La metamorfosi di Luciano Canfora

per Gian Franco Ferraris
Autore originale del testo: Fausto Anderlini
La metamorfosi
[Considerazioni sull’ultimo libro di Luciano Canfora. Una diluviale recensione che nessuno è tenuto a leggere. Scritta di mio pugno ma con il contributo di Marcella Mauthe che mi ha dischiuso aspetti del cossuttismo che non avevo considerato con sufficiente attenzione].
Canfora si chiede il perchè di una metamorfosi che ha portato gli eredi del Pci ad abbracciare valori opposti a quelli delle origini: cioè il liberismo, annacquato in un esangue europeismo, invece del socialismo. Con la ‘democrazia americana’ come paese guida in sostituzione della casa madre sovietica. Con le classi medie della ztl come target sociale lasciando ad altro destino la base popolare inscritta nel telos della sinistra storica. L’approccio di Canfora è esclusivamente idiografico, si limita cioè al giudizio sui gruppi dirigenti e trascura ogni riferimento a dinamiche di struttura.
Togliatti e Berlinguer
La spiegazione che da della metamorfosi si condensa in un assunto; la mancata presa d’atto che il Pci rifondato da Togliatti nel ’44 come Partito Nuovo implicava un naturale sviluppo come socialdemocrazia. Tanto il compromesso storico che la diversità comunista rivendicata da Berlinguer sono individuati come un deragliamento dalla linea socialdemocratica togliattiana. Di fatto un vicolo cieco foriero delle metamorfosi in seguito succedute. Di fronte alla grandezza di Togliatti Canfora propone un ritratto politico di Berlinguer impietoso e in compiaciuta contro-tendenza rispetto alla beatificazione in auge nei posteri.
Corsi e ricorsi
La tesi non è nuova. Coincide per un verso con la lettura critica a suo tempo sviluppata dalla corrente ‘migliorista’ sensibile al richiamo dell’unità socialista (sebbene larga parte di questa corrente, Napolitano in testa, sia poi approdata a un enfatico liberalismo atlantico). Mentre per l’altro verso rende ragione alla più prosaica critica liberale al Pci per la mancata realizzazione di una conclamata Bad Godesberg. Una tesi, però, nella quale si riflette anche un lato emblematico della biografia politica del grande storico, nel sodalizio che lo legò ad Armando Cossutta e al suo PdCI. Nel tortuoso differenziarsi e sovrapporsi delle diverse ‘tendenze’ che articolavano il gruppo dirigente comunista. Con sviluppi paradossali. Tanto i cossuttiani che i miglioristi di matrice amendoliana furono ostili a quel tardo corso berlingueriano nel quale invece si identificarono gli ingraiani (al punto che lo stesso gruppo del Manifesto rientrò nei ranghi). Nei fatti Cossutta si fece interprete di un amendolismo integrale basato sul gradualismo riformista (intrinsecamente moderato). Il tratto di differenza (seppure con elementi controversi: si ricordi che Amendola fu favorevole all’invasione dell’Afghanistan….) fra cossuttiani e miglioristi essendo che i primi inclinavano alla fedeltà all’Urss e alla preservazione della ‘diversità’ comunista (quale sintetizzata nell’esperienza togliattiana delle origini piuttosto che nella versione di Berlinguer) mentre i secondo pendevano per la risoluzione dell’esperienza del Pci nell’Unità socialista. E già questo rilievo vale per segnalare le aporie nelle quali a mio parere si impania la riflessione di Canfora. Giacchè il gradualismo democratico-nazionale del ‘Partito nuovo’ era intrinsecamente correlato al carattere ‘comunista’ del partito.
Luci e ombre
Ma andiamo con ordine, seguendo l’impianto di analisi delineato dallo stesso Canfora. Impianto ‘forte’, anche dove è discutibile. I pensieri più importanti non sono quelli perfetti ma quelli che lasciano visibili le lacune. E’ così infatti che invitano a ragionare.
La svolta di Salerno
Nella svolta di Salerno Togliatti da prova di tutta la sua previdenza politica: dislocare per tempo il partito sulla soglia che va dischiudendo una nuova, completa, legittimazione democratica. Una ricollocazione che Togliatti inquadra nel segno di un progetto di sistema a base consensuale (quale si compirà con la Costituzione del ’48). Togliatti già pensa in chiave Costituente.
Partito di integrazione sociale
Con il Partito Nuovo egli pone il Pci sulla stessa linea del socialismo come movimento volto all’integrazione sociale e politica delle classi subalterne. Il partito che si rivolge a una vasta base nazional-popolare e si offre ad essa come canale di socializzazione e identità, ovvero rappresentanza, nel mentre si pone come centro di direzione e di sintesi di una molteplicità di adesioni organizzative: sindacato, cooperazione, associazionismo economico, sportivo, culturale, di genere. Processi di socializzazione che proprio in virtù di questa ‘centralizzazione’ politica operata dal partito di massa acquistano un nuovo dinamismo. Una popolazione politica che si dà un proprio statuto autonomo, dotata di una sua Bildung, un proprio distintivo mondo espressivo nel mentre il partito si impegna a far valere la domanda sociale verso lo Stato rivendicando un ruolo delle masse all’interno delle istituzioni democratiche. In questo modo il Pci così rifondato occupa obiettivamente in chiave concorrenziale lo spazio che era stato del movimento socialista in epoca pre-fascista (sulla soglia della prima legittimazione democratica), ma anche surrogato dal corporativismo social-fascista (cruciale l’investigazione condotta con le Lezioni sul fascismo).
Partito del territorio
Non per caso il Pci realizza il suo insediamento assumendo il territorio (prima della fabbrica) come spazio referente, saturando ambiti sociali del mondo rurale rimasti inevasi nell’esperienza socialista (vedasi il caso dei mezzadri nell’Italia di mezzo). Così, per sommo paradosso, il Pci che era nato sulla base urbano-industriale, cioè operaista, dell’esperienza Ordinovista riemerge mettendo radici nel mondo del proletariato (e del semiproletariato) rurale, in interfaccia con la Democrazia Cristiana che ha il suo referente di massa nei piccoli conduttori agricoli.
Marx-Lenin-Gramsci
In una lettera del 9 aprile del ’44 ai compagni rimasti in Urss (in La guerra di posizione in Italia) Togliatti, che è appena sbarcato a Napoli, si premura che gli siano inviati i manoscritti di Gramsci per pubblicarli. Dimostrazione di come già egli avesse a mente di fare dei ‘Quaderni’ una sorta di vangelo culturale del Partito Nuovo. Piegando lo schema del marxismo leninismo alla duttilità di uno ‘storicismo’ capace di aderire alla peculiarità della storia nazionale e più in generale europea.
Guerra di posizione
La scelta gradualista e democratica che Togliatti viene precisando nel biennio ’44-’46 vale per rapporto a una situazione che vede il Pci soggetto attivo di governo (con funzione ‘trainante’, nelle parole di Togliatti) nell’alleanza antifascista, ma a maggior ragione vale quando la prospettiva collaborativa si chiude con la guerra fredda e si entra in una fase di ‘guerra di posizione’ per la quale l’insegnamento gramsciano della lunga durata della lotta per l’egemonia si fa ancor più stringente.
Partito stato, partito chiesa
Il Partito nuovo è un partito aperto, popolare e orientato all’integrazione. Un partito di massa anzichè di quadri. Plastico e aderente al vissuto quotidiano. Cionondimeno un partito con una fortissima istituzionalizzazione: con una struttura gerarchica e ricorsiva, un corpo funzionariale, un’organizzazione capillare per ambiti funzionali e territoriali. Il partito come uno Stato parallelo. Nel progettare il Partito nuovo Togliatti non ha davanti gli altri partiti, semmai la Chiesa della controriforma, con la quale peraltro il partito condivide la rilevanza tributata agli aspetti simbolico rituali (feste, processioni, culti funerari, ruoli carismatici d’ufficio, finalità trascendenti e altra iconografia). Perciò anche Partito Chiesa.
Socialdemocrazia tedesca
Nel mentre il Pci fa proprio il retroterra socialista (ivi compresa l’istanza del socialismo municipale) il Pci si differenzia in modo marcato dall’esperienza dei partiti socialisti ‘latini’ e mediterranei. Partiti con organizzazione lasca, scarsa istituzionalizzazione, articolazione correntizia e corpose cristallizzazioni notabiliari. Semmai il modello comunista togliattiano ha molti tratti comuni con le socialdemocrazie nordiche e in specie con la socialdemocrazia tedesca nell’epoca guglielmina (magistralmente tipizzata da Guenther Roth). Un partito d’integrazione, a forte istituzionalizzazione e con una burocrazia funzionariale estratta dal proprio mondo sociale è naturalmente incline al riformismo e al gradualismo. L’organizzazione è tutto e non può essere messa a repentaglio da iniziative avventuriste.
La giraffa social-comunista
Se si può usare un’espressione di sintesi il Partito nuovo è un sincretismo: una socialdemocrazia nordica realizzata nello stile barocco della contro-riforma. Un’ibridus strano e zoomorfico (la ‘giraffa’ evocata ironicamente da Togliatti contro La Malfa) che però aderisce splendidamente all’ambiente nel qiuale si alimenta. Una assoluta originalità. Perciò ha ragione Canfora quando considera il Partito Nuovo una vera e propria ‘rifondazione’, un nuovo inizio che lo ricolloca nell’alveo lungo del riformismo socialista (persino turatiano). E ha ragione anche nel rivendicare la linearità di Togliatti di contro alle accuse di doppiezza e tatticismo. E tuttavia in questo solco il Pci ci entra in guisa anomala. Perchè il Pci rifondato resta pur sempre comunista e leninista (seppure a suo modo). Infatti resta ancorato allo Stato guida (cioè non rompe con la legittimazione esterna derivata dall’Urss), si avvale del centralismo democratico e nulla concede allo spontaneismo. La coscienza resta collocata all’esterno della vita sociale, sintetizzata da un gruppo dirigente a forte connotazione intellettuale, diversamente dal corpo dei quadri d’estrazione popolare. La testa lungimirante della giraffa collegata al corpo sociale dal lungo collo. Inoltre la riformabilità immediata della realtà concreta in funzione dei bisogni delle masse (sino al minimalismo) non esclude la visione di un mondo trascendente: il comunismo come un oltre dalle tinte escatologiche. Ovvero la rivoluzione come ‘attesa’ e parusia. Anche in questo qualcosa di opposto alla rivoluzione come atto insurrezionale, ma anche in sintonia con le correnti profetico-messianiche del socialismo delle origini. Ancora nei ’50, diversi anni dopo la ‘svolta’, il diamat marx-leninista ad uso catechistico era molto diffuso nelle pubblicazioni rivolte alla base del partito. Le lotte di massa avevano un marcato carattere difensivo, come tali un ripiegamento che rafforzava la sindrome dell’attesa. Una scissione fra la pratica immediata e l’aspettativa di un mondo nuovo, collocato in un tempo indeterminato, che peraltro aderiva perfettamente al modo d’essere di quel proletariato rurale che era prevalente fra gli iscritti e gli elettori del Pci. La sistematizzazione pedagogica del gramscismo-togliattismo nella formazione dei quadri arriverà solo dopo la morte di Togliatti. [Ancora nei ’60 quando frequentavo l’Istituto Marabini che Togliatti aveva inaugurato scortato da mio padre (era proprio nelle vicinanze di casa) un insegnante si peritò di avviarmi allo studio dei Principi del leninismo di Stalin (un testo, peraltro, di grande chiarezza espositiva)…..]
La mancata riunificazione
In sintesi se con la svolta di Salerno il Patito Nuovo occupa lo spazio classico di una socialdemocrazia nazionale nello stesso tempo marca la sua novità tanto verso le sue origini quanto verso l’interprete storico di quello spazio, cioè il partito socialista.
Questo spiega perchè il Pci non farà mai, neppure con Berlinguer negli ’80, la tanto invocata Bad Godesberg. Perchè, in realtà, la Bad Godesberg il Pci l’aveva già fatta a Salerno, abbracciando la via democratica e gradualista del riformismo e mettendo Gramsci fra Marx e Lenin (se non sopra o contro), esattamente come la socialdemocrazia tedesca aveva issato Popper al di sopra di Marx. Un’altra ‘svolta’ avrebbe comportato la messa in discussione della sua stessa rifondazione. Lo stesso invito a una riunificazione dei due partiti (tema caro agli amendoliani) resterà lettera morta. Pur aderendo al gradualismo democratico, in sintesi, Togliatti non confluì nel Psi e semmai avrebbe potuto annetterlo, considerato il credito che il movimento comunista poteva vantare nella lotta al nazi-fascismo. Decise piuttosto di realizzare un ‘Partito nuovo’. Laddove il Pcf, che pure usci dalla resistenza con l’aura eroica del ‘partito dei fucilati’ restò nella sua configurazione terzinternazionalista (del resto in Francia invece di Mussolini c’era stato Leon Blum…).
Il compromesso storico
Che Berlinguer, come sostiene Canfora, abbia non solo rinunciato a trarre le conseguenze della svolta togliattiana ma addirittura deragliato da essa è una tesi con scarso fondamento. Preparata dalle riflessioni sui fatti del Cile, cioè sotto l’assillo di un ritorno reazionario analogo a quello che guidò Togliatti, la linea del compromesso storico si inscrive totalmente nell’alveo dell’incontro costituzionale avviato da Togliatti. La stessa linea dell’austerità, sebbene argomentata con spunti ecologisti e francofortesi, è nel solco dell’unica politica economica propugnata dal Pci, che mai accolse Keynes nel proprio pantheon: le cosiddette ‘riforme grano’, la lotta alle rendite, fondiarie, monopolistiche e parassitarie, l’allargamento della base produttiva e del lavoro produttivo. Semmai si può dire che Berlinguer porta a compimento le premesse del partito nuovo. Ma il fallimento del compromesso storico rivela anche il limite insuperabile di quella strategia e i vincoli che l’ancoravano a una fase storica nazionale e internazionale (la costruzione democratica e l’integrazione delle masse nello Stato vigente il blocco della conventio ad excludendum) e a una precisa composizione di classe (quella della transizione agrario-industriale).
Né sembra aver fondamento l’accusa a Berlinguer di aver rinunciato, col compromesso storico, a far proseliti fra i cattolici, se è vero che proprio con Berlinguer si rafforzò la presenza e il dialogo coi ‘vituperati’ ‘catto-comunisti’ adunati attorno alla Rivista Trimestrale e altre riviste cattoliche.
Difensiva
E’ indubitabile, come bene argomenta Canfora, che l’alternativa adottata da Berlinguer dopo il fallimento del ‘compromesso’ e l‘arretramento delle elezioni del ‘79 è il surrogato di una linea politica. Bisogna però dire che lo spazio per un rilancio politico era angusto. Per quanto la società fosse incamminata sul sentiero di travolgenti trasformazioni i vincoli del sistema politico si erano addirittura rafforzati. La svolta del Psi craxiano (in senso neo-centrista e con forti risvolti liberal-revisionisti) e la formula pentapartita costringevano il Pci in una condizione di riaccentuato isolamento, dal quale non avrebbe potuto trarlo alcuna Bad Godesberg. Il ricongiungimento dei due partiti di ispirazione socialista era ancor più improbabile che negli anni ’60. Perciò la linea berlingueriana si acconcia in chiave difensiva, aderendo a quelle condizioni di ‘attesa’ e ‘posizionamento’ già previste, come sottovariante, nel piano togliattiano del Partito nuovo. Ogni tentativo di uscire dall’angolo si rivela infruttuoso. Con l’avanzare della ristrutturazione post-fordista va in sofferenza la tenuta dell’insediamento sociale. La lotta alla Fiat e per la difesa della scala mobile sanciscono sconfitte cruciali. In attesa di una improbabile democratizzazione del blocco sovietico il tentativo di lanciare un euro-comunismo emancipato dall’affiliazione al blocco sovietico e a guida italiana si rivela un ramo morto. Sicchè il Pci rimane pietrificato in una specie di terra di nessuno, uno scisma mai interamente consumato, una eresia locale invisa tanto agli Usa che all’Urss. Infine il tentativo di accogliere e integrare nella propria cultura politica le tematiche post-materialiste, specie dopo il trauma del ’77, trova un limite nella stessa forza del processo di individualizzazione che investe la società.
La diversità comunista
La diversità comunista, non una teologia ben definita, ma un modo peculiare di vivere eticamente il rapporto con la politica e il legame sociale, corrisponde al tentativo di tenere la difensiva in una fase di cambiamento legando in una narrazione identitaria surrogatoria i frammenti di linee d’azione problematiche se non deficitarie. Questa conversione è favorita per contrappunto dalla stessa involuzione che sta interessando il sistema dei partiti, ormai ridotti a macchine di potere largamente permeate dall’illegalità. Ma è anche in certo senso obbligata. Per quanto indebolito dopo il grande slancio della metà dei ’70 il Pci resta un organismo ancora possente, sia per numero di iscritti che di voti. E’ perciò naturale che inclini all’autoconservazione piuttosto che a rotture e drastici mutamenti nel profilo identitario e organizzativo. Diversa sarebbe stata la situazione, forse, se il Pci si fosse trovato di fronte a un problema di sopravvivenza analogo a quello che colpì il Psi inducendolo alla presa di potere del Midas. Berlinguer, in sintesi, si trova a dover difendere l’eredità democratica stessa del Partito Nuovo togliattiano nel mentre esperimenta il limite intrinseco della strategia politica della ‘lunga marcia’ attraverso le istituzioni democratiche. Il ‘nodo’ poteva essere tagliato solo da un evento esterno: cosa che avvenne con l’89.
L’occasione mancata del Pds
La prima occasione di una piena emancipazione del proprio carattere socialdemocratico si dà con la creazione del Pds. Ma la linea della corrente riformista orientata all’unità socialista trova un limite invalicabile nel carattere terminale dell’involuzione del Psi e nelle condizioni poste da Craxi (una vera e propria sottomissione). Il nuovo partito non avrebbe mai potuto denegare in toto la materia da cui proveniva (già la retorica della ‘parte migliore’ era di per sé una cospicua diminutio). E cioè il continuum del Partito nuovo da Togliatti a Berlinguer. Lo stesso XVIII congresso che suffraga la segreteria occhettiana si colloca nel solco dell’alternativa tardo berlingueriana accentuando la ricezione di temi del radicalismo post-materialista (vedasi i referendum promossi assieme alle associazioni ambientaliste). Assunti, questi ultimi, come base critica dello stesso impianto ‘pesante’ del Pci, socialdemocratico nella prassi politica e burocratico-comunista nello stile organizzativo. Già è un partito che comincia a guardare oltre sé stesso, ma anche oltre l’esperienza dei partiti socialisti. Temi che si ritrovano, ulteriormente sviluppati, nell’impianto della ‘svolta finale’ e della fondazione del Pds: l’enfasi sui principi democratici dell’89, la critica del partito burocratico, la critica del consensualismo consociativo (prodromica alla svolta maggioritaria), l’adesione a molti temi dell’agenda post-materialista Iglehartiana, l’elogio dell’intransigentismo legale, dell’eclettismo, della ricerca carovaniera, della ‘contaminazione’ con altre culture…..Un partito che oscilla, come nella critica avanzata tanto dagli ostili alla svolta (il fronte del No di matrice ingraiana residuato nel Pds) quanto dall’ala migliorista, verso l’indeterminazione di un ‘partito radicale di massa’. Paradossalmente è un impianto rifondativo che attinge molto dal lascito berlingueriano, specie nella sua irriducibilità all’unità socialista. E lo fa proprio nel momento in cui lo libera di ciò che a Berlinguer era più caro: l’involucro della ‘diversità comunista’. In questo senso, sia pure per linee traverse e solo su questa direttrice analitica, mi sento di concordare con la lettura critica di Canfora. Ma è un rilievo che vale non per Berlinguer, bensì per i berlingueriani. Tutti erano troppo protesi in avanti per non inciampare.
L’ultima occasione
Quando in quell’infuocato consiglio nazionale del luglio del ’94 D’Alema prese la segreteria del Pds sembrò fosse giunto il tempo, La scomparsa del Psi in seguito a tangentopoli rendeva disponibile tutto lo spazio per il varo di un partito social-democratico classico: riformista e socialmente radicato, affiliato all’Internazionale socialista, sebbene adeguato alle nuove configurazioni sociali. In effetti così diede a intendere D’Alema e così procedette sino al cambio del nome nei Ds, recuperando anche diversi esponenti della diaspora socialista. Tuttavia l’ascesa alla presidenza del Consiglio (con Veltroni subentrante come segretario di un partito che neanche sapeva denominare…) e l’adesione alla politica blairiana finirono per vanificare l’intento. Più a fondo, tuttavia, il Pds aveva ormai assunto una configurazione duale. Fra i quadri dirigenti intermedi sul territorio la componente orientata all’idea di un partito a forte connotazione radico-liberale, azionista e post-ideologica era di fatto preponderante (come rivelò la consultazione che anticipò la sfida nel consiglio nazionale). Tale dualismo, impersonato da Veltroni e D’Alema, avrebbe potuto perdurare e anche arricchire la dialettica in un nuovo partito socialista. Ma una componente, quella veltroniana, guardava ormai decisamente oltre il Pds-Ds e poteva avvalersi del potente supporto esterno di Repubblica e del suo gruppo di potere. In concerto con l’evoluzione in atto nella Margherita, anch’essa percorsa dalla spinta americanista del prodismo. Tutti erano berlingueriani a modo loro. Sembrava un viaggio verso l’ignoto, invece fu la riscoperta dell’America.
La fine dell’arte della manutenzione
Per riprendere la lunga durata della cultura togliattiano turatiana sarebbe stato necessario un nuovo slancio organizzativo, un corpo a corpo con la società e le sue domande di senso (seppure non più di integrazione). Ma nella nuova generazione politica, tutta d’estrazione sessantottesca, albergava uno spirito più discussorio, se non politicante, che costruttivista. Lo stesso D’Alema non impegnò che poche energie nella costruzione della sua socialdemocrazia di nuovo conio. A parte una perenne autoriflessione, tutto inclinava verso l’esterno, l’apertura, le competenze, le novità, la nuova società civile, l’acquisizione di nuovi interlocutori non aderenti. Andare oltre sé stessi, aggiornarsi, discutersi, mutarsi. La stessa base militante ereditata dal Pci era sentita come una zavorra che richiedeva attenzioni ed energie che era meglio indirizzare altrove. Ma un partito coincide con la sua manutenzione, se vuole perdurare come un fine anziché un mero strumento. Fare, curare l’organizzazione è il suo Zen. La sua necessaria autoreferenza. Un aspetto che era intrinseco al Partito Nuovo togliattiano dove l’organizzazione era il dicastero più importante nella segreteria e massima era la cura che a ognuno fosse affidato un compito. Nell’attendere all’organizzazione e alle sue pratiche (certo studiare, discutere e lottare stoicamente per obiettivi, ma anche fare tessere, riscuotere quote, diffondere il giornale e altra propaganda, allestire sedi, officiare i riti, seguire le onoranze funebri, impiantare feste, distribuire coccarde, cuocere salsiccie, mettere banchetti, istruire gli scrutatori ai seggi ecc, ovvero organizzare masse e adunare gente) il membro del partito realizza la sua vocazione sociale e rovescia il rapporto di dipendenza e alienazione che lo vede sussunto e cosificato nella società. Il fenomeno della sociabilità, studiato da Aughulon e ripreso nei suoi studi storici dall’amico Maurizio Ridolfi, che la cultura liberale ed èlitista disprezza come una vita da sagrestia..
[Quando mio padre andò in pensione approfittò del tempo libero per edificare una sezione in uno dei pochi territori sguarniti della città: la sezione Lenin sulla strada collinare di Casaglia. Radunò alcuni ragazzi e impiantò una festa de l’Unità nuova di zecca dove non c’era mai stata. Era un uomo felice.]
La stilografica di Togliatti
Per comprendere questi stravolgimenti non si possono certo ignorare le profondissime mutazioni insinuate in ogni ambito della società dal capitalismo nell’era globale della suprema finanziarizzazione. Più a fondo il passaggio dagli effetti aggreganti dell’industrializzazione a quelli frammentari e individualizzanti della post-modernità. La traiettoria del partito di massa affonda le origini nel mondo agrario e si compie con la trasformazione industriale fordista (il ‘finale di partito’ stigmatizzato da Marco Revelli). L’ultimo passaggio nella interminabile transizione del mondo agro-letterario, col Capitale di Marx come l’ultimo libro (e i Quaderni di Gramsci come nuovo testamento). Il partito democratico di massa si basa su tre veicoli comunicativi che sono la quintessenza della sua organizzazione: la narrazione orale diretta vis a vis, la simbolica iconografica e la scrittura. Arti nelle quali Togliatti era maestro. Un’oratoria scabra ma pregnante, aliena all’istrionismo e una vocazione alla scrittura epistolare che egli esercitava con nitida precisione e per mezzo di una penna stilografica con inchiostro blu (anzi no, verde, come mi vien fatto notare da esegeti ben più accorti di me). Missive, ordini, dispacci, solleciti, informazioni, note, comunicati. Orientati al governo, dello Stato, del partito, delle anime. Ed è tramite questi mezzi che si definiva la dignità dell’iscritto. In ogni sezione il centro del locale era lo scrittoio in radica o altro legno nei cui cassetti erano consegnati i registri degli iscritti (lo status animarum) e dietro la quale sedeva il segretario. Con al fianco la bandiera tessuta e ricamata dalle compagne. Cosiccome nella federazione il centro era il palco oratorio affiancato al tavolo della presidenza e in fronte alla sala del federale. L’invariante forma scenica del Congresso: momento supremo di sintesi orale e cartacea della politica.
La demolizione
Con l’avvento della società mediatica gran parte di tutto ciò è evaporato o andato perduto per naturale obsolescenza. Ma l’opera demolitoria operata dagli eredi transitati nel Pd è andata oltre ogni immaginazione. Una vera iconoclasi, che ha fatto dell’iscritto un reietto e dell’organizzazione una tabula rasa. Era tutto scritto ? Non credo. Un modo di affrontare i cambiamenti è anche quello di resistere ad essi. E capita spesso che la dialettica paretiana fra spirito degli aggregati e delle combinazioni porti risultati proficui e originali, laddove la semplice aderenza alle tendenze finisce per selezionare la parte peggiore che le riguarda. Ma così non è andata. Ha prevalso la furia innovativa, sino a fare della propria biografia una colpa o una irenica dimenticanza. Così si è arrivati alla metamorfosi deprecata da Canfora. La colpa non fu di Berlinguer, l’ultimo togliattiano in una transizione non più tracciabile in quegli insegnamenti, ma dei berlingueriani e del loro intellettualismo. Ai quali, però, me medesimo, non può essere imputata alcuna colpa se non aver vissuto il tempo di Enrico. E’ andata così.
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