Anche Boeri vittima della panzana dell’aumento dell’Iva come svalutazione competitiva

per Gian Franco Ferraris
Autore originale del testo: Giovanni La Torre
Fonte: i gessetti di Sylos

L’idea che un aumento dell’Iva equivarrebbe a una svalutazione competitiva (fiscale), con conseguente beneficio per il commercio estero, è una bufala che circola da tempo e ogni tanto riemerge. Ultimamente è stato Tito Boeri a ripescarla in un articolo su Repubblica di oggi, dove nel parlare della questione della clausola di salvaguardia di aumento dell’Iva, a un certo punto ha scritto: “l’impegno a non aumentare le tasse non significa rinunciare a cambiare la composizione del prelievo fiscale che in Italia grava troppo sul lavoro. Un aumento selettivo e ben congegnato dell’Iva aprirebbe lo spazio per riduzioni delle tasse sul lavoro con benefici importanti per la crescita del nostro Paese. Bene ricordarsi che proprio una riduzione della pressione fiscale sul lavoro, abbinata a un aumento dell’Iva è stata la chiave del ritorno alla crescita della Germania agli inizi del nuovo millennio. Allora era la Germania il grande malato d’Europa. Oggi siamo noi a vantare questo triste primato. E una svalutazione fiscale, che fa aumentare il prezzo delle importazioni ma non quello delle esportazioni, cui non si applica l’Iva, è l’unica consentita nella moneta unica.

Della natura regressiva (a prescindere da tutto), e quindi ineguale, dell’Iva, nonché dell’inopportunità di un suo aumento, abbiamo già parlato nel “gessetto” n. 430 del 9 luglio, cui rinviamo, ora cerchiamo di dimostrare che non è affatto vero che un aumento dell’Iva renderebbe meno convenienti le importazioni.

Nell’Ue prevale il principio che un bene sconta l’Iva del paese in cui viene venduto: se la Germania compra un bene italiano l’importatore tedesco paga l’Iva con l’aliquota tedesca, qualunque sia l’aliquota italiana per quel bene. Lo stesso principio vale per le importazioni in Italia di un bene, che paga così l’Iva italiana.

Ora i sostenitori della “panzana” sostengono che aumentando l’Iva vengono a costare di più le importazioni diminuendone la convenienza, mentre le esportazioni pagherebbero sempre l’aliquota del paese di destinazione, quindi la bilancia commerciale ne beneficerebbe. Ma si tratta di una cretinata, perché con l’aumento dell’Iva aumenterebbero anche i prezzi interni, quindi il confronto acquisto interno – importazione resterebbe allo stesso livello. Facciamo un esempio numerico. Con l’aliquota al 22% un bene dal prezzo netto di 100 costerebbe 122 sia comprandolo da produttori italiani che da produttori esteri. Se l’Iva passa al 25%, lo stesso bene costerebbe al consumatore 125 sia comprandolo in Italia che facendolo venire dall’estero. Mi sapete dire dove verrebbero penalizzate le importazioni?

Questa bufala viene sempre condita, credendo di attenuare l’ingiustizia in termini di pressione fiscale, e lo fa anche Boeri, promettendo come contropartita la riduzione delle “tasse sul lavoro”. Badate non si dice delle “tasse dei lavoratori”, bensì “tasse sul lavoro”, sottintendendo che la riduzione delle tasse andrebbe divisa tra lavoratori e imprese. Cioè i lavoratori-consumatori pagherebbero tutto l’aumento dell’Iva, ma verrebbero rimborsati solo in parte dalla riduzione delle imposte dirette, perché il resto andrebbe alle imprese. Attenzione: qui non si sta discutendo se sia giusto o meno trasferire delle risorse alle imprese, ma che l’equazione che spesso si presenta è semplicemente truffaldina e nasconde quello che non si vuol dire apertamente, e cioè il trasferimento di risorse dal lavoro alle imprese, cosa che a mio avviso, e sia detto en passant, aggraverebbe ancora di più la crisi.

Quanto alla Germania, cari economisti che sostenete questa tesi-bufala, la crisi l’ha superata perché tutti gli aiuti alle imprese, comprese le norme sul lavoro, sono stati utilizzati dalle imprese medesime per ristrutturarsi e riconvertirsi, cosa che non è avvenuto in Italia, come ha dimostrato anche l’Istat con il report sulla produttività.

Ma quello che più sconforta, quando si trova ancora qualcuno che sostiene la tesi in questione (soprattutto se è un “professore”) è che costoro non hanno capito la filosofia che è alla base dei trattati Ue, e cioè che se ci fosse veramente un’imposta la cui manovra consentirebbe di aggirare il divieto di dazi, l’Ue medesima l’avrebbe già abolita.

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