La fine della classe operaia (I)

per Gian Franco Ferraris
Autore originale del testo: Fausto Anderlini

di Fausto Anderlini – 14 giugno 2019

Una fatale coincidenza ha voluto che partecipassi a un bellissimo convegno sulla ‘classe operaia’ organizzato in quel di Dorsoduro dai valentissimi Alfiero Boschiero, Gilda Zazzara e Alessandro Casellato mentre in Beccaccino Strasse a Bologna ero intento alla mesta liquidazione dei resti della mia amata famiglia operaia. Sicchè, come talvolta accade, mi son trovato a speculare viaggiando tra me e me. Come che la vicenda esistenziale cui ho partecipato coincidesse come telaio narrativo con più vaste generalizzazioni storico-sociologiche. Qui proporrò alcuni post su questa sinaptica sincronia.

Comincerò dal quadro generale e lo alternerò con quadri esplicativi e reminescenze di dettaglio: micro individuali (classe e mobilità) e meso territoriali (la fine dell’Emilia rossa e l’amore a Napoli dopo l’Italsider). Ne produrrò un tot, per i pochi intimi che vorranno sedersi sotto l’ombrellone piantato nel deserto di questo torrido fine Giugno a spellarsi le meningi e altre interiora percossi da implacabili raggi ultravioletti. Il tema è: la fine della ‘classe operaia’. Con annesse digressioni sull’epoca che vi è succeduta. Cioè l’epoca dei ‘resti’.

Nei Grundrisse Marx aveva capito tutto con una sbalorditiva premonizione. La legge del valore vale fino a che il lavoro vivo è preponderante sul lavoro morto. Il capitale, oggettivato nella macchina e nel dispositivo dispotico della produzione, configura il lavoro come una sua ‘appendice’. Ma se l’operaio capisce d’essere il ‘motore del capitale’ egli cessa di essere ‘forza lavoro’ (Arbeitskraft) e mera potenza valorizzante (Arbeitsvermogen). Si transustanzia nella ‘classe’ e da sfruttato diventa produttore. Si emancipa. Rivendicando alla luce della legge del valore non solo la sua parte come ‘fattore della produzione’, ma tutto il resto. Sino alla potenza dello Stato. Con l’emancipazione la funzione storica della classe si compie in un processo universale di liberazione. Finisce la società divisa in classi e si entra nel regno dell’umanità autentica. Non è solo un gioco di prestigio hegeliano. E’ il fondamento della teoria socialista.

Ma cosa succede quando la composizione organica del capitale cresce a dismisura ? Qui Marx propone due linee di lettura.
Nella prima tiene fede alla legge del valore come ‘economia’ con la quale chiude il terzo volume del Capitale: è la teoria delle crisi cicliche e della caduta tendenziale del saggio di profitto. Periodicamente le crisi distruggono il capitale costante e ripristinano la proporzione con quello variabile che permette la rivalorizzazione (e il saggio di profitto). E siccome ogni crisi ripristina il lavoro come ‘motore del capitale’ ne consegue che ogni crisi avvicina al socialismo.
Ma ce n’è una seconda, solo abbozzata nei Grundrisse. Quando la scienza diventa essa stessa la prima forza produttiva l’astrazione concreta del lavoro vivo diventa misera cosa e la legge del valore crolla. Si danno così le condizioni per le quali l’uomo può liberarsi del lavoro come tale. Siccome alla fatica della produzione provvede la scienza con i suoi automi. Per l’uomo si aprono le porte dell’Eden: il misticismo, la skolé, il bricolage, il godimento….un bengodi immaginato da Marx nei suoi scritti giovanili e che ritorna in molte descrizioni dello ‘stato stazionario’ immaginate dagli economisti classici, da Ricardo a Stuart Mill, e ritrovabili perfino in Keynes (l’eutanasia del rentier).

Negli ’80, in effetti, all’uscita dal capitalismo fordista sembrava che le cose in occidente si avviassero in questa direzione Ne era una prodromica anticipazione la crescita di una vasta classe media dedita alle attività riproduttive sociali e riflessive: la crescita culturale, la sensibilizzazione per i bisogni ‘post-materiali’ sulla scala maslowiana (conoscenza, affetti, relazionalità, identità….). Dopo la classe e il regno del lavoro, una umanità emancipata dedita al consumo dotato di senso, cioè sempre meno mercificato. Ma il neo-liberismo ha fatto strame di queste illusorie sintomatologie. Ha ripristinato la forza bruta, in una concentrazione mai conosciuta sino ad ora, della predazione patrimoniale e ha riaggiogato il lavoro come residuo, appendice sempre più debole della macchina e del sistema di metrcato. In occidente una forza-lavoro frammentata, miniaturizzata e precaria compensata dal lato del consumo con ammannicoli tecnologici e altre cianfrusaglie. Oltre che tenuta in vita dai piccoli censi (vieppiù logori e insicuri) dell’accumulazione patrimoniale diffusa intergenerazionale. In oriente il ripristino della servitù della gleba su scala industriale di massa (un modello anticipato dal Giappone col suo capitalismo samuraico ed aggiornato dalla Cina Confucio-comunista).

Dopo la classe operaia l’epoca che si è aperta e quella di una forza di lavoro eterogenea e senza speranza di emancipazione. Il capitalismo senza classe operaia. Con un’unica classe autocosciente: quella dei possidenti.

A seguire: chi era la ‘classe operaia’ e dove sono finiti i miei amici d’un tempo.

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