Perché Pavese ha voluto morire?

per Gian Franco Ferraris
Autore originale del testo: Franco Antonicelli - Gian Franco Ferraris
A Cesare Pavese
D’improvviso le Langhe! E t’ho pensato,
Dure, gialle, custodi al sole, arate
Da grandi ombre. Lì è nata la tua
il gusto dei solinghi pentimenti.
Mesi non ci parliamo, anni; ma solo
Per quell’urto del sangue che ho sentito
io ti saluto. Un’ombra c’è tra noi
che giudica severa i nostri stenti.
(Franco Antonicelli)
Foto di Franco Antonicelli

Nella notte del 27  agosto, Pavese si uccide nella sua camera d’albergo inghiottendo il contenuto di numerose cartine di sonnifero.

Sul frontespizio dei Dialoghi con Leucò posato sul tavolino, Pavese scrive le sue ultime parole

Anche quest’anno mi sovvengono alcune riflessioni sulla vita e sulla morte. Questa notte leggevo un vecchio Einaudi del ’68 e in una lettera che Pavese ha scritto nel ’45  a un’amica ho trovato:  “per sentire la politica devo fare uno sforzo” . Come non capirlo? Come  sono distanti le polemiche “sui fini dell’arte e sulle relazioni tra arte e politica” di quegli anni, che in qualche modo hanno coinvolto anche Pavese nel dopoguerra. Forse, meglio di ogni altra sua frase, quella del ’49 scritta a Emilio Cecchi, rende il suo stato d’animo :” quanto sono stato ingenuo”!

La sua sensibilità era lontana dalla politica, d’altra parte Pavese è stato un precursore  della spaccatura tra la vita reale dell’individuo e il mondo politico;  in compenso oggi andiamo molto peggio. Questi trent’anni ci lasciano sostanzialmente il vuoto e la repulsione dei cittadini dalla politica, mentre, mai come oggi, ci sarebbe bisogno di “buona politica” nell’interesse generale. Di certo, la sua crisi esistenziale esplosa quando era all’apice della fama, ha tra le cause apparenti il suo rapporto con le donne. Ancora oggi non riesco a leggere Pavese, se non in termini sentimentali: da ragazzo quando ho letto il diario dello scrittore “Il mestiere di vivere”, la cosa che più mi colpì fu quell’amore tormentato per Tina Pizzardo  , la donna dalla voce roca . Pavese ricordava sempre quel venerdì 13 come un’ossessione. ….

  E cosa dire del tanto romanzato rapporto con Connie Dowling, l’attrice americana con la quale ha avuto un relazione sentimentale nel marzo del 50, poco prima di morire e che aveva disperatamente sperato di sposare? La stessa Connie che era l’amante  di Elia Kazan negli stessi anni. Il fatto è uscito allo scoperto quando Kazan ha pubblicato le sue memorie. Tutto il mondo si aspettava di leggere la spiegazione del suo tradimento verso i suoi amici davanti alla commissione Mc Cartney e invece lesse per 80 pagine, della passione erotica del regista verso la Dowling. Anche questa è una vistosa differenza tra l’America e l’Italia: il regista non ha mai fatto fare neppure una particina all’attrice, in Italia, nemmeno Luchino Visconti avrebbe potuto permettersi tanto. Pavese, anche in questa occasione può sembrare un provinciale ingenuo, ma c’è questa poesia ” the cats will Know” che rivela la sua lucida sensibilità e l’amore per questa donna, definita dallo scrittore: ” povera donna forte, abile, disperata, in lotta per la vita “.

Perché Pavese ha voluto morire?

Pubblichiamo un testo di Franco Antonicelli, rinvenuto tra le carte del fondo Antonicelli conservate presso il Fondo Manoscritti del “Centro di ricerca sulla tradizione manoscritta di autori moderni e contemporanei”,
dell’Università di Pavia. Il testo dattiloscritto  a cura di Roberto Ludovico,  con la datazione completa: sabato-domenica mattina 28-29.X.1950 anche dell’ora, le 13 e 40,  è composto per essere letto ad alta voce davanti al microfono radiofonico.  Infatti, è il testo di una lettura radiofonica trasmessa alle 22 e 10 del 30 ottobre 1950 dal Terzo Programma Rai, con cui Franco Antonicelli commemorava la morte dell’amico scrittore piemontese. Nella versione dattiloscritta del testo vengono citati altri amici di Pavese come Massimo Mila e Gianna Manzini, si presume che Antonicelli introducesse le loro testimonianze registrate.

Ritratto di Pavese*
(Franco Antonicelli)
Mi pare di aver capito questo, tornando molte volte a leggere Pavese: che la sua opera non è finita perché la sua vita si è spezzata, ma si è conchiusa la sua vita perché era compiuta la sua opera.
Nessuno scrittore—e in così giovane età!—si allontanò con tanta ferma
deliberazione dal suo mondo ideale ponendo termine nello stesso momento al ritmo del suo mondo pratico: nessuno mai ebbe così coraggiosa, e anche disperata coscienza di non aver più nulla da dire non
avendo più nulla da vivere. Vita e arte furono una cosa sola per lui, e
non nell’ambiguo scambio dei romantici, ma nella correlazione tutta
quanta morale di chi scrive per scoprirsi e di chi vive cercando
definizione e pace a ciò che gli torna inconscio e angoscioso.
Per questo è difficile narrare una vita di Cesare Pavese che non sia
in definitiva la storia delle sue ricerche intellettuali, cioè dei suoi libri;
e per questo, anche, nessun’altra opera di scrittore risulta, a ripetute
letture, così unitaria, da sembrare questi un libro solo, dalle poesie di
Lavorare stanca all’ultimo racconto della Luna e i falò: un’unità complessa, senza dubbio, e a tal punto, che ci vorrà molto tempo perché sia sondata fino in fondo e illuminata da tutte le parti.
Per questo ancora la definizione di letterato è troppo povera, e addirittura impropria per un Pavese, con quel suono abituale ch’essa ha di mestiere, di disinvoltura e di altero privilegio. Pavese era un uomo
che adoperava le parole per comprendere, e concretare rappresentandola la difficile e scontrosa vita che gli era stata affidata.
In un’età di crisi totale come la nostra che impone o la rigenerazione
o l’abiura, tra un mondo in agonia e un altro che non ha certo la lucentezza del giorno, Pavese che scrive, impegnato nella sua vita, per vent’anni di seguito, senza una sosta e senza una divagazione, è l’esempio
più antiletterario che esista in Italia; e vien subito da riflettere che non a caso è nato nel Piemonte di Vittorio Alfieri.
Dicevo che una biografia di Pavese distaccata dalla storia dei suoi libri, quasi non esiste, o non è interessante raccontarla a chi si aspetta una vita di avventure, anche se una curiosa carriera troncata d’insegnante—qualcuno lo ricorderà, supplente d’italiano in un liceo di Torino, o professore d’inglese in qualche scuola privata—punteggiata
di non comuni avvenimenti quali una prigionia e un confino—non sia priva di qualche nota romantica. Era nato in campagna, nelle Langhe del Monferrato; visse, studiò, lavorò a Torino. Viaggi ne fece pochi; e
fuori d’Italia, se ben ricordo, nessuno. Ebbe amori, ebbe amicizie, come tutti, ma non, come tutti, fu un uomo in cui la solitudine maturò come un male, triste e inseparabile. Non era mancanza di affetto: era, forse, una pratica incomunicabilità col mondo, o una delusione della confidenza. Chi voleva trovarlo andava alla casa editrice di Giulio Einaudi,
ti guardava appena continuando a fumare la pipa, a scrivere appunti, a leggere manoscritti: rispondeva, ma capivi che tutto quello che rubavi al suo lavoro non era per lui sollievo e riposo.
Io l’ho avuto amico per più di vent’anni, da quando era studente e scriveva la tesi su Whitman e consultava continuamente i dizionari per insaporirsi nella lingua italiana, e mi rivelava i suoi grandi amori letterari, l’Antologia di Spoon River e i tragici elisabettiani e Moby Dick di Melville, che, com’è noto, tradusse in modo insuperabile, non tanto per la sua perizia, già allora grande, di quella lingua, ma per avervi scoperto qualcosa di importante, un impulso definitivo per la sua futura
esperienza d’artista: il valore dei simboli e della realtà simbolica.
Ebbene, gli ero amico e tanti gli furono amici, quanto e più di me, ma nessuno vinse mai la sua gelosa, diffidente solitudine.
Ho detto che le sue esperienze del mondo non furono numerose: ma quelle che fece gli bastarono. Se uno guarda alle cose che scrisse, si avvede che non ce n’è una di più di quelle che aveva vissuto; e, poiché l”America l’aveva conosciuta solo attraverso i suoi scrittori, ecco che nella Luna e i falò la sola evasione dal mondo piemontese, l’America, è una terra tutta fantasticata, con una certa noncuranza, sui suoi ricordi letterari. Andò a Roma e visse anche a Roma per qualche tempo. Ma
Roma non gli diceva molto: se addirittura fa da sfondo a una sua narrazione, Il Compagno, Roma gli piace in quei punti dove gli pare che ricordi Torino, magari la collina di Superga. Sì, dice il suo eroe, anche Roma è una città civile. Non si esce, nei suoi racconti, da una città e da una campagna, da Torino e dal Monferrato. Lo loderemo noi, per orgogliosi motivi di campanilismo? Non solo per questo certamente: ma anche voi lettori di tutta Italia, siategli grati perché un’altra città reale è entrata nel mondo della fantasia, e accanto alla Lucania di Levi o al Molise di Jovine c’è oggi il Piemonte di Pavese. E siategli grati voi torinesi, perché se le nostalgie della Torino gozzaniana han minacciato finora di velare la città di una monotona e anche un po’ intrigante ombra conservatrice, la Torino di Pavese è finalmente il ritratto di una
città morale: non più una vecchia stampa, ma un’immagine moderna e vera, dove, dietro allo spettacolo fluviale, c’è la vita affaticata dei renaioli; dietro le pergole delle osterie periferiche c’è una parca festività serale e domenicale degli operai; sulle colline c’è il ricordo della gente che vi si è rifugiata dai bombardamenti notturni; nelle strade, nelle botteghe ci sono le ragazze che lavorano e amano, dalle parti di via Basilica c’è Clelia, la sarta che ci è nata e ha saputo far carriera; dalle
parti di Pò, verso Piazza Vittorio, nell’odore invernale o nell’aria gracile di primavera c’è una Rosetta che si uccide, guardando Superga.
Torino d’oggi non più d’ieri, Torino dove non vivono fantasmi, ma persone vive in cui ci riconosciamo. E, poiché Pavese aveva del grande artista il senso della discrezione nel rapporto fra l’uomo e il paesaggio,
come Giotto l’aveva, come Verga l’aveva, Torino fa da sfondo, quasi in disparte, non invade la scena, ma, sempre presente, è come una seconda immagine dei personaggi che agiscono sul primo piano.
Torino, in particolare le colline e il Pò: tutte le esperienze, i vagabondaggi, gli sports, le confidenze di Pavese con la natura non erano state, unicamente, le passeggiate sulle colline, le remate sul Po sulle faticose barche dei renaioli?*
* A questo punto della versione autografa si legge: “Massimo Mila che gli era stato compagno in quelle navigazioni fluviali, può ben dirvi quali sono stati i Mari del Sud di Pavese giovane, può narrarvi lui, meglio di me, questo capitolo del Pò.” Nel manoscritto segue una nota a caratteri maiuscoli—”MILA”—a indicare probabilmente una registrazione o un intervento dell’amico torinese da alternare alla lettura radiofonica dello stesso Antonicelli.
Con la realtà umana Pavese s’incontrò subito, fin dal primo libro:
non ci sono “divertimenti” nella sua opera, non vi sono abbandoni alla pura fantasia e la pura fantasia non cercò vie fuori dell’umano. I limiti dell’umano sono presenti fin da Lavorare stanca—dal ’36 per stare alle date ufficiali di pubblicazione—ed è anche questo uno dei motivi per cui, rileggendo attentamente, come bisognerà fare e nessuno fin ora ha fatto, quelle poesie, si riconoscerà con quanta intima forza polemica erano destinate a contrastare la poesia ermetica di quegli anni. Allo
stesso modo che lo spigliato, qualche volta spavaldo neoverismo di Paesi tuoi voleva rompere i vetri dei chiusi ambienti della prosa d’arte.
Ed è anche in questo senso che si deve parlare dell’assoluta, fondamentale unità dell’opera di Pavese, di quella che egli stesso definiva “caparbietà monotona” dei suoi temi e dei suoi interessi.
Quando uscì Paesi tuoi, questo breve romanzo o racconto (e non è un caso che Pavese non abbia mai tentato l’affresco grande, il romanzo vasto e vario che tutti credevano dovesse essere la vera meta di uno scrittore come lui, e non poteva esserlo naturalmente, solo che si capisca la sua arte), quando uscì Paesi tuoi il pubblico l’accolse con un po’ di ammirato scandalo, come la prima affermazione di un giovane coraggioso scrittore, già scaltro ma d’ignoti sviluppi, quel pubblico
ignorava quasi del tutto che lo avevano preceduto le poesie di Lavorare stanca. Anche i critici (che scopersero un bel giorno che c’era stato persino un altro maturo precedente, e cioè il racconto II carcere così diverso dai Paesi tuoi, tutto sottilmente musicale, con uno stile “evocativo e fantastico” ed ancora il racconto torinese Bella estate, col suo pungente contrappunto di dialoghi e di fragili avvenimenti) anche i critici lasciarono da parte le poesie di Pavese, come esperimento tutto singolare e quasi privato. Ma in Lavorare stanca c’era già l’intero mondo di Pavese e i libri che lo seguirono (commento in prosa come Fiera d’agosto, o per non parlare di tutti gli altri, in cui lo svolgimento e l’approfondimento dei temi essenziali è evidentissimo) non sono, Pavese stesso lo diceva, se non come pezzi staccati del grosso monolito, e lavorati e studiati sotto tutte le luci possibili. Uno che leggesse i libri di Pavese per ordine, arrivato all’ultimo, La luna e i falò, avrebbe la
certezza che in questo sono riassorbiti tutti i motivi vitali: una confluenza sorprendente, che potrebbe addirittura essere meticolosamente verificata. Non si tratta, s’intende, di una unità esteriore: capire perché e seguire come questa tematica tipica di Pavese si condensa e si svolge, si replica e si approfondisce, s’imposta in modo certo fin dall’inizio e con un estremo rigore è condotta alla maturità e all’esaurimento, la storia, insomma, di questa ammirevole coerenza, sarà il compito, non
facile, cui dovrà sottoporsi la critica, passato il momento dello stupore accorato, delle commemorazioni e dell’attesa dell’inedito, che, per certi brevi scritti teorici e per il grosso diario intimo aperto nel 1935 e chiuso consapevolmente nel 1950, risulterà di fondamentale utilità.
Pavese stesso ha definito Lavorare stanca come “l’avventura dell’adolescente che, orgoglioso della sua campagna, immagina consimile la città, ma vi trova la solitudine e vi rimedia col sesso e la passione che servono soltanto a sradicarlo e gettarlo lontano da campagna e città, in una più tragica solitudine che è la fine dell’adolescenza.” Chi conosce
tutta l’opera di Pavese deve ammettere che non si va molto al di là di questo canzoniere: Feria d’agosto lo riecheggia largamente in prosa,  i racconti di La bella estate ripetono quell’alternativa di illusioni e delusioni della città e della campagna.
E città e campagna sono dappertutto i simboli della sua lotta contro la solitudine, il grande tema centrale di Pavese, il tema lirico e tragico: la solitudine inquieta, piena di rimorsi, che crede di soddisfarsi in sé con un senso di ragionato egoismo, per cui la situazione di carcerato, di confinato o di un uomo che si apparta dalla lotta degli altri, è difesa ostinatamente, con dati teorici e pratici, ma alla fine, sia pure scherzando su di sé, il protagonista deve riconoscere che è una vigliaccheria, che è un assopimento. Prima che il gallo canti aveva intitolato Pavese due racconti di tempo diverso pubblicati insieme: Il carcere e La casa in collina. Due storie del suo sonno di uomo, o meglio di inquieta veglia che non dà riposo: ma poi il gallo canta, la lotta intorno chiama a raccolta, il mondo e la vita vogliono uomini desti. La congiura politica, i doveri sociali, la guerra, hanno scosso la solitudine.
Il ritorno alla campagna, l’ultimo, quello della Luna e i falò, è la riconquista di un rifugio, ma l’egoismo del solitario è sconfitto per sempre. E ancora una solitudine amara, un pianto asciutto, virile, ma nella terra nativa della Luna e i falò, il poeta ritrova lo stato suo d’infanzia, l’età primordiale della terra, come una spiegazione dolce e dolente di
tutte le sue esperienze umane, un consenso alle cose che avvengono come simboli del destino. Tutto vi ritorna, pacato, nella pienezza della maturità che ti distacca dall’amarezza delle passioni: anche il sesso, e le immagini un po’ deliranti che balzano con tanta sincerità in Paesi tuoi.
C’era stato in mezzo, non bisogna dimenticarlo, il libro Dialoghi con Leucò. Un libro che un giorno noi consideravamo come appartato dal resto dell’opera, un intermezzo libresco, una pausa umanistica sia pure di qualità e d’intenzioni speciali. Invece appare sempre più il libro centrale della poetica di Pavese, una somma talora aggrovigliata, delle sue
riflessioni più profonde e tenaci.
Forse per questo e per il fascino di molti sensi non penetrabili ma densi e illuminati da una strana luce, e per un suono lirico che è sconosciuto nella letteratura contemporanea, Pavese amava questo suo libro, lo tenne accanto alla sua morte.
Nei Dialoghi con Leucò Pavese scopre l’itinerario intellettuale per definire il compito del poeta. “Non ti sei chiesto—dice Mnemòsine a Esiodo—perché un attimo, simile a tanti del passato, debba farti d’un tratto felice, felice come un Dio? Tu guardavi l’ulivo, l’ulivo sul viottolo che hai percorso ogni giorno per anni, e viene il giorno che il fastidio ti lascia, e tu carezzi il vecchio tronco con lo sguardo, quasi fosse un amico ritrovato e ti dicesse proprio la sola parola che il tuo
cuore attendeva. Altre volte è l’occhiata di un passante qualunque.
Altre volte è la pioggia che insiste da giorni. O lo strido strepitoso di un uccello. O una nube che diresti di aver già veduto. Per un attimo il tempo si ferma, e la cosa banale te la senti nel cuore come se il prima e
il dopo non esistessero più. Non ti sei chiesto il suo perché?—Tu stesso lo dici (risponde Esiodo). Quell’attimo ha reso la cosa un ricordo, un modello.”
Ripetere il modello, raccontare il ricordo, esprimere il senso di cose eterne, intemporali, cariche di un esemplare significato: questa la missione di un poeta dei simboli e dei miti, come Pavese, questa la poesia raggiunta dall’ultimo libro. E si spiega la straordinaria felicità artistica, la velocità, la concentrazione con le quali Pavese scrive La luna e i falò:
di anno in anno, di mese in mese anzi, di libro in libro, i temi molte volte rielaborati sembrano prepararsi all’ultima, definitiva chiarezza. Il bisogno di conquistare compiutamente il suo mondo intellettuale e fantastico ha incalzato Pavese per vent’anni. Egli se n’è andato dalla vita con questa certezza.
Ma ora, a due mesi di distanza da quella sua morte, le cui ragioni sembrano così occulte e invece non lo sono, così strazianti ma, io ne ho la convinzione, sono calme, rassegnate, severe, ora che gli amici e i lettori suoi questa sera sono idealmente radunati a ricordare questo giovane grande autore europeo della nostra inquieta generazione spirituale, a me pare che più di una storia critica dell’opera di Pavese si confaccia ricordare la sua arte poetica, il suono delle cose immaginate
e scritte con tanto travagliato e ostinato studio di perfezione, con tanta lucida consapevolezza del valore di una parola in arte insostituibile, e di quanto conti, su tutto, l’aver chiaro dentro di sé il motivo e che a questo motivo corrisponda l’assoluta, la nuda limpidità del linguaggio; così vero e trasparente da riuscir vero ed esemplare per sempre,
cioè simbolico, tanto semplice ed essenziale da raggiungere l’ideale dei classici.
Così una poesia di Lavorare stanca, Maternità, diventa significativa per quel suo modo originale di raccontare versi, il suono che vi circola è pieno di malinconia umana, di un oscuro e profondo stupore fisico e sentimentale che permette, leggendolo, di tradire una regola di composizione-dizione ch’egli aveva intentata. La regola era questa, ed egli stesso la ricordò: “ritmavo le mie poesie mugolando.” Ma a me pare che questa regola, dapprima istintiva e poi in seguito rimodellata, rimanga del tutto personale, un metodo valido per l’autore, e il verso mugolato non costringa al suo stesso ritmo esterno una poesia che, dentro, si dispone diversamente.
Sono convinto che l’opera di Pavese crescerà nello spirito dei lettori: andando nel profondo, vi toccherà molte corde sopite. Sono sicuro che questo scrittore vissuto modestamente in disparte dai frastuoni letterari e appena riconosciuto dalla fama che non lo stupiva e non lo interessava, lascerà ogni giorno di più un rimpianto e desterà un’inquietudine di segreti della vita, dello spirito, dell’arte non mai tentati prima di lui.
E ora come eludere la domanda che nasce così spontanea e piena di trepidazione amara e di affetto, e, come sorgendo dal cuore vivo della lettura, vorrebbe trovare una risposta, non nelle sciocche e talora infami proposte del pettegolezzo, ma nelle pagine stesse di Pavese: perché Pavese ha voluto morire?
Pavese non è morto come Stefan Zweig, o Klaus Mann perché questi erano ancorati disperatamente al vecchio mondo che traballava e sentivano di non poter scegliere tra il disgusto e l’amore che in pari tempo esso incuteva, non credevano possibili le mediazioni, i compromessi, che in definitiva essi non comprendevano.
Forse mori come il critico americano Matthiessen, uno della sua età, perché gli erano occluse le fonti dell'”umana tenerezza?” Non è questo soltanto: e cercare un perché può essere utile a chi dura a vivere.
Pavese non voleva essere soltanto un letterato, ma anche un uomo, egli aveva detto per bocca di Corrado, nella Casa in collina: “Esser qualcuno è un’altra cosa … Ci vuole fortuna, coraggio, volontà.
Soprattutto coraggio. Il coraggio di starsene soli come se gli altri non ci fossero e pensare soltanto alle cose che fai. Non spaventarsi se la gente se ne infischia. Bisogna aspettare degli anni, bisogna morire. Poi dopo morto, se hai fortuna, diventi qualcuno.”
Ma aveva anche scritto, in una delle sue più recenti pagine, “chi non sa essere felice qui e ora, non lo sarà mai. E scrivere, sia pure combattendo, vuol dire essere felice.” Qualcuno lo era diventato, già in vita;
felice lo era stato finché aveva scritto. Finché aveva avuto qualcosa da scrivere, da dire. Ma egli aveva ormai detto tutto quello che aveva da dire: bisogna che questo ce lo ricordiamo. Poteva scoprire nuove vie a sé stesso, chi lo sa? o aggiungere solo cose tralasciate, paralipomeni.
Ma una vita non si rifà due volte. Ed egli non aveva solo scritto libri, aveva vissuto una vita: i libri erano la testimonianza di quella vita. A tutto questo Pavese aveva dato un terribile ed oscuro nome, destino:
egli aveva vissuto fino in fondo il suo destino.
Noi forse non lo sapevamo, ma egli lo sapeva. Pavese si era liberato dalla solitudine accettandola nella sua poesia, raccontandola: quando non ebbe più da raccontare, la solitudine pratica, materiale lo riprese ed egli non seppe più reagirle diversamente. Non riusciva a trovare lui, tutto artista per destino, un rifugio, un conforto, una nuova concretezza all’azione. Una stagione nuova gli riusciva imprevedibile: la vita—ha detto bene un giovane e devoto amico suo, lo scrittore Italo
Calvino—”la vita riproponeva le vecchie angosce che l’avevano sconfitto: le donne pazze e incomunicabili, gli amici pratici e distratti, il lontano fragore d’una guerra.”
Aveva raggiunto la maturità: la maturità è, anche, la morte. Il conto di questa conclusione è ormai tra Pavese e il suo destino; se volete tra Pavese e Dio.
Ma, per quel che ci riguarda, egli ci ha lasciato due esempi da meditare: quello di un’arte che è simile al vomere nel campo irto e ribelle della vita—lo scava e per questo è un vomere, per questo è arte vera—, e quello di una vita condotta con pugnace coraggio, con disperata coerenza, al termine deciso del suo compito. Il resto, davvero, è silenzio.
F.A.
sabato-domenica mattina
ore 13 ’40
28-29.X.1950

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