D’Alema: “Ma il Pd dove vive? I 5 Stelle sono indispensabili e l’agenda Draghi è la causa della sconfitta”

per Gian Franco Ferraris
Autore originale del testo: Fabrizio D'Esposito
Fonte: Il Fatto Quotidiano

Massimo D’Alema a dicembre andrà in Messico e di lì in Brasile, dove incontrerà Lula a San Paolo. “Spero vincitore (il ballottaggio è il 30 ottobre, ndr). Mi ha detto: ‘Comunque ci abbracceremo sia che vinca sia che perda’. Io sono andato a trovarlo da presidente ma anche in carcere. In fondo, sono un vecchio comunista”. Presidente parliamo dell’Italia. “Già l’Italia”.

La destra ha vinto.

La destra ha preso 12 milioni di voti, gli stessi del 2018, con una forte concentrazione in FdI: un balzo in avanti compensato dal dimezzamento degli alleati. È un risultato sconvolgente, perché la maggioranza parlamentare poggia su un consenso espresso dal 28% dell’elettorato, in termini assoluti.

Neanche uno su tre.

Pensi che nel 2006, l’Unione vinse con 19 milioni di voti e un margine risicatissimo. Oggi la destra avrà il controllo delle istituzioni con 12 milioni di voti: sono elezioni che mostrano una profonda crisi del sistema democratico. Una crisi non solo italiana, si pensi anche alla Francia. Ovviamente tutto questo non mette in discussione la legittimità del risultato. Diciamo che è un’avvertenza per i vincitori.

Cioè?

Dovrebbero mostrare una certa prudenza. Non sono la maggioranza del Paese.

C’è un pericolo fascista?

No, anche se questa destra è venata di aspetti nostalgici. Ma se questa maggioranza accentuatamente minoritaria imporrà riforme costituzionali o una compressione dei diritti civili avrà una reazione di tutti quelli che non l’hanno votata e che sono molti di più.

La destra ha vinto. Ma ha vinto facile.

Parto da un paradosso: la destra che ha vinto è stata divisa per quasi tutta la legislatura, spacchettata in tre.

Lega con i 5S, Salvini e B. con Draghi, Meloni sempre all’opposizione.

Non a caso ha vinto, Meloni. Draghi è caduto e i tre si sono messi insieme senza neanche dare una spiegazione.

E dall’altro lato non c’era più nulla.

Persino un commentatore come Tony Barber del Financial Times, che non è mai stato tenero con la sinistra italiana, trova inspiegabile che le forze di centrosinistra che hanno governato insieme il Paese si siano presentate divise.

Tre anni insieme, dal governo Conte-2.

Un esecutivo che ha fatto bene durante il Covid e ha rappresentato con dignità l’Italia nell’Ue. Conte ha portato i soldi del Recovery Fund. Lo hanno accusato per non aver preso il Mes, ma neanche Draghi lo ha chiesto, eppure nessuno ha detto nulla, tutti zitti.

Anche i giornaloni.

Conte è caduto per il sabotaggio interno e per alcune pressioni esterne.

A sua volta, Conte, ha poi fatto cadere Draghi.

Si è mosso convinto che fosse oggetto di una campagna contro di lui, per metterlo in un angolo, come dimostra la scissione di Di Maio.

Un complotto, insomma.

Dico una campagna. Una campagna per logorarlo: tutto questo lo ha esacerbato. Lo trovo comprensibile. Certo, poteva avere un maggiore self control, ma ricordiamo che pure Salvini e Berlusconi sono stati corresponsabili della fine di Draghi.

E il Pd di Letta se n’è liberato subito.

Poteva essergli più vicino, fargli da sponda su alcune delle richieste fondate dei 5S ed evitare così la crisi.

Invece nulla, fino al voto.

I dirigenti del Pd hanno pensato che la fine di Draghi provocasse un’ondata popolare nel Paese, travolgesse Conte e portasse il Pd, la forza più leale a Draghi, a essere il primo partito. Io non so che rapporti abbiano i dirigenti del Pd con la società italiana. Mi domando persino dove prendano il caffè la mattina, perché il risultato ha detto esattamente l’opposto. La scena del voto è stata dominata dai due leader che hanno contrastato Draghi. La tecnocrazia evoca sempre il populismo e la vicenda Monti avrebbe dovuto vaccinare il Pd.

La rottura con il M5S è stata irreversibile.

Un confronto era obbligatorio. Bisognava fare punto e a capo.

Il Pd ha seguito il piffero magico dell’establishment e dei suoi giornali.

Il problema è che le élite economiche e culturali del Paese, quelle che leggono i giornali, non hanno più rapporti con la realtà. Sa che mi hanno detto alcuni vecchi compagni comunisti? Questo: “Votiamo Conte perché i grandi giornali ne parlano male”.

Tutto torna. Però è saltata anche l’alleanza con Calenda e Renzi.

In questo Letta è stato fortunato. Quest’alleanza avrebbe portato Conte al 20 per cento.

Ma era una coalizione riformista.

Riformismo è ormai una parola talmente ambigua da essere diventata impronunciabile.

Detto da lei, presidente.

Il riformismo era imbrigliare il capitalismo sulla base delle esigenze sociali, un processo di graduale trasformazione in senso democratico.

E oggi?

È imbrigliare le questioni sociali sulla base delle esigenze del capitalismo globale.

Definizione formidabile. Alla fine Conte e i 5S sono stati la sinistra.

Vorrei ricordare che i 5S già all’inizio della legislatura avevano scelto il Pd come partner naturale, ma ci fu il diniego dell’allora leader del Pd (Renzi, ndr). Conte ha rifondato e ricollocato i 5S e il Pd ha bisogno di lui perché non intercetta più il voto popolare. Legga qua (un’analisi dei flussi di Swg, ndr): tra chi ha difficoltà economiche il 29% ha votato Meloni, il 23 il M5S e il 14 il Pd. Il risultato dei 5S è 8 punti sopra la loro media nazionale, quello del Pd 5 sotto. Il voto dei poveri, degli operai si è polarizzato tra la destra e i 5S, il Pd ne prende davvero pochi. Ora bisogna ricomporre il campo largo e fare un lavoro profondo per riguadagnare la passione di chi non vota più. Sapendo che c’è una coalizione democratica e di centrosinistra potenzialmente maggioranza.

Lei consiglia Conte?

Mi capita di sentire Conte, ma io non faccio più politica attiva. È un uomo che ascolta e valuta e ha anche un tratto di grande civiltà personale. Per esempio se viene a sapere che stai male ti chiama e ti chiede: “Come stai?”. Qualità rara oggi.

Il Pd è un partito morto?

Non ho la passione per il rito delle autocritiche e non sono più iscritto al Pd. Il centrosinistra sarebbe molto più forte se avessimo avuto un partito socialista e un altro di sinistra cattolica.

Premesso questo.

Il Pd non può pensare di riassumere in sé la sinistra ed è diventato scarsamente attrattivo. Tuttavia c’è bisogno del Pd. Penso che dovrebbe fare un bilancio serio e onesto degli ultimi anni e fare anche quelle correzioni statutarie che consentano di ricostituire un partito nel senso proprio del termine.

Un partito vero.

Dopo tanti anni in cui siamo stati travolti dal nuovismo, dovremmo prendere atto che le elezioni sono state vinte dal partito più novecentesco in circolazione, che ha persino mantenuto la fiamma nel simbolo.

C’è il congresso per questo.

Che dovrebbe aprirsi con un ampio dibattito culturale su che cosa deve essere il Pd. L’identità non la fa il totonomi. Un partito deve avere una visione del mondo e un progetto di società. Le sembra normale che in campagna elettorale una forza di sinistra non abbia mai pronunciato la parola pace?

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