale delle comunità umane, se, come penso, si può non morire capitalisti, occorre allora chiamare con il suo nome la prospettiva alternativa: socialismo!

La sinistra deve rifuggire dall’idea di non offrire una prospettiva di organizzazione sociale, limitandosi a contrastare singolarmente scelte che non condivide; deve, per contro, assumersi la responsabilità di indicare una prospettiva, con tanto di “nome e cognome”

Una prospettiva valoriale di solidarietà e di inclusione e di cambiamento sociale profondo, di drastica riduzione delle disuguaglianze, di una coerente e continuativa politica di transizione ecologica dell’economia, non solo con l’obiettivo di contenere entro 1,5 gradi l’aumento della temperatura del Pianeta entro il 2050, ma con quello ben più sfidante e impegnativo di “Raffreddare il Pianeta”

Una politica di cambiamento che trova piena legittimazione nell’assetto democratico disegnato dalla nostra costituzione, che attraverso il metodo democratico può “progressivamente” conseguire quelle trasformazioni sociali su indicate

Io chiamo questa prospettiva “socialismo” e penso che le gambe su cui essa dovrebbe e potrebbe camminare, in questa fase storica, siano quelle del Partito Democratico per il Socialismo.

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