Doria e Pisapia di nuovo insieme come nel 2012

per Gian Franco Ferraris
Autore originale del testo: Luciovalerio Padovani
Fonte: COMMO
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di Luciovalerio Padovani – 29 gennaio 2017

Sono stato all’incontro organizzato a Genova con Doria e Pisapia, ero curioso di sentire, premetto che nutro una profonda stima nei loro confronti. Visti uno di fianco all’altro, i due uomini dimostrano di avere molte cose in comune, intanto sono quello che si dice due brave persone, borghesi, colti, intelligenti, dotati di specchiata moralità, riconosciuta sobrietà e di forte senso civico. Non sono politici di professione ma sono stati entrambi “outsider vincenti”, si sono assunti la responsabilità di governare, ci hanno messo la faccia ed hanno amministrato da “sinistra”, con alterne fortune, due grandi città in una fase molto difficile della vita del paese.

Cosa hanno detto e sopratutto perché hanno sentito nuovamente il bisogno di chiamarci a raccolta, a distanza di cinque anni, visto che nessuno dei due ha deciso di ricandidarsi? Entrambi hanno manifestato una forte preoccupazione rispetto al futuro prossimo. Su tutto il rischio concreto, se non si fa qualcosa, di consegnare la città, prima, ed il paese, poi, alla destra o ai cinque stelle. Secondo loro, la coalizione di centrosinistra deve ricompattarsi al più presto, prima che le derive populiste e xenofobe ci portino direttamente nel baratro.

Nel frattempo però, come ammettono entrambi, in questi cinque anni, il quadro politico è totalmente cambiato. Il patto tra Bersani, Di Pietro e Vendola (la “foto di vasto” come dice oggi Marco) che stava alla base della coalizione che ci aveva portato alla vittoria alle amministrative del 2011-2012 e che si candidava a governare il paese nel 2013, non esiste più: l’IDV si è dissolto, SEL sta cambiando pelle, lo stesso PD è attraversato da forti lacerazioni e da spinte centrifughe ed il panorama politico non è più bipolare.

Certo, come va di moda dire in questo periodo, non bisogna abusare di un approccio “tutto politicista” alla questione. Bisogna ripartire dal “merito”, dai contenuti, dalla concretezza delle proposte, bisogna dare risposte ai problemi reali dei cittadini e non bisogna fare l’errore di ridurre tutto alla questione del “posizionamento”. Tuttavia per Marco Doria e Giuliano Pisapia che, a differenza di altri, non si nascondono dietro al dito, se il “merito” è sicuramente centrale, chiarire la questione delle alleanze resta comunque decisivo.

La domanda cruciale, stabiliti contenuti e valori, è infatti decidere “insieme a chi” si vuole realizzare il percorso, con quale schieramento ci si intende candidare. Visto che il PD non è autosufficiente e, secondo loro, “mai lo sarà” (alla faccia della  vocazione maggioritaria di veltroniana memoria), se vuole governare, senza compromettersi definitivamente con la destra, tradendo se stesso, deve per forza guardare a sinistra. Del resto, neppure la sinistra, anche quando composta da “pochi ma buoni”, ce la può fare da sola, se non a costo di confinarsi in un ruolo marginale e del tutto testimoniale. Solo una rinnovata coalizione di centrosinistra, e su questo né l’uno né l’altro hanno il minimo dubbio, è in grado di fare le “cose di sinistra” di cui c’è tanto bisogno.

Esiste ancora un “popolo di centrosinistra” che, assieme ad un popolo del PD – “non geneticamente modificato”, può essere attivamente coinvolto nella sfida del governo delle città. Marco e Giuliano non risparmiano, a questo punto, severe critiche ai partiti, la crisi dei “corpi intermedi” è, secondo loro, gravissima, i partiti sono frammentati, indeboliti, disgregati. E necessaria “da parte di tutti” una profonda presa di coscienza di questa intrinseca debolezza, richiamare tutti alle proprie responsabilità, chiedere una “riscossa etica”, mobilitare nuovamente il civismo democratico, lo stesso che ci ha portato alle vittorie del “biennio arancione”.

Alla fine della fiera però l’unico argomento convincente che viene usato, oltre ad un generico richiamo ai valori comuni, è tutto sommato ancora una volta quello del “voto utile”.  Ahimè, niente di nuovo, ma visto che il quadro politico è mutato, la crisi ha accentuato drammaticamente le diseguaglianze e siamo stati cinque anni al governo della città dilapidando in parte il capitale di credito accumulato, il richiamo risuona molto meno convicente, nonostante l’indubbia autorevolezza di chi lo lancia. Il messaggio è il seguente: there is no alternative!, se non si vuole consegnare la città nelle mani dei cinque stelle o, peggio, della destra, non ci sono alternative al centrosinistra. Insomma un pò poco per appassionare gli animi e guidare le truppe ad un sicuro successo. Ho detto sopra che nutro una profonda stima ed anche un certo affetto per i due protagonisti della storia recente della “sinistra di governo”, ma, stavolta, non ne condivido purtroppo per niente le analisi.

La “primavera arancione” aveva generato molte aspettative, si era allora convinti che la conquista di alcune grandi città fosse solo il primo passo, la spinta decisiva, per andare al governo del paese. A Genova, nonostante l’ininterrotto governo del centrosinistra, si era riusciti a far passare l’idea (con le primarie) che si stava finalmente per realizzare una reale discontinuità con il passato, spesso annunciata, ma mai realmente praticata. Discontinuità che a livello locale avrebbe portato ad una radicale riforma dell’amministrazione, basata su un diverso rapporto con i cittadini, attraverso un uso intensivo della leva della partecipazione e del decentramento, in attesa in un cambiamento, ritenuto certo, della politica nazionale, che avrebbe reso sistemica la trasformazione. Risultato, sinistra al 20% e sindaco rosso-arancione.

Tuttavia, ahimè, il quadro politico, è cambiato subito in modo drastico e questo ha contribuito non poco a frustrare le nostre speranze di allora. Al governo del paese non è andato il centrosinistra bersaniano di Italia Bene Comune, ma i governi tecnici che dovevano realizzare, in tempi brevi, sulla pelle dei cittadini gli indirizzi rigoristi dettati dalla UE. Ci siamo trovati al potere non gli epigoni moderati di Keynes, ma i Monti e gli Shauble che ci obbligavano ad applicare fino in fondo la ricetta liberista per uscire dalla crisi, attraverso l’adozione di provvedimenti che comportavano un serio ridimensionamento dei diritti acquisiti.

Così mentre l’amministrazione dello Stato non riusciva a far di meglio che scaricare il costo della riduzione dell’indebitamento pubblico quasi interamente sulla dimensione locale, comprimendo la spesa per i servizi pubblici, le amministrazioni comunali, si trovavano ad operare, a partire da un’eredità pesantissima (un mix micidiale, fatto di debiti e di gestione fallimentare), drammaticamente sprovviste di risorse. Si sono fatte anche cose buone, certo, ma ci si è trovati costretti troppo spesso a svolgere, a malincuore, il ruolo scomodo ed impopolare di “curatori fallimentari” di un consolidato sistema di potere corporativo, ormai sottofinanziato. Saltate le mediazioni (con partiti e sindacati, in posizione di estrema debolezza, attraversati da mille contraddizioni ed ambiguità) non potendo contare su risorse sufficienti, animati dallo scopo nobile di tenere conto, nei limiti del possibile, di tutti gli interessi, si è finito per fare scontenti tutti.

Infine si fatto l’errore gravissimo di chiudersi nel fortino assediato, perdendo le connessioni, prima sentimentali e poi reali, con i nostri sostenitori nei comitati e poi con il territorio. Non è un caso, mi viene da osservare se si è finito così per sentirsi soli, “lasciati un pò nella merda” (come ha candidamente dichiarato Doria nel corso della conferenza). Ma questa è un’altra storia.

Con il 2014, si è passati dai governi tecnici imposti dall’Europa al governo di centrodestra politico guidato da Renzi. Si aperta così la stagione del riformismo renziano, il cui programma era dichiaramente, profondamente distonico rispetto al nostro, quello di Italia Bene Comune. Sono state avanzate nei mille giorni del governo Renzi proposte di riforma e politiche le cui linee guida sono distantissime dalle posizioni della sinistra, su quasi tutti i temi strategici: istruzione (buona scuola), lavoro (job act), ambiente (sblocca Italia), pubblica amministrazione (riforma Madia), architettura istituzionale (riforma Boschi), sistema elettorale (Italicum), sistema sanitario (Lorenzin), difesa (spese militari).

Come si può condividere un’impostazione complessiva distante anni luce dai valori della sinistra ed in cui non ci riconosciamo per nulla? Possiamo amministrare, a livello locale, l’effetto di politiche che scaricano la crisi sulle amministrazioni locali e sui servizi pubblici e producono ancora più diseguaglianza, meno diritti esigibili, meno servizi, senza entrare in contraddizione con noi stessi? Possiamo, pur con le migliori intenzioni, gestirne o provare a moderarne gli effetti, senza diventarne oggettivamente complici? Si sa che in epoca di globalizzazione gli Stati incidono poco sugli equilibri macroeconomici planetari, ma è certo che se il governo nazionale sostiene convintamente politiche liberiste, il conto per i lavoratori e per i cittadini, sopratutto quelli più deboli, non tarda ad arrivare ed è salato. Che fare?

Qualcuno dice che una cosa è il governo nazionale, un’altra cosa è il governo locale, ma può esserci una dissociazione così grande tra politiche locali e politiche nazionali? Come è possibile continuare a stare fieramente all’opposizione del governo nazionale, sostenere ed animare, senza risparmiarsi, i referendum contro le riforme e poi condividere la responsabilità di governo a livello locale con chi promuove quelle politiche? E’ drammaticamente evidente, che questa dissociazione, questa crescente ambiguità che si spinge fino a mettere in crisi l’elemento decisivo della coerenza (con la propria missione e la propria storia) e rende poco convincente la propria narrazione, la sconta soprattutto la sinistra, in termini di consenso e credibilità.

Durante la campagna per il referendum, tra “popolo del NO” e “popolo del SI” si sono create distanze importanti, profonde, persistenti, non facili da rimuovere con un colpo di spugna, visto che siamo stati fieramente avversari e “ce ne siamo detti di tutti i colori”. Durante l’incontro, si percepiva, quasi fisicamente che, per molti dei presenti in sala, il tentativo di riavvicinamento tra forze diverse era animato sopratutto da uno scopo essenzialmente strumentale, non prenderle, piuttosto che da una convinzione profonda.

A mio modesto parere, le alleanze centrosinistra di cui parlano convintamente i nostri due sindaci arancioni che di quella stagione sono sicuramente i figli migliori, saranno nuovamente possibili solo se in un futuro prossimo le politiche sostenute dal nostro partner storico (ormai potenziale ma non più naturale) subiranno un radicale inversione di tendenza. Ci vuole un deciso cambio di linea politica dell’alleato più forte, che detiene la maggioranza delle azioni della coalizione. Cambio di indirizzo che allo stato non si intravvede.

E’ evidente che Renzi ed il suo cerchio magico non possono essere i nostri interlocutori. Il discorso cambia se gli interlocutori saranno D’Alema, Speranza e persino Bersani, insomma il PD dei comitati per il NO, quello che, attraverso una profonda revisione critica, sta mettendo in discussione le politiche liberiste adottate dall’Europa (anche grazie al loro contributo). Mi spingo oltre, per essere ancora più chiaro, ritengo che il dialogo tornerà possibile solo se cambierà la dirigenza del partito democratico, per il momento credo sia giusto considerare il progetto di centrosinistra un’esperienza chiusa, di alleanze si potrà parlare nuovamente ma solo più avanti e a determinate condizioni, non certo ora.

Ora, realisticamente e più umilmente, la partita che dobbiamo giocare è quella di garantire la sopravvivenza di un punto di vista alternativo, che altrimenti rischia di essere schiacciato tra populismo e liberismo, tra massimalismo e rinuncia. La sinistra, che ha pagato fin qui grandemente, come forse era persino giusto, il prezzo della condivisione di politiche non sue, deve al più presto recuperare una propria proposta distintiva, a partire da obiettivi e politiche radicalmente alternative, coerenti con i propri valori e con la propria missione storica che è la difesa dei diritti e la lotta alle diseguaglianze. Una sinistra di governo si, ma in grado di produrre una proposta politica coerente, concreta e distinguibile, di nuovo in grado di andare nei territori tra la gente per far crescere il proprio consenso. Questo è l’unico antidoto vero alla crisi ed alla deriva xenofoba e populista, intraprendere questa strada non sarà facile e ci costerà non poco, ma è questo, in questo momento, l’unico voto veramente utile!

Cari Marco e Giuliano, vi voglio bene ma questa volta non vi seguo. Credo che per parlare seriamente di centrosinistra, nelle mutate condizioni, sia necessario che il PD faccia i conti con il renzismo e le sue politiche e persino, mi spingo oltre, con il veltronismo e la sua vocazione maggioritaria. La sinistra deve invece fare i conti con l’ulivismo, non si può rimanere cespugli e subalterni tutta la vita. La strada che ci suggerite non fa crescere la pianta, se va bene ne blocca lo sviluppo, come un “origami”, o finisce addirittura per estinguerla del tutto. Noi pensiamo che sia finita una fase e che per come va il mondo ci voglia, nel paese e in Europa, una sinistra forte ed influente, per fare questo bisogna raccogliere la sfida e costruire un progetto autonomo ed indipendente che ci permetta di mettere solide radici e ci faccia ricominciare a crescere. È questo l’unico “campo aperto” che ora ci interessa.

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