Born in the USA

per Eleonora Gabutti
Autore originale del testo: Eleonora Gabutti

Avete presente i film western? Lande abbastanza desolate, villaggi di legno costituiti da poche case su di un’unica strada, di cui una di queste era sicuramente uno dei mitici saloon dove avvenivano leggendarie risse a colpi di rivoltellate, pugni e bicchieri rotti in testa. E poi i cowboy, gli americani purosangue, che badano alla loro mandria, ai loro affari, qualche volta cercano l’oro, fanno a botte e si difendono dai selvaggi indiani. Se tutte queste caratteristiche vi suonano familiare, avrete sicuramente in mente una certa immagine del Selvaggio West degli Stati Uniti. Una terra di espansione per un popolo che forse non sapeva ancora quanto grande sarebbe diventata la sua sfera d’influenza a livello globale negli anni a venire. Ma non siamo qui per parlare di furti alle diligenze, febbre dell’oro o sfide all’O.K. corral. 

Certamente, gli Stati Uniti d’America che conosciamo noi oggi sono un calderone di culture, il famoso melting pot e, negli ultimi anni, ha fatto molto discutere la politica dell’America First dell’ex-presidente Donald Trump, perfettamente incarnata dai suprematisti bianchi che, tra le altre loro imprese, vantano anche l’assalto a Capitol Hill del 6 gennaio scorso. Tante culture e divisioni, insomma. Vedendo quelle immagini, ho pensato: chi sono gli americani? Sono davvero solo i bianchi discendenti dalle colonie puritane come alcuni credono? Evidentemente, no. È opinione universalmente riconosciuta che il continente americano fosse già abitato da molto tempo prima che Cristoforo Colombo ci sbattesse dentro, e le uniche vittime della brama europea di ricchezze sono sempre e solo state le popolazioni indigene. Sia nel Nord che nel Sud del continente, i conquistadores o chi per loro sono arrivati, hanno visto, sfruttato, ucciso e portato in Europa il frutto del sangue degli indios. Scriveva Parini nell’opera Il Giorno, quando il giovin signore doveva scegliere tra caffè o cioccolata a colazione: “[…] e ben fu dritto / se Pizzarro e Cortese umano sangue / più non stimar quel ch’oltre l’Oceano / scorrea le umane membra; e se tonando / e fulminando alfin spietatamente / balzaron giù dai grandi aviti troni / Re Messicani e generosi Incassi / poi che nuove così venner delizie / o gemma de gli eroi al tuo palato.”. Con forte ironia, già nel Settecento condannava l’attitudine europea verso questi popoli. Ma, purtroppo, molte, anzi, tutte le civilissime civiltà occidentali mostrarono tutta la loro brutalità per molti anni a venire.

Nella fattispecie, gli indiani d’America furono brutalmente massacrati e privati di ogni libertà durante un lasso di tempo relativamente esteso, ma soprattutto durante quelle che sono note come guerre indiane, che costellarono l’Ottocento americano di crudeli massacri di poveri innocenti. I pochi eredi superstiti sono oggi relegati in riserve naturali, spesse volte visitate da molti turisti che vedono queste genti non tanto come umani ma come cimeli di un popolo che, ormai, è ridotto meno che ai minimi termini. Esistono ancora, nella memoria collettiva, grandi personaggi come Cavallo Pazzo o Toro Seduto, emblemi di quell’epoca rappresentata da presidenti del calibro di Andrew Jackson (personaggio di uno squallore comparabile a quello di Leopoldo del Belgio), fautore dell’Indian Removal Act, l’atto che costringeva gli indiani ad abbandonare le loro terre ad ovest del Mississippi e diede il via al genocidio sistematico delle popolazioni indigene, lungo anche il cosiddetto Trail of Tears, il sentiero delle lacrime che, tra il 1830 ed il 1850, fu percorso da migliaia di indiani Cherokee, Seminole, Chickasaw, Choctaw e molti altri che lì trovarono la morte. Nel caso degli Stati Uniti, non si trattava di soggiogare le popolazioni locali per ottenere schiavi e ricchezze. L’obiettivo era quello di ottenere le terre abitate dagli indiani per poter espandere il territorio statunitense, e, spesso, era “più comodo” sterminare gli abitanti delle aree interessate piuttosto che scendere a patti con loro. Quando si sentivano in vena di particolare misericordia, relegavano interi villaggi in riserve o nelle Factory Schools, veri e propri campi di concentramento per gli indiani in cui erano costretti a lavori forzati e dove veniva loro cancellata l’identità indiana, con programmi, soprattutto per i bambini, di conversione forzata e torture fisiche e psicologiche. Inutile dire che molti non sopravvissero al regime di vita cui erano costretti. Non solo negli Stati Uniti, però, furono create queste “scuole”. Anche in Canada, ad esempio, sono state ritrovate fosse comuni adiacenti ad edifici adibiti ad istituti per indigeni nelle quali sono stati ritrovati centinaia di corpi, soprattutto di bambini sotto i sei anni, proprio perché i più piccoli erano solo un peso per la società, non potendo lavorare nelle fabbriche. Anche recentemente sono stati scoperti nuovi orrori del genere, e non si è fatta luce su una faccenda di questa portata. Si stima che, tra il 1830 ed il 1847 vi furono più di ottomila morti, stima drasticamente inferiore alla realtà dei fatti, per cui ci furono centinaia di migliaia di vittime di cui non siamo a conoscenza. Il genocidio degli indiani d’America è paragonabile a molti altri nella storia umana, come l’Olocausto o il genocidio del popolo armeno tra i tanti. Su nessuno di questi si ha o si potrà probabilmente avere una verità certa, ma ciò dimostra che l’uomo ha una capacità innata di saper ripetere massacri a sangue freddo ad ogni latitudine ed in ogni tempo. In pochi anni, negli Stati Uniti, si compì lo sterminio quasi totale di innocenti che avevano tutto il diritto di vivere in pace nelle loro terre. Interessante notare che, nella cultura indiana, non esista un mito della Terra Promessa come nella quasi totalità delle altre culture, poiché per loro questa Terra è quella in cui sono nati, in cui si trovano grazie ai loro padri, che furono creati lì proprio perché quello era il posto perfetto per loro. Non esisteva una logica espansionistica né tantomeno consumistica, per cui non si ammazzava mai un bisonte in più dello stretto necessario per nutrire la popolazione, il cui numero doveva restare contenuto appunto per non rubare tutte le risorse alla Terra. Non erano così selvaggi come sono spesso stati dipinti, anzi, avevano molto più senso pratico dei “civili” americani che, francamente, se ne infischiavano della Terra, sterminando e distruggendo anche la fauna locale (tant’è che la popolazione dei bisonti dell’Ovest si è ridotta drasticamente dall’arrivo dei coloni in poi).

Nel film del 1970 Soldato Blu, bene è rappresentata la tragica condizione degli indiani, specialmente negli ultimi venti minuti, che non definirei una battaglia tra americani coloni ed americani indigeni (perché, infondo, questo sono), ma un massacro scioccante riprodotto in ogni singolo dettaglio, senza censure o altro. Influenzato certamente dal periodo in cui fu prodotto, sono chiari i riferimenti alla guerra del Vietnam di quegli anni, rappresentando con costumi d’epoca una questione d’attualità. Quando alla fine Cresta, una ragazza americana che era stata moglie di Lupo Pezzato, capo di un villaggio Cheyenne, tenta di convincerlo a scappare dagli americani che stavano per attaccare il villaggio, Lupo Pezzato si oppose, sventolando la bandiera statunitense, una bandiera bianca in segno di resa ed un amuleto datogli da un generale in un segno di pace falso e codardo tra indiani ed americani. Nonostante questo, il villaggio fu attaccato e raso al suolo. Uomini, donne, bambini, anziani, nessuno escluso furono brutalmente trucidati. Non ne rimase nemmeno uno. “Ora i bambini dormono sul letto del Sand Creek”, cantava De André, ricordando la strage a cui si rifanno gli eventi del film e che, nel 1864, si portò via centinaia di indiani innocenti. Questo, come tanti altri eventi, sono emblemi di quello che è stato.

Vi è però stato un caso interessante di un indiano che, durante la Guerra di Secessione Americana, combatteva insieme ai Confederati del Sud. Mentre Rossella O’Hara scappava da Atlanta per tornare a Tara, Stand Watie, generale dell’armata del Sud, era l’ultimo ad arrendersi al Nord. Quando si parla della Guerra Civile, il primo evento ed il primo personaggio che vengono ricordati sono, di solito, la battaglia di Gettysburg ed il generale Lee. Sicuramente, la battaglia ha segnato la stangata definitiva al progetto del Sud agricolo di staccarsi dal Nord industriale, ed il generale è stato forse l’emblema della lotta confederata contro gli Yankees, ma ci sono personaggi che hanno segnato la storia per ragioni che vanno ben oltre una guerra combattuta. Stand Watie, infatti, non era solo un generale confederato, ma era prima di tutto un indiano. Potrebbe sembrare un caso eclatante di supporto indiano ad una causa prima di tutto persa, ma dalla parte di una Nazione che ha fatto di tutto pur di sterminarli, ma c’è un particolare da considerare. Il 29 dicembre 1835 fu firmato, dagli ufficiali degli Stati Uniti e da una minoranza Cherokee, il trattato di New Echota, che diede il via legalmente al trasferimento degli indiani Cherokee dai loro territori e al loro genocidio. Watie fu uno dei firmatari, facente parte del cosiddetto Treaty Party, la rappresentanza di una minoranza indiana a favore di questo trattato. Le controversie a proposito della deportazione dei Cherokee sono molte e tutt’altro che semplici da dirimere, soprattutto quando entra in campo un altro personaggio, John Ross, mezzo scozzese e mezzo indiano, per alcuni un “Mosè indiano” che guidò il suo popolo dalle terre dei padri ad una nuova terra, per altri uno che voleva solo attuare una frode contro gli indiani. Fatto sta che, dopo l’approvazione dell’Indian Removal Act, portò nientemeno che il Presidente in tribunale, arrivando addirittura a portare la causa Cherokee davanti alla Corte Suprema. Gli indiani furono dichiarati abbastanza indipendenti dallo stato della Georgia, ma questo non fermò né l’avanzata statunitense nei territori dell’Ovest, né tantomeno le violenze tra i vari gruppi indiani, che consideravano tanto Ross quanto Watie criminali per aver ceduto le terre sacre dei padri agli usurpatori americani. Ancora oggi queste due figure rimangono estremamente controverse, tanto che alcune statue o memoriali a loro dedicati sono state vandalizzate in seguito alle proteste per le rivendicazioni antirazziste facenti parte del movimento Black Lives Matter.

La questione delle riserve, non solo in America, è anch’essa motivo si divisioni a livello globale. Esistono essenzialmente due casi: o gli indigeni vengono rinchiusi in dei parchi a loro dedicati, o vengono rimossi dalle loro terre per trasformarle in zone naturalistiche (per turisti). L’associazione Survival International da anni denuncia tutte le violenze che gli indigeni nel mondo. Spesso, come in Amazzonia, vengono privati della loro terra dagli agricoltori la cui unica intenzione è quella di sfruttare ogni centimetro quadrato disponibile a scapito di gente e ambiente, incoraggiati anche dal governo stesso, come accade, ad esempio in Brasile e Paraguay, dove i popoli guaranì, ridotti a poche migliaia di individui, devono combattere quotidianamente contro la barbarie consumistica ed industrializzatrice internazionale. Ma non soffrono solo per motivi economici: vi sono anche svariate associazioni naturalistiche appoggiate da cooperative ed organizzazioni internazionali che costringono gli indigeni a lasciare i loro territori per costruire riserve atte a salvaguardare il Pianeta ed accogliere i turisti, senza considerare che, molto probabilmente, gli abitanti di diritto di quelle zone sarebbero molto più in grado di chiunque altro di conservare perfettamente l’ecosistema che altri pensano di salvarlo distruggendolo. Casi eclatanti li abbiamo, tra i tanti, nell’area del bacino del Congo, dove anche i guardiaparchi delle riserve attuano violenze contro i popoli indigeni, bruciano villaggi ed utensili etc., e considerano pericoloso far rientrare queste genti nelle loro terre ancestrali più di quanto non lo siano la “caccia sportiva” ed il turismo. Dall’Amazzonia al Kalahari, dalla giungla indiana alla foresta pluviale del Congo, ovunque le popolazioni indigene sono minacciate. Se ne parla sempre troppo poco.

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