di Lucio Valerio 21 maggio 2016
Oggi, 12.5.2016, assemblea regionale ligure di sinistra italiana, c’era parecchia gente, assemblea partecipata nonostante fosse sabato mattina (purtroppo pochissimi giovani ed età media elevata). A dispetto di tutto, questo popolo (anche se le facce sono un po’ sempre le stesse), sembra averne ancora voglia, gli resta persino un po’ di speranza che, prima o poi, possa nascere qualcosa di buono. L’assemblea è corsa liscia, senza intoppi, ma anche senza troppo pathos (tuttavia non faccio testo, mi sentivo coinvolto fino a un certo punto).
A mio modesto avviso, alla fine, sono andate in scena, la solita liturgia (che si realizza in tutte le occasioni analoghe, a prescindere delle migliori intenzioni) e qualche contraddizione di troppo, visto che una parte consistente dei protagonisti del percorso costituente il nuovo partito in Liguria, sono anche tra i principali animatori di Rete a Sinistra. Inutile negare (per quanto molti interventi si siano sforzati di farlo) come i due percorsi siano tra loro scarsamente compatibili e concettualmente alternativi: Sinistra Italiana è un percorso che, per quanto aperto, darà vita un partito (a cui aderiscono solo alcuni e altri restano fuori), mentre Rete a Sinistra è il luogo di costruzione di un network inclusivo (a cui partecipano anche quelli che un partito lo hanno già e quelli che del “partito” manco sentono troppo l’esigenza).
Inoltre, Sinistra italiana, nonostante il bel nome beneaugurante ed il percorso partecipativo annunciato, si presenta, per il momento, soprattutto come un processo di fusione “a freddo”, maturato con la creazione del nuovo gruppo parlamentare (38 parlamentari di Sel, 7 fuorisciti dal Pd, 2 dal M5s).
C’è infine da rilevare che il problema di queste riunioni è che non sono mai veramente luoghi di scambio, di elaborazione e di approfondimento effettivo. Si possono ripetere all’infinito, centinaia di volte, sempre uguali a se stesse ma non si fa mai un passo avanti. Ci si limita, in buona sostanza, alle dichiarazioni di intenti ed alla retoriche di circostanza. Certo, probabilmente, non possono essere altro da quello che sono (in considerazione della natura dell’evento e delle dimensioni della platea) ed è forse sbagliato aspettarsi di più. Resta il fatto che il bisogno (mio di sicuro, ma abbastanza diffuso) di confronto ed elaborazione politica sembra non trovare mai il luogo giusto per esprimersi.
Non sono intervenuto. Un po’ perché ero ospite, un pò perché non ero convinto (visto che ho dei dubbi sull’operazione), un po’ anche perché ho avuto la sensazione che le cose che avevo da dire non avessero troppo spazio di cittadinanza. Erano a casa loro, stavano celebrando un rito collettivo con l’avvio di un nuovo percorso, in quella sede qualsiasi ragionamento critico (per di più esterno) sarebbe sembrato un pò fuori luogo. Non è detto però che non ci siano altre occasioni in un futuro prossimo. Qui di seguito, rielaborato, l’intervento che avrei voluto fare ma che non ho fatto.
C’è bisogno di sinistra? La risposta è SI (come il nome del futuro partito che celebra oggi la sua fase costituente). D’accordo, ma quale? Partito, movimento, coalizione, rete? Devo ammettere che mi ero affezionato all’idea lanciata dal manifesto “noi ci siamo, raccogliamo la sfida”, ma per l’ennesima volta, in una sorta di infernale coazione a ripetere, la cosa non ha funzionato. Come si sa è proprio l’accellerazione del percorso odierno e l’insistere sulla forma partito, ad avere generato quel fallimento e la successiva diaspora. Oggi siamo qua, ma all’appello mancano alcuni protagonisti (Civati, Ferrero, Revelli e le loro organizzazioni).
Abbiamo, da oggi, il partito della sinistra italiana, ma il percorso proposto non è unitario. Probabilmente, chissà, unire tutte le anime della sinistra è un compito impossibile o forse qualcuno, da qualche parte, doveva pur cominciare. Staremo a vedere. Comunque in questa sala si riunisce solo un pezzo della sinistra di alternativa, la cosiddetta (parafrasando la definizione usata in alcuni autorevoli interventi) sinistra “moderna” e di “governo”. Quella che al governo c’è stata, quella che c’è tuttora, nelle amministrazioni locali, quella che si candida ad andarci domani.
La prima domanda che sorge spontanea è: si fa presto a dire sinistra di governo, ma con quale forza elettorale (viste le attuali percentuali) e con quali alleanze ci si candida a governare? E’ ancora cantierabile un progetto credibile di governo da parte del centrosinistra, almeno nelle amministrazioni?
Su una cosa sono d’accordo con i renziani genovesi (vedi le esternazioni del futuro candidato sindaco Piazza), senza una coalizione coerente, senza obiettivi comuni, senza un progetto condiviso, governare nelle attuali condizioni, con poche risorse, in una situazione di crisi e con un eredità pesante, è sicuramente un compito impossibile (che è un po’ quello che sta capitando a Genova con l’amministrazione Doria).
Se questo è vero, se il progetto di centro-sinistra non è effettivamente, ad oggi, un’opzione praticabile, non potendo contare sull’alleato storico, abbiamo certamente davanti una “lunga marcia” all’opposizione, prima di poter tornare ad essere forza di governo, se mai ci riusciremo, i precedenti non sono ahimè certo dalla nostra.
A questo punto, per uscire dalla marginalità, a cui la frammentazione ci ha condannati, bisogna per forza di cose generare nuovo consenso, trovare il modo di recuperare coloro che si sono allontanati e attrarre nuovi elettori. Non è più sufficiente galleggiare intorno al 4%, sperando di influenzare in qualche modo il corso degli eventi.
Per conquistare consenso, tuttavia, la strada maestra è quella di produrre una “narrazione coerente”, un messaggio semplice, comprensibile, credibile e se possibile unitario. La prima condizione necessaria per fare crescere la propria credibilità è, di conseguenza, cercare di ridurre il piu possibile la babele di linguaggi che ci caratterizza, la contraddittorieta delle posizioni, la molteplicità di “soggettivita” politiche divise spesso da differenze ai piu incomprensibili. Cosa, tuttavia, per niente facile.
Alcuni mesi fa, girava una battuta su facebook, “quelli di sinistra? non è che non sono d’accordo… ma è che proprio non li capisco”, ma ancora più difficile del capire è il fidarsi (e l’affidarsi) soprattutto quando gli interlocutori si presentano divisi, frammentati, contraddittori, in perenne competizione tra di loro. Per riconquistare l’attenzione degli elettori (anche dei nostri) bisogna affrontare con determinazione gli effetti deleteri della patologica frammentazione in cui versa la sinistra.
Serve una narrazione comune che non puo che nascere da una proposta coerente ed unitaria, perché alla base di qualsiasi narrazione ci deve per forza essere un progetto politico, un’idea di società e di futuro condivisa. La sinistra, come soggetto collettivo, pur essendo nata da un utopia sociale, sembra, al momento, essere priva della dimensione utopica (o averla dimenticata) e se c’è l’ha, comunque non la racconta più, neanche a se stessa.
Tuttavia, neanche essere in grado di costruire una proposta politica coerente è facile, c’è da misurarsi con un mondo in continua trasformazione e con il fatto di essere immersi in contraddizioni apparentemente irrisolvibili, antinomie su cui bisognerebbe esercitarsi, produrre nuovo pensiero, cercare di fare sintesi. Ci troviamo di fronte a domande aperte a cui è necessario dare una risposta il piu possibile condivisa, approfondire, studiare, confrontarsi. Se ci candidiamo sul serio ad essere forza di governo, siamo in grado di suggerire, proporre, attuare soluzioni credibili?
Il capitalismo ha fallito, ed il suo fallimento è dimostrato in tutta la sua evidenza, da una crisi economico-sociale prodotta dalla voracità di un mercato che dilapida risorse, genera crescente diseguaglianza e conflitti, mette in discussione salute e ambiente, promettendoci un’apocalisse senza futuro, una “dis-tonia” (e non un’utopia). A dispetto di quanto sopra, lo sviluppo economico, quando c’è, garantisce tuttavia lavoro, reddito, autonomia e diritti.
Riusciamo a fatica a difendere i diritti di chi il lavoro ce l’ha, non riusciamo a fare nulla per chi il lavoro non ce l’ha o vive in uno stato di precarietà cronica. La capacita di creare occupazione nel sistema di mercato è legata al capitale e alla sua capacita di intraprendere (se è vero che il lavoro produce plusvalore, come si diceva una volta, è anche vero che esso, allo stato, non è in grado di riprodurre se stesso). Siamo capaci di ipotizzare un’idea diversa e convincente di organizzazione sociale e contemporeaneamente misurarci con le contraddizioni di questo modello di sviluppo e con i legittimi bisogni delle persone?
Se il mercato ha fallito, ha fallito, contestualmente, anche la pubblica amministrazione che ha dimostrato di non saper gestire in modo efficiente il proprio patrimonio, di essere raramente in grado di misusarsi con la sfida della qualità nell’erogazione dei servizi (pur avendo dilapidato ingenti risorse patrimoniali collettive e prodotto un indebitamento crescente). Ora che la strada di ricorrere (sistematicamente) al debito, per finanziarsi, non è piu percorribile, lo squilibrio strutturale dei costi, una gestione dissennata, l’assenza di risorse da destinare agli investimenti necessari, rischiano di mettere in discussione il futuro stesso delle aziende partecipate favorendo l’ingresso dei privati.
Si pone di fronte a noi la sfida dell’efficienza gestionale. Saremo in grado di gestire le societa pubbliche con il rigore di un privato, il quale però cerca, comprensibilmente, di conseguire un margine per se (il profitto) riuscendo ad investire lo stesso “margine economico” (che non dobbiamo conseguire) in maggiore quantità e qualità del servizio per i cittadini e garanzie in più per i lavoratori? Riusciremo finalmente a fare i conti, da sinistra, anche con diritti acquisiti, figli di una stagione clientelare, che sono diventati, nel corso del tempo, rendite di posizione che pesano sulla sostenibilità dei servizi? Soprattutto, siamo ancora in tempo o ci tocca in molti casi limitarci ad operare nella direzione una “riduzione del danno” e provare a “salvare il salvabile”? Fallire la sfida dell’efficienza nella pubblica amministrazione significa dare ragione a chi sostiene la scorciatoia liberista e mercatista e a chi pensa di disfarsi del problema delegando la gestione (oneri e onori) totalmente al privato.
Ultima riflessione, prima di chiudere. Una ricerca di Ipsos alcune settimane fa, condotta su un campione significativo di cittadini europei (in 14 paesi), metteva in evidenza il fatto che la distanza tra percezione dei fenomeni analizzati e dati oggettivi, dimostrata dai cittadini italiani è altissima (la più alta). L’elettore medio italiano ha una percezione della realtà spesso completamente distorta, non si informa, non legge, è vittima fenomeni di analfabetismo di ritorno (non riesce a decodificare un testo mediamente complesso). Ci si confronta così con un bacino elettorale poco o per nulla informato, impoverito anche culturalmente da vent’anni di esposizione al sistema mediatico berlusconiano.
Risulta, in tutta evidenza, che la sinistra è ormai da tempo orfana della sua principale risorsa storica, quella “coscienza di classe”, postulata dai sacri testi, che rendeva il popolo proletario oggettivamente (e soggettivamente) rivoluzionario e “naturalmente” disposto al cambiamento della società. Ci si trova, per di più, a fare i conti con un sostanziale ritiro della popolazione in un individualismo, frustrato e rancoroso (prodotto da una societa che sembra non essere più in grado di garantire quanto ha promesso), che si esprime anche attraverso forme accentuate di disillusione, che si traducono nel fenomeno della delegittimazione della politica, nella polemica sterile e populista, nell’astensionismo.
Non sarà facile, per una sinistra di opinione, ampiamente minoritaria, che si muove in una società liquida, caratterizzata da un progressivo ritiro dalla cittadinanza e da un forte impoverimento, anche culturale, recuperare un significativo consenso. Sinistra senza base sociale e con uno scarso radicamento. Che fare?
La prima cosa da fare è sicuramente modificare il rapporto tra sinistra e società e tra sinistra e territorio, rivedere profondamente le proprie pratiche, ricostruire luoghi di elaborazione, di confronto, di socialità e di produzione di cultura e, soprattutto, essere accoglienti. Non sarà facile ma la strada è obbligata, bisogna insistere sul bisogno di partecipazione e di protagonismo che trapela da alcune meritorie iniziative di cittadinanza attiva, sostenerle e renderle virali, per poter lottare poi efficacemente contro la deriva individualista ed egoista e provare a giocare nuovamente la partita dello spazio comune e dell’egemonia. Chi ha ancora filo da tessere, tesserà, buon lavoro compagni.