UCCIDERE UN UOMO MORTO CHIAMATO EMILIO SALGARI

per Filoteo Nicolini
Autore originale del testo: Giovanni Chiara

UCCIDERE UN UOMO MORTO CHIAMATO EMILIO SALGARI

Pubblicato sul giornale di informazione e cultura della zona Quattro di Milano, marzo 2024

Più di mezzo secolo fa, in pieno “cretinismo extraparlamentare” sessantottino (la definizione viene dal PCI) capitai in un dibattito finalizzato a mettere all’indice gli scrittori “fascisti” di cui si doveva “democraticamente” evitare la lettura, pena il venire considerati fascisti a propria volta, il che, all’epoca, non era rischio da poco. Avrei fatto atto di presenza soltanto se cloroformizzato e incaprettato, ma c’erano di mezzo i disonesti intendimenti che mi animavano nei confronti di una delle relatrici, per amore delle cui rivoluzionarie grazie già stavo digerendo di tutto e tanto valeva digerire anche quella. L’elenco dei proscritti comprendeva Gabriele D’Annunzio, Luigi Pirandello, Giuseppe Ungaretti, Indro Montanelli e altri di cui ignoravo l’esistere. Seguivo con svogliatezza, ma quando venne fatto il nome di Emilio Salgari balzai in piedi. «Ma Salgari è morto prima del fascismo!» urlai. Seguirono attimi di risentito sgomento, e poi la democraticissima sentenza: «Era comunque fascista perché scriveva porcate fasciste». Ora, io con i libri di Salgari sono cresciuto, e a loro sento di dovere parte della mia disastrosa carriera di studente, dato che a quelli scolastici riservavo solo inadeguati rimasugli temporali. Ed ecco come Emilio Salgari (1863-1911) è presentato dai suoi biografi Giovanni Arpino e Roberto Antonetto: «Un uomo, un omino anzi, con un destino gigantesco. Un narratore che vive incatenato al suo tavolino, un “capitano” che non ha mai viaggiato, un suicida figlio di suicidi e padre di due suicidi. Un italiano che in quella Italia giolittiana viene esaltato, strumentalizzato, negletto, deriso, amato alla follia». È questo l’uomo che la mattina del 25 aprile 1911 uscì dall’abitazione di corso Casale 205, a Torino, per togliersi la vita a colpi di rasoio. Ai suoi editori lasciò scritto: «Voi che vi siete arricchiti colla mia pelle mantenendo me e la famiglia mia in una continua semi-miseria od anche più, chiedo solo per compenso dei guadagni che vi ho dati pensiate ai miei funerali. Vi saluto spezzando la penna», eroico come uno dei figli della sua cavalleresca fantasia. In realtà, il “capitano” non aveva mai capitanato niente, e la sua unica esperienza di mare era stata sopra una nave che in tre mesi aveva toccato i porti commerciali dell’Adriatico. Al titolo però teneva, e quando il giornalista Giuseppe Biasioli glielo contestò, lo sfidò a duello e il 25 settembre 1885 lo ferì. Perché Emilio era uno spadaccino di qualche qualità, un buon tiratore, un assiduo canottiere e un volenteroso pugile. Furono il tramonto della giovinezza e le cento sigarette quotidiane a ridimensionarne la verve atletica. Ebbe una vita faticosa, dalla natia Verona a Torino, passando per la Genova densa dei racconti di chi davvero sull’acqua tirava l’esistenza. Si sposò con Ida, ebbe quattro figli, e la famiglia da mantenere fu l’assillo di ogni giorno. Fino alla pazzia della moglie, e all’epilogo a colpi di rasoio. Stroncato dal mondo letterario, faceva la fortuna degli editori, che gli lasciavano le briciole. Scrisse 82 romanzi e 120 racconti. Quanto ai loro contenuti, è vero che il fascismo cercò di accaparrarsi la memoria dello sventurato autore per farne un cantore dell’Italia dominatrice del mondo, ma gradualmente il regime dovette ricredersi. I romanzi salgariani sono carichi di avversione nei confronti del colonialismo, e non basta. Mussolini scandiva a mandibola quadrata che il popolo italiano era di pura razza ariana e condannava le contaminazioni razziali; invece Sandokan sposa l’inglese Marianna, e la stessa cosa fa Tremal-Naik con Darma, mentre il fraterno amico Yanez, portoghese, impalma una principessa indiana, Surama, ridotta in schiavitù e perciò lungi dall’illibatezza che i maschi italici esigevano dalle proprie donne, e perfino il capo dei sanguinari thug, Suyodhana, si innamora di una donna bianca da cui avrà un figlio, sir Moreland, che tanto filo da torcere darà a Sandokan prima di diventarne amico per amore della figlia che il bengalese Tremal-Naik ha avuto dalla bianca Darma. Né manca la più indigesta delle ciliegine sulla torta, visto che ne I predoni del Sahara il protagonista, un nobile francese, non solo in Marocco salva un ebreo dal linciaggio, ma si innamora della di lui sorella, Ester, e dopo molteplici e sabbiose avventure la porta in Corsica per farne “la più bella e la più invidiabile sposa dell’isola”. Era una visione del mondo che non poteva piacere al regime, sicché lo scrittore dopo le leggi razziali cominciò a uscire dalle biblioteche scolastiche. Salgari scrisse di ogni continente, ma l’amore “paterno” fu per l’eroe degli eroi, Sandokan, la Tigre della Malesia. Sandokan è nato dalle vicende di un reale personaggio, James Brooke (1803-1868), avventuriero inglese che fra il 1843 e il 1849 condusse una campagna contro la pirateria che infestava le rotte delle Isole della Sonda, acquisendo la nomina a ràjah di Sarawak concessagli dal sultano del Borneo. I pirati erano spietati, e Brooke li ricambiò scatenando sui loro covi le tribù dei Dajak tagliatori di teste. Salgari ne fu colpito, ma come eroe del ciclo malese anziché il bianco “buono” scelse il pirata Sandokan. Dopo la II Guerra Mondiale per Salgari ancora qualche guizzo di interesse editoriale, poi l’oblio. Ma nel gennaio 1976 la Tigre della Malesia ruggì dagli schermi televisivi. Fu l’evento e insieme il disastro. I salgariani sopravvissuti videro oltraggiare le lontane emozioni da uno sceneggiato tenuto in vita solo dalla prestanza fisica del Sandokan di Kabir Bedi e dalla raffinata bellezza della Marianna di Carole André, note positive offuscate reinventando personaggi altrimenti fondamentali quali Tremal-Naik e Kammamuri, ridotti a macchiette che degli originali avevano solo il nome, con il di più sgangherato dello Yanez di Philippe Leroi che con una pistoletta Deringer a due colpi, dalla portata di pochi metri, colpiva a raffica e a stadi calcistici di distanza i nemici neanche avesse un kalashnikov, e così via, con irritante infedeltà. Per chi non aveva letto gli originali il disinvolto sceneggiato divenne pietra miliare, con il risultato di uccidere un uomo morto e malamente seppellirlo. Acqua passata. I giovani di adesso, quando riescono ad alzare lo sguardo dallo smartphone, ammesso che leggano qualcosa certo non leggeranno mai i romanzi di Emilio Salgari. I tempi cambiano, e Sandokan e il Corsaro Nero hanno fatto il loro, regalando a generazioni di sognatori ingenui le più improbabili avventure. Ma sognare quei sogni, per noi che ormai sappiamo che si pronuncia Salgàri, ma continuiamo a dire Sàlgari, è stato bello.

Giovanni Chiara – Storia di Storie

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