L’emergenza Covid-19 ha evidenziato in modo lampante le incoerenze e le insufficienze del sistema di regionalizzazione del Servizio Sanitario Nazionale.
Appena dopo la comparsa dei primi focolai di diffusione del coronavirus in vari territori della Lombardia, del Veneto e dell’Emilia, la esigenza di assumere decisioni coordinate, appropriate e veloci si è scontrata con le auto rappresentazioni che i governatori delle diverse regioni (in particolare quello della Lombardia) hanno del proprio ruolo in relazione al governo del sistema sanitario.
Così più voci hanno dato l’incipit alla campagna per dichiarare la bancarotta del modello di Servizio Sanitario regionalizzato rispetto ai provvedimenti di salute pubblica da prendere contro il diffondersi dell’epidemia.
Tale presa di posizione deriva dalla delusione generata da diversi episodi accaduti in seguito al propagarsi del contagio, tutti ricondotti a una ipotesi di base: se lo Stato avesse conservato un maggior potere, gli avvenimenti sarebbero andati meglio.
Tale convincimento è alimentato dall’opinione che le Regioni abbiano agito troppo in ordine sparso, dalla confusione per le eccessive contrapposizioni tra alcune di loro e l’amministrazione dello Stato e dalla diffusa convinzione che, se il contagio si fosse diffuso nelle regioni meridionali dove oggettivamente i sistemi sanitari sono più deboli, le conseguenze sarebbero state tragiche.
Ma prima di affrontare il problema più stato in sanità è necessario fare una premessa.
Le vere criticità del SSN rispetto alla pandemia di Covid-19 provengono dal 2011, anno di inizio del processo di definanziamento del SSN in sintonia con le politiche di austerity precedenti al 2010 e quelle del governo Monti.
Nel periodo 2010-2019, tra tagli del personale e definanziamenti, il SSN è stato privato di circa 37 miliardi di euro e il fabbisogno sanitario nazionale (FSN) è aumentato di soli 8,8 miliardi di euro.
Sono circa 70.000 i posti letti che sono stati cancellati nell’ultimo decennio facendo sì che l’Italia abbia un numero di posti letto pubblici inferiore alla media europea. Gli indicatori sulla base dei quali i direttori della sanità regionali hanno adeguato e ridimensionato con i tagli di posti letto e chiusura di reparti la spesa sanitaria, per renderla accordabile con il definanziamento, non hanno preso in considerazione delle necessità per fare fronte ad eventi imprevisti, ma prevedibili come, appunto, una epidemia. Per esempio una riserva di posti letto nelle strutture pubbliche attrezzati per la terapia intensiva doveva essere programmata.
La pratica del definanziamento spinta fino al massimo possibile, a stento conciliabile con una gestione ordinaria senza eventi emergenziali, ha praticamente reso esposto il SSN e non capace di sopportare una esplosione di ricoveri di pazienti bisognosi di terapia intensiva e rianimazione.
Ma ora torniamo a bomba.
La crisi generata dalla pandemia da Covid-19 può essere affrontata con migliori risultati da un Servizio sanitario nazionale gestito dal governo centrale o da un Servizio sanitario nazionale articolato e decentrato basato sui governi regionali?
La mia convinzione è che, con un maggiore influenza e peso dello Stato, considerando la parte a cui sono più interessato (i servizi sociosanitari per gli anziani non autosufficienti), si potrebbero raggiungere molti obiettivi.
Primo tra tutti un rafforzamento dell’equità. Un ruolo più forte dello Stato, infatti, garantirebbe una maggiore uguaglianza nelle offerte ai cittadini che risiedono in regioni diverse. L’estrema disuguaglianza dei servizi disponibili sia come qualità sia come quantità nelle varie Regioni rende inutile qualsiasi chiarimento.
Poi si favorirebbe il potenziamento delle regioni più fragili. Si presterebbe più attenzione ai territori con i sistemi sanitari più deboli. Finora lo Stato è riuscito a far sì che le Regioni adottassero più efficaci politiche di controllo della spesa sanitaria grazie ai piani di rientro. Ma non è stato in grado, forse non ha neppure voluto, di fornire strumenti alle Regioni per lo sviluppo dei servizi per gli anziani. Con più poteri lo Stato potrebbero farlo.
E, infine, vi sarebbe un miglioramento generale del servizio sanitario. Questo obiettivo racchiude i precedenti ma ne introduce anche molti altri, ad iniziare dallo sviluppo di più pertinenti sistemi di programmazione e di governance.
Teniamo a mente, però, che le modifiche degli assetti istituzionali, se ben disegnati, sono soltanto un’opportunità per migliorare le politiche. La capacità di coglierla davvero dalla competenza e dalla abilità degli amministratori regionali e dalla qualità delle strutture amministrative, dalle risorse dedicate e dagli strumenti operativi messi in campo.
Mino Dentizzi