Conclave, vincitori e vinti: la Chiesa italiana perde, decisivi i cardinali del Sud del mondo

per Gian Franco Ferraris
Autore originale del testo: Giacomo Galeazzi, Domenico Agasso

Conclave, vincitori e vinti: la Chiesa italiana perde, decisivi i cardinali del Sud del mondo

CITTA’ DEL VATICANO. Alla fine spiegano tutto l’espressione triste del candidato più accredito alla vigilia (Pietro Parolin) e quello sorridente del kingmaker Timothy Dolan, già grande elettore di Jorge Mario Bergoglio nel 2013 e convogliatore sul Vaticano delle ingenti offerte dei cattolici Usa. Il flop della delegazione italiana al Conclave si fonda su una constatazione. «Se hai quattro candidati e gli americani uno, perdi  rileva il diplomatico vaticano di lungo corso. Essersi presentati all’elezione pontificia con quattro papabili (Pietro Parolin, Matteo Zuppi, Pierbattista Pizzaballa, Giseppe Betori) non deponeva a favore del ritorno del pontificato in Italia dopo tre stranieri».

E aggiunge: «La nomina di Prevost è frutto di una mediazione: un curiale di breve corso e un pastore missionario. Parolin nelle prime due votazioni ha avuto un buon numero di preferenze, ma in terza è calato e a quel punto ha fatto confluire i suoi voti su Prevost per dare un messaggio di comunione e celerità. Il fatto che sia stato nominato subito un candidato che non era nella prima fila dei papabili significa che dopo il pranzo di ieri hanno individuato questa soluzione». Inoltre «il fatto di essere divisi ha inevitabilmente depotenziato i cardinali italiani, mentre Prevost durante le congregazioni generali aveva ben figurato raccogliendo così i voti degli elettori delle Americhe, della Curia e anche dei porporati asiatici che si sono orientati su di lui invece che su Luis Tagle. Prevost è un uomo metodico e come si è visto dal ritardo nell’uscita a San Pietro dopo la fumata bianca ha scritto il discorso improvvisando solo i saluti in spagnolo». Determinante appunto Timothy Dolan, il cardinale di New York, l’uomo del presidente americano Donald Trump in Vaticano. Lui ha giocato un ruolo di primo piano, come era già stato al precedente conclave quando perfezionò la candidatura di Jorge Mario Bergoglio ma poi ne rimase deluso.

 

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Dolan ha lavorato per ricucire le anime divise della chiesa americana. Gli anti trumpiani come Mc Elroy, Wolton Gregory e i super conservatori alla Di Nardo e lo stesso Dolan hanno capito che era arrivato il momento di giocare come una squadra. Al pontificio collegio nordamericano si sono fatti i veri giochi. Dolan sicuro di sè twittava e dispensava i soliti sorrisi. Intanto contava i voti per Francis Prevost, un profilo perfettamente spendibile: statunitense di nascita ma missionario in Perù, solido in dottrina, curiale come ex prefetto della Congregazione per i vescovi, fluido in italiano, inglese ovviamente e spagnolo.

Il cardinale Pietro Parolin è il grande sconfitto: in suo sfavore ha giocato l’accordo sulla nomina dei vescovi con la Cina ma hanno pesato anche le divisioni tra gli stessi bergogliani. Arrivati sparsi alla meta, non sono stati in grado di convogliare i loro voti su candidati come il francese Jean Marc Aveline, o il maltese Mario Grech, anche lui anglofono. Fuori dai giochi anche Pierbattista Piazzaballa, francescano gradito a Comunione e Liberazione, patriarca di Gerusalemme dei Latini, troppo giovane e troppo “politico” .

Decisivi per l’elezione di Prevost sono stati i voti degli asiatici e degli africani, esattamente quelli che sono mancati a Parolin nonostante le voci di un ticket con un altro grande favorito delle prime ore, il cardinale Tagle. I cardinali africani e asiatici erano indecisi all’inizio delle congregazioni e il loro voto alla fine in conclave si è orientato con l’Occidente o almeno con una certa idea di Occidente. La mite determinazione di Prevost ha attirato su di lui anche i progressisti schierati inizialmente a favore del francese Jean-Marc Aveline. La candidatura ha cominciato ad emergere nel ricevimento “Commonwealth” dove si sono riuniti tutti i cardinali di area anglofona, dagli inglesi al sudafricano Stephen Brislin, (un bianco), passando per le isole Tonga, il Pakistan, l’India. La lingua inglese stavolta ha fatto la differenza per incontrarsi, parlarsi, studiarsi. Alle congregazioni generali si sentiva sempre più spesso entrare i cardinali che dicevano «good morning, good morning», e non più solo «buongiorno, buongiorno». Segno appunto del conclave più internazionale di sempre e con un accento anglofono. Nei giorni scorsi Prevost, il nuovo Papa con il nome di Leone XIV, – il Papa della Rerum Novarum, iniziatore della Dottrina sociale della Chiesa –, aveva rilasciato un’intervista in cui aveva parlato dell’importanza dei suoi genitori nella sua formazione e nella sua crescita spirituale. Una famiglia cosmopolita come trasversale geograficamente è la sua educazione tra i due continenti americani: una storia familiare crocevia di culture con un padre con origini francesi ed italiane e la madre spagnola.

Prevost aveva parlato anche dell’importanza dell’amore di una famiglia. Non aveva certo menzionato la famiglia uomo-donna, quella che non prevede unioni tra persone dello stesso sesso ma il sottotitolo era quello. Tutti segnali rassicuranti dopo un Papa, come Francesco che ha aperto tutte le porte. Troppo, per molti cardinali che hanno partecipato al conclave. Così Prevost si affaccia a San Pietro con mozzetta e stola invece che con la semplice talare bianca come il suo predecessore.

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