Quando il sindacato non è più agente di cambiamento

per Gian Franco Ferraris
Autore originale del testo: Umberto Romagnoli
Fonte: Inchiesta
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di Umberto Romagnoli – 3 agosto 2015

Diciamo la verità: senza l’anomalia chiamata Fiom, l’opinione pubblica avrebbe perso le tracce del sindacalismo italiano. In effetti, è soltanto da laggiù, in basso a sinistra, che arrivano segnali contrastanti col senso comune secondo il quale in tempi di crisi i diritti costituzionalmente garantiti, in primo luogo quelli sociali, sono un lusso.

In realtà, si tratta del precipitato di un retaggio culturale che viene da lontano. Non che delle tecno-strutture dirigenti di quello che la storiografia d’una volta chiamava movimento sindacale si possa congetturare ciò che si congettura del soldato spedito al fronte che non si sa se non ritorna perché è morto o perché è caduto nelle mani del nemico o perché  ha disertato. No; il fatto è che un sindacato che non contratta, sia pure al ribasso, che razza di sindacato sarebbe? Del resto, avendo dovuto fin dalle sue origini fare i conti con la naturale inclinazione della libertà dell’agire economico a tradursi brutalmente nella libertà di monetizzare tutto, per farsi tollerare e sopravvivere il sindacato ha imparato in fretta le virtù del pragmatismo senza il quale non sono possibili compromessi. Le ha interiorizzate e ne ha fatto un elemento costitutivo della propria identità. Non senza orgoglio. Un orgoglio tutto sommato malriposto, perché gli permette di spacciare per capacità di capire come comportarsi in presenza di una realistica necessità una genetica subalternità. Sua e del diritto del lavoro. Quest’ultimo, infatti, non è mai stato del lavoro se non nella misura compatibile con la sua matrice compromissoria e, dunque, al tempo stesso è sempre stato anche il diritto del capitale sul lavoro ed è soltanto per questo motivo che ha la qualità necessaria per assicurarsi apprezzabili livelli di effettività.

Insomma, la narrazione secondo la quale in epoca risalente al lavoro venne concesso di rompere un millenario silenzio – per affermare che non esiste soltanto come merce – a condizione di imporsi di metabolizzare il divieto di alzare troppo la voce continua ad influenzare la cultura sindacale contemporanea più di quanto non si è soliti supporre. Diversamente, si stenterebbe a comprendere perché la Fiom sia un’anomalia e perché l’insieme del movimento sindacale organizzato le sia ostile o, comunque, scarsamente solidale al punto di essere tentato di trattarla come un oggetto estraneo o persino una stravaganza. La verità è che la Fiom invoca il ritorno di un’etica pubblica capace di prendere sul serio i diritti; ne ribadisce l’irriducibilità alla logica del mercato e non esita a fare leva su di essi per riequilibrare rapporti di forza sfavorevoli. Pertanto, il suo ribellismo trasmette un messaggio del seguente tenore: l’età dei diritti non è tramontata solamente perché oggi si assiste al moltiplicarsi delle loro violazioni, perché quella dei diritti – come ci ricorda Stefano Rodotà – non è mai stata una vicenda pacificata. Piuttosto, bisogna intensificare la lotta per sanzionare gli illeciti con tutti i mezzi giuridici disponibili e rimuoverne gli effetti.

Il che è esattamente quel che ha fatto la Fiom, allorché ha chiesto ai giudici di essere riammessa nei luoghi di lavoro da cui era stata espulsa, ed è quel che si ostina a fare premendo per l’approvazione di una legge sulla rappresentanza sindacale animata dal proposito di colmare il deficit democratico della quarta Confederazione senza nome e senza bandiera cui si deve l’esangue corpus di approssimative regole e stanchi riti praticati nell’ultimo mezzo secolo. Alludo, ovviamente, al club dei sindacati maggiormente rappresentativi ed alla sua criptica ambiguità.

Ciascuno dei suoi membri disponeva di una quota di potere decisionale che si auto-legittimava e, in base ad un onirico statuto, era attribuito in eguale misura indipendentemente dalla effettiva rappresentatività, sicché il reciproco potere di veto che rendeva tutti ostaggi l’uno dell’altro era il prezzo pagato per stare insieme. Un prezzo, va ricordato, pagato volentieri per poter soddisfare una incontenibile voglia di autonomia nei confronti di uno Stato di cui si seguitava ad avere paura, perché il sospetto che il fascismo non ne fosse uscito del tutto non era destituito di fondamento. Non a caso, nei primi tempi incontrò una tenace resistenza la tesi che un sindacato a digiuno, come il nostro, di un’esperienza di autentica libertà meritasse la chance di svezzarsi dalla patria potestà del legislatore e di imparare a camminare senza stampelle legali pronte a convertirsi in controlli dall’alto e dall’esterno. Poi, la tesi sfondò, perché i vantaggi attesi in termini di irrobustimento della democrazia compensavano gli svantaggi della rinuncia presuntivamente temporanea al contratto collettivo nazionale cui lo Stato avrebbe dovuto riconoscere l’attitudine a produrre effetti generalmente vincolanti. Infatti, nel solco di una consolidata tradizione culturale non solo italiana, i padri costituenti pensavano che il contratto nazionale orfano dell’erga omnes fosse paragonabile ad un grande serbatoio idrico sprovvisto dell’impianto attrezzato per trasformare l’energia potenziale dell’invaso in energia cinetica e trasportare l’elettricità in tutte le abitazioni, anche le più periferiche. In realtà, poiché la pensavano così un po’ tutti, a cominciare dai lavoratori che erano anche i più vitalmente interessati, ai sindacati non poteva sfuggire che il pluralismo competitivo ostacolava la realizzazione del principio dell’unicità della regolazione del lavoro che era stato costituzionalizzato proprio per soddisfare l’istanza egualitaria che in epoca industriale caratterizzava il mondo del lavoro dipendente. Per questo, concordarono l’unità d’azione contrattuale e il suo successo avrebbe accompagnato il diffondersi della persuasione che non fosse scorretto cercare fuori della costituzione ciò che in essa sta scritto; cosa che, l’ho appena detto, accadde in una forma che era una parodia di quella prevista dalla costituzione.

E ciò perché, se i padri costituenti scrissero che in ogni categoria deve potersi applicare un contratto collettivo avente forza di legge non solo tra le parti; che esso è negoziato da un organismo comune a tutti i sindacati aventi diritto di farne parte; che l’agente negoziale è unitario perché è l’equivalente di un mini-parlamento; che il suo funzionamento è governato dal principio di maggioranza e che ciascuno dei suoi componenti ha una quota di potere decisionale proporzionata alla propria rappresentatività, è perché associavano al carattere inclusivo del processo di formazione del contratto collettivo la democratizzazione del medesimo. Viceversa, la quarta Confederazione senza nome e senza bandiera si era costituita proprio in sostituzione del mini-parlamento legittimato a produrre contratti collettivi provvisti di efficacia para-legislativa; un’efficacia che i contratti conclusi dal fantomatico club di natura privatistica poteva soltanto scimmiottare – in compenso però le regole che ne presiedevano la formazione erano distanti anni-luce da quelle del processo legislativo in una democrazia.

Ecco; il diritto sindacale nel dopo-costituzione comincia a formarsi grosso modo così: galleggiando come un veliero col timone bloccato in un mare di incertezze, reticenze ed equivoci. Infatti, anche noi ci siamo abituati a parlare di sistema sindacale chiudendo un occhio e spesso tutt’e due sia sul fatto che, pur sviluppandosi in polemica col fascismo, si giovava di categorie tecnico-concettuali legificate in età corporativa sia sul fatto che la curiosa ibridazione trovava una sua sintesi nel primato del diritto comune che vive da sempre in un rapporto osmotico con la dimensione patrimonialistica e mercatistica. Sia infine, sul fatto che, alla lunga, la generale condivisione del calcolo di convenienza che indusse i maggiori sindacati a porre l’accento più sul poco che le univa che sul molto che le divideva ne ha indebolito i sensori adatti a captare la direzione di senso delbricolage unitario, mentre ha enormemente sviluppato quelli che consentono di enfatizzarne gli aspetti positivi. Adesso, infatti, si scopre che i sindacati hanno fertilizzato il terreno in cui ha messo radici un generale pregiudizio sfavorevole tout court all’intervento regolativo dello Stato e, in conseguenza, hanno finito per premiare l’idea dell’auto-sufficienza di un ordinamento creato da centri privati di coproduzione normativa: un ordinamento sovrano sulla soglia del quale lo Stato deve arrestarsi, con le sue leggi e i suoi giudici.

Come dire che la storia del diritto sindacale nel dopo-costituzione è troppo anomala per poterne ricavare elementi utilizzabili per riportarla entro un disegno di razionalità normativa e tutto lascia presagire che il processo di de-costituzionalizzazione sia irreversibile. Per certo, tra la posizione di chi interpretò il rinvio dell’attuazione costituzionale come una circostanza felice e la posizione di chi voleva accantonare definitivamente la questione ora prevale nettamente la seconda. Né potrebbe essere altrimenti.

Il provvisorio dura da troppo tempo per non avere esteso e consolidato l’interesse a trasformarlo in permanente. In particolare, nessuno dei sindacati che hanno egemonizzato il dopo-costituzione intende rinunciare ai vantaggi che procura la libertà pressoché assoluta di cui ha goduto per più di sessant’anni nonché ai privilegi di cui si è impadronito in qualità di istituzione in bilico tra privato e pubblico. E ciò specialmente dopo che, per il visibile contributo dato alla sindacalizzazione della scomposta spontaneità del (secondo) biennio rosso, la quarta Confederazione senza nome e senza bandiera si era guadagnata la sponsorship del legislatore statutario. Il quale, in questa maniera, ne ha incentivato l’autoreferenzialità in un clima di immunità nei confronti degli stessi rappresentati. Ut erat in votis. Dopotutto, la trama fondativa dello statuto dei lavoratori era la risultante di un intreccio di opzioni sovraccariche di significati nascosti: ostilità verso lo spontaneo, cautela verso l’individuale, generosa empatia verso il collettivo strutturato.

Infatti, il complesso delle misure dirette a neutralizzare l’indistinto protagonismo di massa che caratterizzò l’autunno caldo del ’69 ubbidiva ad una logica che sarebbe stata introiettata dai sindacati sponsorizzati dal legislatore statutario al punto di promuovere la graduale mutazione genetica che ha finito per integrarli in un establishment propenso a considerare fisiologica soltanto la conflittualità sociale mediata dalla rappresentanza sindacale. Una rappresentanza che ha dilatato in misura entropica il suo spessore organizzativo, diversificato i servizi da erogare a rappresentati sub specie di utenti-clienti e, acquisita la mentalità di chi per mestiere governa l’esistente, non può non inscrivere tra le priorità della propria agenda l’obiettivo di appropriarsi delle risorse materiali necessarie per sostenere il costo di apparati burocratici affollati da migliaia di funzionari il cui spirito di militanza si è spento, unitamente alla percezione di un legame di appartenenza identitaria. Per questo, era inevitabile che la quarta Confederazione senza nome e senza bandiera artefice e garante del diritto sindacale del dopo-costituzione riconoscesse nel dissenso interno la principale insidia del suo programma di auto-conservazione.

Era inevitabile che, per emarginare le devianze, completasse un processo di omologazione che col passare del tempo si è spostato dal terreno della tattica sul piano della strategia e, d’intesa con uno storico partner, ricompattasse le sue componenti intorno a principi d’ordine condivisi. Ciò non toglie che il trittico confederale elaborato con pause sapienti nell’arco dell’ultimo triennio sia un modello della democrazia autoritaria che lo spirito dei tempi predilige, ma è da dimostrare che sia rispettoso della libertà sindacale prediletta dai padri costituenti.

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