5 sensi, 4G, 3D, 2.0, 1 solo modo per non spegnermi

per Eleonora Gabutti

La realtà è aumentata a tal punto da rendere esigua la fantasia

E ora che no, non ho più niente da inventare

Invento uno spettatore

Siamo sommersi da una realtà immateriale che ci siamo creati, ma che non ci appartiene. Come siamo arrivati fino a qui? Ormai passiamo ore ed ore ed ore attaccati ad uno schermo, non abbiamo più interessi se non quelli che ci consiglia la nostra coscienza esterna, bombardandoci continuamente con suggerimenti basati su quello che gli altri fanno e che sicuramente DEVE piacere anche a noi. Questi “altri” creano quelle che oggi si chiamano tendenze. Queste ultime sono il dogma della vita quotidiana moderna, basata sull’accettazione delle persone in base solo al loro grado di rispetto di questi parametri. Mi chiedo chi si inventi ogni giorno migliaia e migliaia di dati, informazioni, che diventano immagini, suoni, colori asettici e preconfezionati. Liberate(vi) (dal)la fantasia. Con il pretesto di esprimersi, si vengono a formare diretti standard di valutazione della creatività che non sono più basati solo sul vero sentimento dell’individuo, ma sul gusto della massa in quel preciso istante. Facciamo un esempio nell’ambito artistico: da sempre pittori, scultori, architetti, musicisti e via dicendo hanno assecondato i gusti dell’epoca e dei committenti. Pensiamo al Rinascimento, o al Barocco, di cui riconosciamo “l’impronta” a prima vista, alla differenza tra un Brunelleschi ed un Borromini, un Palestrina o un Vivaldi, solo per fare degli esempi. La differenza tra questi mostri sacri e la cultura di oggi è che, spessissimo, le cose sono usa e getta dalla mattina alla sera. Non abbiamo solo un normalissimo e fisiologico cambio nella sensibilità artistica dovuto ad eventi od evoluzioni di sorta, ma un vero e proprio consumismo dello svago. È la cultura della noia, incostante come una debole fiamma che, appena mossa dal vento, si spegne, ed ha bisogno di nuovi stimoli per essere riaccesa. Ci ritroviamo oggi con una soglia dell’attenzione talmente bassa da non riuscire a reggere una conversazione per più di cinque minuti, o non riusciamo ad ascoltare, leggere, guardare, osservare, sviscerare qualcosa che ci richieda uno sforzo maggiore di dieci minuti di video. Ci manca la voglia di rimboccarci le maniche e fare qualcosa, di esporci, creare davvero, senza aspettare che ci arrivi tutto dall’esterno, da un dispositivo che dovrebbe essere solo un aiuto, un servo, non il nostro padrone. Abbiamo perso la nostra umanità.

Sono un giovane illuminato da una realtà a risparmio energetico

Ci chiamano le “nuove generazioni digitali”, Z, Y, A, B, C e tutto l’alfabeto. Siamo nati con la grande digitalizzazione, con la rivoluzione tecnologica, i nuovi mezzi di comunicazione globale, i nativi di quest’epoca. Se una volta il telefonino ed il computer erano appannaggio di chi li doveva usare (perché, tanto tempo fa, in una galassia lontana lontana, i telefoni cellulari servivano per telefonare, non per farci qualsiasi cosa), oggi anche i bambini di tre anni si trovano con delle astronavi in mano, consegnategli “per tenerli buoni”. Un paio d’anni fa rimasi scioccata quando vidi, alla cassa del supermercato, un bambino veramente piccolo su di un passeggino che muoveva velocemente i pollici sullo schermo del telefonino. Io, che non sono nata cent’anni fa, ma solo diciotto, quando ero piccola, ero (oltre che molto scontrosa) curiosa, parlavo, pasticciavo, e ho avuto il primo incontro ravvicinato di terzo tipo con la tecnologia intorno ai dieci anni. Mi fa riflettere come, in terza elementare, le maestre ci chiesero di aprire un indirizzo di posta elettronica e molti genitori rimasero interdetti perché eravamo ancora piccoli, mentre adesso anche i neonati hanno almeno un profilo su una qualsivoglia piattaforma. Potrei, a questo punto, come forma di parziale apologia, dire che, grazie ai potenti mezzi di oggi, riesco a sentirmi quotidianamente con amici che ho conosciuto di persona durante gli ultimi anni, ma che, purtroppo, vivono per la maggior parte a svariati fusi orari lontani da me, spesso oltre oceano. Ma non posso negare che la cosa che veramente ci ha uniti è esserci conosciuti davvero. La nostra non è un’amicizia falsa nata in rete, ma uno scambio di passioni, idee, opinioni anche molto contrastanti ma comunque discusse in interminabili messaggi e videochiamate. Questo è uno dei punti critici di oggi: noi giovani ci affidiamo alla tecnologia senza minimamente preoccuparci di farci domande, cercare e darci risposte con le nostre forze. Ci accontentiamo di scrivere nella barra del motore di ricerca il nostro dubbio et voilà, risposta pronta in meno di un battito di ciglia. Anzi, oggi hanno anche studiato gli “assistenti vocali”, per cui non si fa nemmeno più lo sforzo di digitare fisicamente la domanda, basta chiedere. Tutto ciò, oltre che una rappresentazione realistica della pigrizia che ci pervade oggi, mi mette una certa ansia, perché pare che questi aggeggi vogliano sostituire ogni singolo aspetto della nostra vita quotidiana. 

La memoria è venuta meno per fare spazio a poche parole chiave

[…]

Esterno il ricordo, comune il sapere, certe le fonti

L’apprendimento è profondamente segnato da questa svolta tecnologica. Oggi dobbiamo affrontare la tanto demonizzata didattica a distanza che, in realtà, se fossimo tutti un po’ più collaborativi ed un po’ meno burocrati purosangue, ci permetterebbe di proseguire studiando anche in condizioni estreme come quelle che stiamo vivendo (vorrei ben vedere se, invece di proseguire gli anni scolastici a distanza ci avessero congelato gli anni di studio fino a fine pandemia e ci fossimo ritrovati ad essere in quarta superiore a venticinque anni perché dovevamo recuperare gli anni persi). Ma non è questo il vero problema. Siamo davanti a quella che io definirei una catastrofe culturale su tutti i fronti, tra l’altro incentivata anche da programmi in alcuni casi svolti in modo splendidamente superficiale per raggiungere obiettivi didattici numerici incasellabili, saltando direttamente la fase della comprensione reale del contenuto a cui è preferibile uno scarno risultato in cifre da inserire nella casellina di un sistema che, a fine anno, batte lo scontrino. Andare a scuola non è più un momento di scambio, osservazione, analisi e apprendimento. Dovrebbe essere un laboratorio di conoscenze, dove si potrebbe respirare un’aria frizzante di novità, e invece ci ritroviamo nella palude delle “competenze”, come le chiamano oggi. Insomma, per essere una persona “competente” basta impararsi a memoria qualche paginetta e ripeterla come un disco rotto per diventare subito studenti modello. In effetti anche gli alunni non hanno più voglia di fare nulla e, come dicevo prima parlando della cultura della noia, non riescono a mantenere salda la loro attenzione per nemmeno un quarto della lezione, e trovano erculeo il compito di studiare la bellezza di dieci pagine per un’interrogazione a distanza di due settimane. Il libro, spesso, non lo si considera nemmeno, preferendo di gran lunga i riassunti trovati non sui Bignami come una volta, ma su siti che propongono versioni ancora più stringate dei fatti. Infondo, come si può pretendere che uno studente oggi bruci il suo ultimo neurone rimasto tentando di capire, per esempio, come mai proprio l’acqua era l’archè secondo un tale Talete. Oggi esistono solo parole chiave, che ci aiutano sia a rimediare un voto discretamente sufficiente, sia ad accedere a tutti i nostri profili in rete. Un giorno, ne sono convinta, parleremo solo per monosillabi, e non verificheremo nemmeno se i koala siano in Austria o Australia, se Carlo Magno fosse davvero il padre di Alessandro Magno o se provengano da due ere diverse, o se noi siamo noi o l’immagine che gli altri hanno di noi. La rete ci offre tutte le risposte che cerchiamo, non importa se effettivamente giuste o sbagliate. “Se sta scritto lì sarà vero”, e intanto non ci ricordiamo più quale sia la forma di governo del nostro Paese, quando sia nata la Repubblica Italiana, l’Unione Europea, la differenza tra mari e monti, tra pari e dispari, tra giorno e notte. Tanto, c’è la rete a risponderci. I nostri stessi ricordi non sono più parte dell’essenza di individui, ma materiale da condividere immediatamente.

Lontano dal perché di tutto questo

Dove siamo finiti? È la realtà questa, o stiamo sognando? Siamo intrappolati in una torre, come Segismundo, prigionieri di un mondo che ci priva della dignità di uomini, perché teme le nostre potenzialità, ha paura dei creativi, dei diversi, del rischio che essi possano sovvertire questa condizione asettica in cui viviamo, risvegliando dal torpore l’umanità, intrappolata in questo timore di scontrarsi con sé stessa. Cosa dobbiamo fare, arrenderci? No, mai e poi mai. Dobbiamo far si che questa nostra condizione di sottomissione ad un regime del nulla sia solo un brutto sogno, e non la nostra realtà. L’utopia tecnologica va moderata, non possiamo pensare di poterci ritrovare rimpiazzati dalle macchine, è inconcepibile delegare le funzioni del nostro cervello a calcolatori inumani. Che senso ha far sviluppare un quadro da un dispositivo quando le mani e le menti degli uomini hanno prodotto meraviglie consegnateci dalla storia in tutta la loro gloria? Come possiamo lasciare che la sedicente “intelligenza artificiale” completi una sinfonia lasciata incompleta al momento della morte del compositore, quando ci furono uomini in grado di superare anche i loro limiti umani per comporre capolavori immortali? Alziamoci, armiamoci, non distruggiamo ma moderiamo, trasformiamoci in luddisti nei confronti della mentalità che ci vuole schiavi dei nostri schiavi, somiglianti a loro in una fredda perfezione che mai avrà a che vedere con la bellezza dell’imperfezione, il fascino di uno sguardo carico di emozioni che sono la scintilla della nostra umanità. Liberiamoci da questo nuovo stato di minorità in cui siamo ripiombati, succubi della nostra brama di comodità che limita le nostre capacità, che sono infinite, come è infinito quel cielo stellato che non siamo più capaci a guardare. Non vediamo più il futuro né il passato in questo eterno e dannatissimo presente di “tutto e subito”, di immediatezza, di risposte veloci e facili, di incomprensioni nate da un’incapacità di ascolto di fondo. Non possiamo, non dobbiamo accettare questa realtà. È inaccettabile che i giovani siano invogliati e convogliati a cercare il loro futuro nei mezzi che crediamo siano più adatti ad una generazione di individui nati nel pieno del grande sviluppo digitale, poiché il loro, il nostro futuro è fuori, composto da scontri con la realtà che allargano il panorama, l’orizzonte della nostra esistenza verso qualcosa di più grande di noi, di immensamente grande. Ma soprattutto, ascoltiamo ciò che ci sta intorno e ciò che ci sta dentro, poiché non tutte le risposte sono palesi, “l’essenziale”, infondo, “è invisibile agli occhi”. Possiamo fare la differenza se davvero lo vogliamo.

I versi che aprono i paragrafi di questo testo sono tratti dal brano Giovani Illuminati degli Eugenio in Via di Gioia

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