Contributo alla discussione di Marco Revelli

per Gabriella

Marco Revelli su Alba 21 giugno 2014

Parlando di Pirlo tutti i commentatori di calcio – in questi giorni ancora più loquaci della pur rumorosissima nostra comunità – non mancano di sottolineare che la differenza tra un campione e un normale giocatore sta nel fatto che il primo alza la testa per guardare il campo mentre il secondo guarda il pallone (o le caviglie di chi gli sta intorno). Uso questa metafora calcistica perché credo che, nel nostro attuale dibattito, sia necessario un “cambio di sguardo”. Il passaggio a uno “sguardo lungo”, dall’analisi acribiosa dei giorni o delle settimane alla considerazione dei mesi o degli anni.

Proviamo a pensare, per esempio, come sarà considerato tra un paio di anni – non voglio dire “in prospettiva storica” perché sarebbe ampolloso, ma su un arco di tempo ragionevole in prospettiva politica – il risultato della lista L’Altra Europa con Tsipras alle elezioni europee del maggio 2014. Credo che tutti converrebbero sul fatto che il merito più evidente della lista è stato quello di aver portato nel nuovo Parlamento europeo l’eredità politica e culturale di Altiero Spinelli, rappresentata da quella che unanimemente viene considerata una delle migliori conoscitrici e commentatrici delle questioni europee, e di averlo fatto nell’ambito di un gruppo parlamentare non numerosissimo quantitativamente ma eccellente qualitativamente, comprendente oltre a Barbara una figura di primo piano del giornalismo politico italiano come Curzio Maltese e una studiosa di valore del pensiero politico come Eleonora Forenza (ma Marco Furfaro non sarebbe stato da meno). Il nostro gruppo parlamentare – il gruppo parlamentare della sinistra italiana – è un gruppo di alto profilo che fa onore a noi e al nostro paese (cosa che è stata ampiamente riconosciuta fin dal primo arrivo a Bruxelles dei nostri rappresentanti).

Un secondo elemento, è il fatto che per la prima volta dopo anni di sconfitte, una lista di sinistra alternativa (diciamo così) è entrata, con le proprie sole forze (senza cioè apparentamenti o pratiche di coalizione) in un’istituzione di prima grandezza, invertendo una tendenza e soprattutto marcando una presenza autonoma. Non è cosa di poco conto. Non solo perché questo è avvenuto nelle condizioni ambientali peggiori: una soglia di sbarramento e una legge elettorale (probabilmente destinate a essere dichiarate incostituzionali) pensate esplicitamente per elevare barriere all’entrata; una competizione ridotta mediaticamente alla polarizzazione Renzi-Grillo; uno schieramento mediatico ostile pressoché totale e totalitario, che ha oscurato sistematicamente le nostre proposte e il nostro programma (i nostri reali punti di forza). Ma anche e soprattutto perché il superamento della soglia ha aperto una “breccia culturale”. Ha significato che “si può”.

Certo si potrà recriminare che il margine è risicato (risicatissimo, chi lo nega?). Che rispetto alle potenzialità e alle necessità è poco (pochissimo, molto sotto la media delle altre sinistre-sinistre europee). Ma resta il fatto che quella maledetta asticella, posta volutamente “in alto”, è stata superata. E la distanza tra un risultato e l’altro possibili, è infinitamente più lunga di quei benedetti 8.000 voti che ci hanno separati dall’abisso. E’ la differenza tra esserci e non esserci. Tra l’essere tra coloro che esistono oppure precipitare tra quelli che non esistono: le elezioni europee del maggio 2014 sono quelle in cui noi non siamo tra i sommersi. Costituiamo una (piccola certo, minima) testa di ponte nella terra di mezzo della rappresentanza. Se non ce l’avessimo fatta non si sarebbe più parlato di liste alternative per almeno un decennio.

Un terzo elemento, non rilevato nei commenti a caldo, ma importante per lo sguardo lungo, è che per la prima volta si è materializzata una proposta politica a dimensione meta-nazionale: una lista elettorale che si qualifica per l’appartenenza a una costellazione di forze multinazionali e con un programma organico di dimensione e di natura continentale, con nella propria stessa denominazione il nome di una figura (Alexis Tsipras) simbolo di un approccio ormai compiutamente proiettato oltre i confini dei singoli stati.

Tutto questo nessuna recriminazione contingente, nessun retrogusto amaro per questa o quella scelta individuale, nessun – sia pur fondato – malessere per le modalità del percorso più che dell’esito possono togliercelo. E allo stesso modo del futuro, lo “sguardo lungo” può essere applicato al passato: non alla settimana immediatamente successiva al 25 maggio, ma ai sei mesi nel corso dei quali il progetto è nato come embrione, si è strutturato e applicato, ha mosso i primi passi e poi si è misurato nella campagna elettorale. Quali sono stati i nostri punti di forza, che spiegano quel milione e centomila elettori che alla fine ci hanno creduto? Anche qui ne indicherei tre:

Il primo sta senza dubbio nell’aver offerto un orizzonte ampio e tendenzialmente condiviso di convergenza, capace di segnare una discontinuità di stile e di linguaggio rispetto alle più recenti esperienze e di lasciare immaginare, in prospettiva, la nascita di una sinistra non minoritaria, non litigiosa e non “micro-identitaria”, così come è stato espresso nella formula della “lista di cittadinanza sostenuta dalle molteplici realtà organizzate compresi i partiti”. Una lista, quindi, collocata fuori dai tradizionali steccati e oltre le fastidiose e artificiali contrapposizioni: tra società civile e partiti, in primo luogo, e poi tra generazioni (nuovo contro vecchio, giovani contro anziani…), tra identità politiche autoreferenziali, tra puri e impuri, ecc. Determinata a valorizzare più ciò che unisce di ciò che divide, proponendo un denominatore comune anche per le questioni italiane, costituito da pochi punti ma discriminanti. Credo che sia stata questa promessa di rottura rispetto alle esperienze deludenti del passato proprie di una sinistra frammentata e divisa in piccoli partiti tra loro competitivi, ben espressa nel Manifesto “L’Europa al bivio”, nella scelta di escludere dalle candidature figure che avessero ricoperto cariche elettive di livello o ruoli dirigenti in organismi di partito e di formare le liste non attraverso negoziazioni burocratiche o applicazioni da manuale Cencelli, il fattore che ha generato un’energia inedita e attratto le simpatie di un cerchio più ampio di elettorato radicalmente democratico, scoraggiato dalle pratiche tradizionali ma ansioso di partecipazione.

Il secondo punto di merito è stata la forza culturale schierata in campo. Il nostro potenziale intellettuale, ben rappresentato dalla schiera di sostenitori – la parte migliore della cultura italiana – da Rodotà a Zagrebelsky, da Odifreddi a Camilleri, da Paul Ginsborg a Petrini, per non parlare dei nostri candidati capolista: Adriano Prosperi, Moni Ovadia, Ermanno Rea, o dalle nostre candidate, da Loredana Lipperini a Valeria Parrella, e faccio solo i primi nomi che mi vengono in mente. Se confrontiamo questo sommario elenco con la stentata, quasi deserta lista del pie’ veloce Renzi – e pensiamo che cos’era stata l’egemonia culturale del vecchio Pci – abbiamo la misura di una sproporzione di forza a nostro vantaggio che spiega ampiamente il successo da noi riscosso tra gli strati più acculturati dell’elettorato. Nell’epoca in cui la cifra culturale del governo renziano è rappresentata dalla volgare polemica contro i “professoroni”, il nostro essere il “partito del pensiero” e “del sapere” non è stato certo poca cosa.

Infine il programma, chiaro, articolato, argomentato e spiccatamente europeo: quello sintetizzato nei 10 punti elaborati dai “garanti” o quello, simile, steso nel lungo testo di Alfonso. E’ il valore che ha fatto la differenza rispetto agli slogan e agli strepiti degli altri, impegnati in una rissa da cortile nel pollaio italiano, provinciali e approssimativi, reticenti e volgari. Chi ha avuto modo di ascoltarci, al di là della barriera mediatica, e ancora concepisce la politica come qualcosa di serio, ci ha votato. Di quest’area, che certamente è più vasta del 4%, non ci ha votato chi non è stato raggiunto dal nostro messaggio (molte realtà periferiche, in cui la forma principale di comunicazione resta quella televisiva, o le pagine di Repubblica), o ne è stato solo sfiorato cadendo nella trappola del pericolo grillino, o si è fatto abbacinare dalla più tipica delle profezie che si auto-adempiono costituita dai sondaggi allarmistici che ci davano sistematicamente sotto la soglia.

Io credo che siano questi i tre pilastri su cui poggia lo zoccolo duro dei nostri 1.102.000 elettori. E’ di qui che dobbiamo ri-partire. Sapendo che sono un composto eterogeneo: un intreccio di “pubblici”, tra loro anche diversi, tutti da rispettare nelle loro diversità e da tenere insieme, consapevoli di quelle diversità. E’ un pubblico, ce lo siamo ripetuto tante volte in queste settimane, prevalentemente urbano: non è casuale se nelle città medio-grandi, diciamo nei capoluoghi di provincia e ancor più in quelli di regione, quasi senza eccezioni, abbiamo superato il 6%, con punte sopra l’8% in città come Firenze o in molti quartieri di Roma. Sono quelle dove più si è concentrata la nostra campagna, dove più dense sono le comunicazioni, più diffuso lo strato di popolazione ad alta intensità di informazione. Con significative eccezione, nei centri più piccoli in cui si sono avute azioni civiche o mobilitazioni di territorio (Val di Susa, dove siamo mediamente sopra il 10-12%, comuni interessati dal Terzo valico, il comune di Domenico Finiguerra dove abbiamo superato il 19%, l’area no-muos). O quelli in cui “ci siamo accampati” per settimane, come la Valle d’Aosta, dove la task force di Rosa per la raccolta delle firme ci ha fruttato un 7% che batte il record di sempre delle sinistre in valle… E’ un pubblico colto: tra gli altamente scolarizzati – diplomati e laureati – sfioriamo il 10%, tra gli insegnanti andiamo oltre. Tra i giovani siamo fortissimi (8,8%). Cadiamo invece tra gli anziani, i pensionati in particolare, e le fasce culturalmente basse, così come nei quartieri periferici delle ex città industriali (a Torino, per es., dove abbiamo ottenuto un buon 6,57%, nelle circoscrizioni del Centro e Precollina abbiamo ballato intorno al 10%, il doppio del Nuovo Centro Destra, il triplo della Lega, mentre a Barriera di Milano, a Mirafiori Sud o alle Vallette, dove hanno fatto il pieno Renzi e anche Grillo, abbiamo superato di misura il 4%). Potremmo dire che siamo stati la lista del “ceto medio riflessivo” – una grande testa con un piccolo corpo, grandi idee e poco popolo, con una eccezione, però: l’area del precariato. E’ l’unico vero insediamento sociale visibile della nostra lista: lavoro precario intellettuale, soprattutto. Lavoro giovanile tipico. Non dobbiamo mai dimenticarcelo. Come non dobbiamo dimenticarci che, in quanto ad appartenenze politiche, non ce ne sono di nettamente prevalenti: abbiamo raccolto sia tra i critici radicali dei partiti che tra gli elettori residui dei due partiti Sel e Prc, e anche di Azione civile; sia tra i militanti dei tanti movimenti, sia in una fascia di opinione genericamente di sinistra, democratica e disgustata dalla deriva renziana del Pd o da quella dispotica di Grillo… Tutti egualmente preziosi, di cui dovremmo proporci, d’ora in avanti, di non smarrirne neppure uno, per settarismo, supponenza, trascuratezza. Muovendoci secondo il modo di agire di Syriza: innovativo, inclusivo, rispettoso, pragmatico, attivo nella ricerca di ciò che unisce e, insieme, nel radicamento negli strati popolari.

Spero che di questo, e non di altro, si parli il 19 luglio. Di come ripartire da quel milione e centomila, guardando avanti, non indietro. Pensando a come allargare quella base di partenza, non a come amministrarla. Guardando al campo, appunto, e non al pallone. Sarebbe un errore gravissimo se si pensasse, il 19, a come “gestire” quel 4,03%. Come se fosse un punto di arrivo. Come se si dovesse formalizzare un involucro, un soggetto in sé compiuto, un organigramma. Il 19 dobbiamo avviare un percorso, non chiuderlo. Immaginare come si rifonda una sinistra in Italia, obiettivo rispetto al quale quello compiuto in questi mesi rappresenta pochi metri rispetto a un cammino lungo parecchi chilometri. Ha ragione, nonostante il tono antipatico, Asor Rosa, sul Manifesto del 18 giugno, quando dice che il compito deve essere ambizioso, perché la vecchia sinistra è sparita. Con il mutamento genetico del PD di Renzi (con la sua trasformazione in forza destabilizzante della democrazia rappresentativa nel nostro Paese, in connubio con Berlusconi e la Lega, cioè con la peggiore Italia) si apre un vuoto gigantesco, ampliato dall’irreversibile processo dissolutivo della galassia grillina, aperto dalla convergenza con Farage in Europa e l’abbandono di ogni appeal a sinistra, in un quadro generale – “di sistema” – spostatosi improvvisamente e drasticamente a destra. Riempirlo, quel vuoto, vuol dire mettere al lavoro tutte le risorse disponibili. In primo luogo quelle mentali, un grande sforzo di mobilitizione culturale-politica, per immaginare che cosa possa essere una sinistra post-novecentesca, capace di abitare uno spazio politico inedito, non più chiuso nei confini dello stato-nazione, e di operare oltre la tradizionale forma-partito inventando modalità adeguate di decisione collettiva, democratica ed efficace insieme, in grado di adattarsi alle sfide della rete senza arrendersi alle sue derive dissolutive o adrenaliniche. E poi attivare tutte le altre componenti, quelle che ancora abitano le vecchie case in disarmo delle identità consolidate (nessuna delle quali avrebbe raggiunto la soglia, ma senza nessuna delle quali noi avremmo potuto superarla). Quelle che da tempo le hanno abbandonate e stanno in stand by nella terra di nessuno dell’astensione. Quelle che erano sopravvissute in sofferenza nel recinto del Pd, e aspettano una proposta credibile per esodare. Quelle che si sono impegnate senza riserve nei movimenti ma che si rendono conto di aver bisogno di una sponda di rappresentanza e di un orizzonte comune.

Nel corso della campagna elettorale si era prodotta una piccola chimica, forse solo una scintilla, ma che aveva generato un embrione di comune sentire tra chi vi si era impegnato. Accanto, ancora, a tanti ritardi. A tante riserve mentali. A tanti usi strumentali, o competitivi, o identitari. Ma una prima forma di contaminazione reciproca c’era stata. Bisogna riprodurla su scala allargata, su un grande schermo, sapendo che i tempi non saranno istantanei. Che ognuno avrà bisogno dei propri tempi per maturare i mutamenti di sé necessari a rendersi compatibile con gli altri. Questo è il PERCORSO: per le componenti di Sel che devono rielaborare la propria collocazione dentro un processo di selezione doloroso che proprio oggi fa registrare fratture irreversibili, per quelli del Prc che devono superare il proprio culto della primogenitura solitaria per risocializzarsi in un contesto non programmaticamente minoritario e testimoniale, per quelli di Alba (di cui mi sento parte) che debbono imparare l’arte della convivenza e della contaminazione pragmatica, per i cultori del rifiuto della politica che devono conciliarsi con l’idea che quel processo di rilievo nazionale a cui guardiamo, per trasformarsi in pratica storica,  presuppone la partecipazione anche di “pezzi di ceto politico”, fratture verticali nei corpi politici esistenti (penso in primo luogo al PD, nel cui elettorato poco succede se non avviene contemporaneamente qualcosa dentro la nomenclatura). Lo dico perché non credo all’hegelismo fuori tempo di Paolo Flores, secondo cui dall’idea scaturirebbe di per sé il corpo che la materializza, e da un suo gesto i milioni di elettori di un grande girotondo puritano.

La forza del progetto in itinere sta nel fatto che nello scenario che si prepara non c’è più spazio per nessuna delle identità esistenti. O cambiare tutti, o morire tutti. Tertium non datur. La sua debolezza sta nell’assenza, a tutt’oggi, di una leadership autorevole capace non di guidare il soggetto, ma più modestamente di orientare il percorso (lungo, lo ripeto) della sua genesi. E come avviarne la formazione è il grande compito, creativo, di queste settimane e il nodo da sciogliere dell’assemblea del 19. Ho l’impressione che tra le tante opzione, prevalentemente organizzative, sotto i tanti e intollerabili veleni di questi giorni, ci sia una discussione non esplicitata su questo nodo. Che invece bisogna affrontare in modo esplicito, considerandone tutta la portata, alzando la testa dai nostri piedi e guardando lungo, senza nasconderci le difficoltà, le contraddizioni, i punti di vista diversi, ma soprattutto considerando l’articolazione e la complessità delle variabili in gioco.

In questo i cosiddetti “garanti” non servono più granché. La costituzione di quella cuspide della piramide era stato un espediente valido per avviare “dall’alto” un processo che doveva trovare le proprie migliaia di gambe nei territori. E in parte ha funzionato, almeno come start up. Ma ora è fuori corso, intanto perché abbiamo automaticamente cessato di funzionare come garanti di alcunché nel momento stesso in cui Barbara, nella settimana successiva al voto, ha deciso di procedere “in solitudine” ad operare la propria scelta di collegio con un’opzione esplicitamente politica. E poi perché non sarebbe giusto, ora che la nostra comunità si è materializzata in un corpo collettivo, e che la “lista appartiene al suo popolo”. Possiamo ancora essere utili, non lo nego (per quanto mi riguarda rimarrò a disposizione, per funzioni prevalentemente culturali, ma non certo di direzione operativa o politica), ma la governance di questa fase richiede strutture molto più legittimate sulla base di un serio e aperto confronto politico capace di coinvolgere tutte le componenti in gioco. Ci sono i giovani, e sarebbe non solo giusto ma sacrosanto che si prendessero il posto che si meritano (sono loro la componente più densa del nostro elettorato) e facessero emergere un gruppo di quadri dirigenti che diano una faccia nuova alla lista (non dimentichiamo che l’età media dei garanti era sui 70 anni – di più quando c’era ancora Camilleri – mentre la maggior condensazione di elettori sta sotto i 30). In una logica non antagonista alle altre classi di età, evitando come il veleno retoriche rottamatorie in stile renziano, devono entrare in cabina di regia. C’è il piccolo esercito dei candidati, la rete dei grandi collettori dei voti raccolti, quelli che hanno avuto il contatto più diretto con la parte attiva del corpo elettorale insieme ai comitati (là dove hanno effettivamente funzionato come punti di aggregazione di energie nuove e non semplici intergruppi), e ci sono i titolari della memoria e del sapere dei due mesi di campagna, il cosiddetto Gruppo operativo. Senza dimenticare l’Associazione L’altra Europa con Tsipras, legale rappresentante della Lista, che non ha solo un ruolo notarile o solo il peso dei debiti contratti, ma una responsabilità pubblica relativa al suo destino. Mentre un discorso a parte merita il gruppo parlamentare, che costituisce, inutile nascondercelo, un’anomalia. E’ infatti l’unico gruppo parlamentare “senza partito”: privo cioè di una struttura formale a cui rispondere ma con all’origine – come “committente”, diciamo così -, una sorta di public company disseminata e articolata, composta da molteplici soggetti e soggettività. Per questa ragione credo sia fondamentale l’assoluta trasparenza della comunicazione e dell’informazione: sulla gestione delle risorse del finanziamento, che dovranno essere rendicontate pubblicamente nel dettaglio, sulla scelta del personale, e sull’attività politica all’interno del GUE e nelle commissioni, con report periodici frequentissimi. Così come la co-organizzazione di frequenti iniziative unitarie in Italia, in modo da assicurare la costante osmosi tra “esterno” ed “interno”, tra rappresentanti e rappresentati, tra azione parlamentare e insediamenti territoriali.

Domando, in vista del 19: può un aggregato così articolato generare un piccolo gruppo, in grado in pochi giorni di coordinare il percorso verso l’assemblea nazionale? Forse sì, lavorando molto sulla “chimica” che ci ha tenuto insieme nella campagna elettorale, e provando a intrecciare tra loro le tante proposte che sono state formulare in questi giorni nelle varie mailing list cercandone un denominatore comune che le renda convergenti. Per esempio, perché non sfruttare l’appuntamento del 5 luglio – già indetto nell’incontro tra il gruppo parlamentare e l’Associazione – per farvi confluire le altre componenti del nostro puzzle, i rappresentanti dei comitati che più e meglio hanno discusso in queste settimane, i candidati che possono venire, i giovani che a loro volta si sono incontrati, qualche decina di persone, forse un centinaio, che potrebbero individuare il “gruppo di contatto” che nelle due settimane successive ci dovrà condurre all’assemblea nazionale che – ne siamo tutti consapevoli – non dovrà essere un congresso, o una conferenza di organizzazione. Nella quale non ci saranno delegati e non si parlerà di prossime scadenze elettorali – sarebbe fatale, in questo contesto politico generale, lanciare messaggi autoreferenziali, che parlino a noi e non al “resto del mondo” -, ma in cui sarà invece importante rendere visibile la nostra proposta “ambiziosa”, non minoritaria, non burocratica, innovativa, EUROPEA, aperta a un futuro ampio più che ripiegata sull’immediato passato, sperando di avere con noi Alexis Tsipras.

E’ in quella sede che dovremo, a mio avviso, in primo luogo, decidere insieme cosa fare nei prossimi 6 mesi (nei quali, non dimentichiamolo, Renzi guiderà il semestre Europeo, offrendoci un’ottima occasione per fare politica Europea incidendo in Italia): quali campagne, scadenze e appuntamenti far vivere nei territori e nei comitati. In una parola, come rendere visibile all’esterno l’esistenza della “Lista Tsipras”. E, insieme, lavorare sulla nostra soggettività politica, cosa delicata ma necessaria, aprendo (con un lavoro di medio periodo) un confronto sulle forme del nostro stare insieme, su alcune, semplici e basilari, norme di condotta e su alcuni temi intorno a cui costituire gruppi di lavoro per i mesi successivi (con come scadenza, diciamo, l’autunno). Solo su questa base – come conseguenza dunque di una maggior chiarezza sul progetto e sul percorso e non come premessa – potremo procedere alla formazione di un gruppo di gestione del programma lì definito, che sia non tanto piccolo da apparire un’oligarchia né tanto ampio da essere ingestibile. Partendo da un’evidenza oggettiva: che il nostro gruppo parlamentare ha bisogno di un soggetto di riferimento, e che quel soggetto, a tutt’oggi, non c’è: sta dentro un percorso che dovrà compiersi in stretto rapporto con una situazione politica generale in rapido mutamento, misurandosi con opportunità fino a ieri impensabili e con sfide dall’esito non scontato e dipendente, in buona misura, dall’intelligenza, dalla flessibilità e dalla coesione che riusciremo a mettere in campo.

C’è molta materia su cui lavorare serenamente. Buon lavoro a tutti.

Marco Revelli

 

Parlando di Pirlo tutti i commentatori di calcio – in questi giorni ancora più loquaci della pur rumorosissima nostra comunità – non mancano di sottolineare che la differenza tra un campione e un normale giocatore sta nel fatto che il primo alza la testa per guardare il campo mentre il secondo guarda il pallone (o le caviglie di chi gli sta intorno). Uso questa metafora calcistica perché credo che, nel nostro attuale dibattito, sia necessario un “cambio di sguardo”. Il passaggio a uno “sguardo lungo”, dall’analisi acribiosa dei giorni o delle settimane alla considerazione dei mesi o degli anni.

Proviamo a pensare, per esempio, come sarà considerato tra un paio di anni – non voglio dire “in prospettiva storica” perché sarebbe ampolloso, ma su un arco di tempo ragionevole in prospettiva politica – il risultato della lista L’Altra Europa con Tsipras alle elezioni europee del maggio 2014. Credo che tutti converrebbero sul fatto che il merito più evidente della lista è stato quello di aver portato nel nuovo Parlamento europeo l’eredità politica e culturale di Altiero Spinelli, rappresentata da quella che unanimemente viene considerata una delle migliori conoscitrici e commentatrici delle questioni europee, e di averlo fatto nell’ambito di un gruppo parlamentare non numerosissimo quantitativamente ma eccellente qualitativamente, comprendente oltre a Barbara una figura di primo piano del giornalismo politico italiano come Curzio Maltese e una studiosa di valore del pensiero politico come Eleonora Forenza (ma Marco Furfaro non sarebbe stato da meno). Il nostro gruppo parlamentare – il gruppo parlamentare della sinistra italiana – è un gruppo di alto profilo che fa onore a noi e al nostro paese (cosa che è stata ampiamente riconosciuta fin dal primo arrivo a Bruxelles dei nostri rappresentanti).

Un secondo elemento, è il fatto che per la prima volta dopo anni di sconfitte, una lista di sinistra alternativa (diciamo così) è entrata, con le proprie sole forze (senza cioè apparentamenti o pratiche di coalizione) in un’istituzione di prima grandezza, invertendo una tendenza e soprattutto marcando una presenza autonoma. Non è cosa di poco conto. Non solo perché questo è avvenuto nelle condizioni ambientali peggiori: una soglia di sbarramento e una legge elettorale (probabilmente destinate a essere dichiarate incostituzionali) pensate esplicitamente per elevare barriere all’entrata; una competizione ridotta mediaticamente alla polarizzazione Renzi-Grillo; uno schieramento mediatico ostile pressoché totale e totalitario, che ha oscurato sistematicamente le nostre proposte e il nostro programma (i nostri reali punti di forza). Ma anche e soprattutto perché il superamento della soglia ha aperto una “breccia culturale”. Ha significato che “si può”.

Certo si potrà recriminare che il margine è risicato (risicatissimo, chi lo nega?). Che rispetto alle potenzialità e alle necessità è poco (pochissimo, molto sotto la media delle altre sinistre-sinistre europee). Ma resta il fatto che quella maledetta asticella, posta volutamente “in alto”, è stata superata. E la distanza tra un risultato e l’altro possibili, è infinitamente più lunga di quei benedetti 8.000 voti che ci hanno separati dall’abisso. E’ la differenza tra esserci e non esserci. Tra l’essere tra coloro che esistono oppure precipitare tra quelli che non esistono: le elezioni europee del maggio 2014 sono quelle in cui noi non siamo tra i sommersi. Costituiamo una (piccola certo, minima) testa di ponte nella terra di mezzo della rappresentanza. Se non ce l’avessimo fatta non si sarebbe più parlato di liste alternative per almeno un decennio.

Un terzo elemento, non rilevato nei commenti a caldo, ma importante per lo sguardo lungo, è che per la prima volta si è materializzata una proposta politica a dimensione meta-nazionale: una lista elettorale che si qualifica per l’appartenenza a una costellazione di forze multinazionali e con un programma organico di dimensione e di natura continentale, con nella propria stessa denominazione il nome di una figura (Alexis Tsipras) simbolo di un approccio ormai compiutamente proiettato oltre i confini dei singoli stati.

Tutto questo nessuna recriminazione contingente, nessun retrogusto amaro per questa o quella scelta individuale, nessun – sia pur fondato – malessere per le modalità del percorso più che dell’esito possono togliercelo. E allo stesso modo del futuro, lo “sguardo lungo” può essere applicato al passato: non alla settimana immediatamente successiva al 25 maggio, ma ai sei mesi nel corso dei quali il progetto è nato come embrione, si è strutturato e applicato, ha mosso i primi passi e poi si è misurato nella campagna elettorale. Quali sono stati i nostri punti di forza, che spiegano quel milione e centomila elettori che alla fine ci hanno creduto? Anche qui ne indicherei tre:

Il primo sta senza dubbio nell’aver offerto un orizzonte ampio e tendenzialmente condiviso di convergenza, capace di segnare una discontinuità di stile e di linguaggio rispetto alle più recenti esperienze e di lasciare immaginare, in prospettiva, la nascita di una sinistra non minoritaria, non litigiosa e non “micro-identitaria”, così come è stato espresso nella formula della “lista di cittadinanza sostenuta dalle molteplici realtà organizzate compresi i partiti”. Una lista, quindi, collocata fuori dai tradizionali steccati e oltre le fastidiose e artificiali contrapposizioni: tra società civile e partiti, in primo luogo, e poi tra generazioni (nuovo contro vecchio, giovani contro anziani…), tra identità politiche autoreferenziali, tra puri e impuri, ecc. Determinata a valorizzare più ciò che unisce di ciò che divide, proponendo un denominatore comune anche per le questioni italiane, costituito da pochi punti ma discriminanti. Credo che sia stata questa promessa di rottura rispetto alle esperienze deludenti del passato proprie di una sinistra frammentata e divisa in poccoli partiti tra loro competitivi, ben espressa nel Manifesto “L’Europa al bivio”, nella scelta di escludere dalle candidature figure che avessero ricoperto cariche elettive di livello o ruoli dirigenti in organismi di partito e di formare le liste non attraverso negoziazioni burocratiche o applicazioni da manuale Cencelli, il fattore che ha generato un’energia inedita e attratto le simpatie di un cerchio più ampio di elettorato radicalmente democratico, scoraggiato dalle pratiche tradizionali ma ansioso di partecipazione.

Il secondo punto di merito è stata la forza culturale schierata in campo. Il nostro potenziale intellettuale, ben rappresentato dalla schiera di sostenitori – la parte migliore della cultura italiana -, da Rodotà a Zagrebelsky, da Odifreddi a Camilleri, da Paul Ginsborg a Petrini, per non parlare dei nostri candidati capolista: Adriano Prosperi, Moni Ovadia, Ermanno Rea, o dalle nostre candidate, da Loredana Lipperini a Valeria Parrella, e faccio solo i primi nomi che mi vengono in mente. Se confrontiamo questo sommario elenco con la stentata, quasi deserta lista del pie’ veloce Renzi – e pensiamo che cos’era stata l’egemonia culturale del vecchio Pci – abbiamo la misura di una sproporzione di forza a nostro vantaggio che spiega ampiamente il successo da noi riscosso tra gli strati più acculturati dell’elettorato. Nell’epoca in cui la cifra culturale del governo renziano è rappresentata dalla volgare polemica contro i “professoroni”, il nostro essere il “partito del pensiero” e “del sapere” non è stato certo poca cosa.

Infine il programma, chiaro, articolato, argomentato e spiccatamente europeo: quello sintetizzato nei 10 punti elaborati dai “garanti” o quello, simile, steso nel lungo testo di Alfonso. E’ il valore che ha fatto la differenza rispetto agli slogan e agli strepiti degli altri, impegnati in una rissa da cortile nel pollaio italiano, provinciali e approssimativi, reticenti e volgari. Chi ha avuto modo di ascoltarci, al di là della barriera mediatica, e ancora concepisce la politica come qualcosa di serio, ci ha votato. Di quest’area, che certamente è più vasta del 4%, non ci ha votato chi non è stato raggiunto dal nostro messaggio (molte realtà periferiche, in cui la forma principale di comunicazione resta quella televisiva, o le pagine di Repubblica), o ne è stato solo sfiorato cadendo nella trappola del pericolo grillino, o si è fatto abbacinare dalla più tipica delle profezie che si auto-adempiono costituita dai sondaggi allarmistici che ci davano sistematicamente sotto la soglia.

Io credo che siano questi i tre pilastri su cui poggia lo zoccolo duro dei nostri 1.102.000 elettori. E’ di qui che dobbiamo ri-partire. Sapendo che sono un composto eterogeneo: un intreccio di “pubblici”, tra loro anche diversi, tutti da rispettare nelle loro diversità e da tenere insieme, consapevoli di quelle diversità. E’ un pubblico, ce lo siamo ripetuto tante volte in queste settimane, prevalentemente urbano: non è casuale se nelle città medio-grandi, diciamo nei capoluoghi di provincia e ancor più in quelli di regione, quasi senza eccezioni, abbiamo superato il 6%, con punte sopra l’8% in città come Firenze o in molti quartieri di Roma. Sono quelle dove più si è concentrata la nostra campagna, dove più dense sono le comunicazioni, più diffuso lo strato di popolazione ad alta intensità di informazione. Con significative eccezione, nei centri più piccoli in cui si sono avute azioni civiche o mobilitazioni di territorio (Val di Susa, dove siamo mediamente sopra il 10-12%, comuni interessati dal Terzo valico, il comune di Domenico Finiguerra dove abbiamo superato il 19%, l’area no-muos). O quelli in cui “ci siamo accampati” per settimane, come la Valle d’Aosta, dove la task force di Rosa per la raccolta delle firme ci ha fruttato un 7% che batte il record di sempre delle sinistre in valle… E’ un pubblico colto: tra gli altamente scolarizzati – diplomati e laureati – sfioriamo il 10%, tra gli insegnanti andiamo oltre. Tra i giovani siamo fortissimi (8,8%). Cadiamo invece tra gli anziani, i pensionati in particolare, e le fasce culturalmente basse, così come nei quartieri periferici delle ex città industriali (a Torino, per es., dove abbiamo ottenuto un buon 6,57%, nelle circoscrizioni del Centro e Precollina abbiamo ballato intorno al 10%, il doppio del Nuovo Centro Destra, il triplo della Lega, mentre a Barriera di Milano, a Mirafiori Sud o alle Vallette, dove hanno fatto il pieno Renzi e anche Grillo, abbiamo superato di misura il 4%). Potremmo dire che siamo stati la lista del “ceto medio riflessivo” – una grande testa con un piccolo corpo, grandi idee e poco popolo, con una eccezione, però: l’area del precariato. E’ l’unico vero insediamento sociale visibile della nostra lista: lavoro precario intellettuale, soprattutto. Lavoro giovanile tipico. Non dobbiamo mai dimenticarcelo. Come non dobbiamo dimenticarci che, in quanto ad appartenenze politiche, non ce ne sono di nettamente prevalenti: abbiamo raccolto sia tra i critici radicali dei partiti che tra gli elettori residui dei due partiti Sel e Prc, e anche di Azione civile; sia tra i militanti dei tanti movimenti, sia in una fascia di opinione genericamente di sinistra, democratica e disgustata dalla deriva renziana del Pd o da quella dispotica di Grillo… Tutti egualmente preziosi, di cui dovremmo proporci, d’ora in avanti, di non smarrirne neppure uno, per settarismo, supponenza, trascuratezza. Muovendoci secondo il modo di agire di Syriza: innovativo, inclusivo, rispettoso, pragmatico, attivo nella ricerca di ciò che unisce e, insieme, nel radicamento negli strati popolari.

Spero che di questo, e non di altro, si parli il 19 luglio. Di come ripartire da quel milione e centomila, guardando avanti, non indietro. Pensando a come allargare quella base di partenza, non a come amministrarla. Guardando al campo, appunto, e non al pallone. Sarebbe un errore gravissimo se si pensasse, il 19, a come “gestire” quel 4,03%. Come se fosse un punto di arrivo. Come se si dovesse formalizzare un involucro, un soggetto in sé compiuto, un organigramma. Il 19 dobbiamo avviare un percorso, non chiuderlo. Immaginare come si rifonda una sinistra in Italia, obiettivo rispetto al quale quello compiuto in questi mesi rappresenta pochi metri rispetto a un cammino lungo parecchi chilometri. Ha ragione, nonostante il tono antipatico, Asor Rosa, sul Manifesto del 18 giugno, quando dice che il compito deve essere ambizioso, perché la vecchia sinistra è sparita. Con il mutamento genetico del PD di Renzi (con la sua trasformazione in forza destabilizzante della democrazia rappresentativa nel nostro Paese, in connubio con Berlusconi e la Lega, cioè con la peggiore Italia) si apre un vuoto gigantesco, ampliato dall’irreversibile processo dissolutivo della galassia grillina, aperto dalla convergenza con Farage in Europa e l’abbandono di ogni appeal a sinistra, in un quadro generale – “di sistema” – spostatosi improvvisamente e drasticamente a destra. Riempirlo, quel vuoto, vuol dire mettere al lavoro tutte le risorse disponibili. In primo luogo quelle mentali, un grande sforzo di mobilitizione culturale-politica, per immaginare che cosa possa essere una sinistra post-novecentesca, capace di abitare uno spazio politico inedito, non più chiuso nei confini dello stato-nazione, e di operare oltre la tradizionale forma-partito inventando modalità adeguate di decisione collettiva, democratica ed efficace insieme, in grado di adattarsi alle sfide della rete senza arrendersi alle sue derive dissolutive o adrenaliniche. E poi attivare tutte le altre componenti, quelle che ancora abitano le vecchie case in disarmo delle identità consolidate (nessuna delle quali avrebbe raggiunto la soglia, ma senza nessuna delle quali noi avremmo potuto superarla). Quelle che da tempo le hanno abbandonate e stanno in stand by nella terra di nessuno dell’astensione. Quelle che erano sopravvissute in sofferenza nel recinto del Pd, e aspettano una proposta credibile per esodare. Quelle che si sono impegnate senza riserve nei movimenti ma che si rendono conto di aver bisogno di una sponda di rappresentanza e di un orizzonte comune.

Nel corso della campagna elettorale si era prodotta una piccola chimica, forse solo una scintilla, ma che aveva generato un embrione di comune sentire tra chi vi si era impegnato. Accanto, ancora, a tanti ritardi. A tante riserve mentali. A tanti usi strumentali, o competitivi, o identitari. Ma una prima forma di contaminazione reciproca c’era stata. Bisogna riprodurla su scala allargata, su un grande schermo, sapendo che i tempi non saranno istantanei. Che ognuno avrà bisogno dei propri tempi per maturare i mutamenti di sé necessari a rendersi compatibile con gli altri. Questo è il PERCORSO: per le componenti di Sel che devono rielaborare la propria collocazione dentro un processo di selezione doloroso che proprio oggi fa registrare fratture irreversibili, per quelli del Prc che devono superare il proprio culto della primogenitura solitaria per risocializzarsi in un contesto non programmaticamente minoritario e testimoniale, per quelli di Alba (di cui mi sento parte) che debbono imparare l’arte della convivenza e della contaminazione pragmatica, per i cultori del rifiuto della politica che devono conciliarsi con l’idea che quel processo di rilievo nazionale a cui guardiamo, per trasformarsi in pratica storica,  presuppone la partecipazione anche di “pezzi di ceto politico”, fratture verticali nei corpi politici esistenti (penso in primo luogo al PD, nel cui elettorato poco succede se non avviene contemporaneamente qualcosa dentro la nomenclatura). Lo dico perché non credo all’hegelismo fuori tempo di Paolo Flores, secondo cui dall’idea scaturirebbe di per sé il corpo che la materializza, e da un suo gesto i milioni di elettori di un grande girotondo puritano.

La forza del progetto in itinere sta nel fatto che nello scenario che si prepara non c’è più spazio per nessuna delle identità esistenti. O cambiare tutti, o morire tutti. Tertium non datur. La sua debolezza sta nell’assenza, a tutt’oggi, di una leadership autorevole capace non di guidare il soggetto, ma più modestamente di orientare il percorso (lungo, lo ripeto) della sua genesi. E come avviarne la formazione è il grande compito, creativo, di queste settimane e il nodo da sciogliere dell’assemblea del 19. Ho l’impressione che tra le tante opzione, prevalentemente organizzative, sotto i tanti e intollerabili veleni di questi giorni, ci sia una discussione non esplicitata su questo nodo. Che invece bisogna affrontare in modo esplicito, considerandone tutta la portata, alzando la testa dai nostri piedi e guardando lungo, senza nasconderci le difficoltà, le contraddizioni, i punti di vista diversi, ma soprattutto considerando l’articolazione e la complessità delle variabili in gioco.

In questo i cosiddetti “garanti” non servono più granché. La costituzione di quella cuspide della piramide era stato un espediente valido per avviare “dall’alto” un processo che doveva trovare le proprie migliaia di gambe nei territori. E in parte ha funzionato, almeno come start up. Ma ora è fuori corso, intanto perché abbiamo automaticamente cessato di funzionare come garanti di alcunché nel momento stesso in cui Barbara, nella settimana successiva al voto, ha deciso di procedere “in solitudine” ad operare la propria scelta di collegio con un’opzione esplicitamente politica. E poi perché non sarebbe giusto, ora che la nostra comunità si è materializzata in un corpo collettivo, e che la “lista appartiene al suo popolo”. Possiamo ancora essere utili, non lo nego (per quanto mi riguarda rimarrò a disposizione, per funzioni prevalentemente culturali, ma non certo di direzione operativa o politica), ma la governance di questa fase richiede strutture molto più legittimate sulla base di un serio e aperto confronto politico capace di coinvolgere tutte le componenti in gioco. Ci sono i giovani, e sarebbe non solo giusto ma sacrosanto che si prendessero il posto che si meritano (sono loro la componente più densa del nostro elettorato) e facessero emergere un gruppo di quadri dirigenti che diano una faccia nuova alla lista (non dimentichiamo che l’età media dei garanti era sui 70 anni – di più quando c’era ancora Camilleri – mentre la maggior condensazione di elettori sta sotto i 30). In una logica non antagonista alle altre classi di età, evitando come il veleno retoriche rottamatorie in stile renziano, devono entrare in cabina di regia. C’è il piccolo esercito dei candidati, la rete dei grandi collettori dei voti raccolti, quelli che hanno avuto il contatto più diretto con la parte attiva del corpo elettorale insieme ai comitati (là dove hanno effettivamente funzionato come punti di aggregazione di energie nuove e non semplici intergruppi), e ci sono i titolari della memoria e del sapere dei due mesi di campagna, il cosiddetto Gruppo operativo. Senza dimenticare l’Associazione L’altra Europa con Tsipras, legale rappresentante della Lista, che non ha solo un ruolo notarile o solo il peso dei debiti contratti, ma una responsabilità pubblica relativa al suo destino. Mentre un discorso a parte merita il gruppo parlamentare, che costituisce, inutile nascondercelo, un’anomalia. E’ infatti l’unico gruppo parlamentare “senza partito”: privo cioè di una struttura formale a cui rispondere ma con all’origine – come “committente”, diciamo così -, una sorta di public company disseminata e articolata, composta da molteplici soggetti e soggettività. Per questa ragione credo sia fondamentale l’assoluta trasparenza della comunicazione e dell’informazione: sulla gestione delle risorse del finanziamento, che dovranno essere rendicontate pubblicamente nel dettaglio, sulla scelta del personale, e sull’attività politica all’interno del GUE e nelle commissioni, con report periodici frequentissimi. Così come la co-organizzazione di frequenti iniziative unitarie in Italia, in modo da assicurare la costante osmosi tra “esterno” ed “interno”, tra rappresentanti e rappresentati, tra azione parlamentare e insediamenti territoriali.

Domando, in vista del 19: può un aggregato così articolato generare un piccolo gruppo, in grado in pochi giorni di coordinare il percorso verso l’assemblea nazionale? Forse sì, lavorando molto sulla “chimica” che ci ha tenuto insieme nella campagna elettorale, e provando a intrecciare tra loro le tante proposte che sono state formulare in questi giorni nelle varie mailing list cercandone un denominatore comune che le renda convergenti. Per esempio, perché non sfruttare l’appuntamento del 5 luglio – già indetto nell’incontro tra il gruppo parlamentare e l’Associazione – per farvi confluire le altre componenti del nostro puzzle, i rappresentanti dei comitati che più e meglio hanno discusso in queste settimane, i candidati che possono venire, i giovani che a loro volta si sono incontrati, qualche decina di persone, forse un centinaio, che potrebbero individuare il “gruppo di contatto” che nelle due settimane successive ci dovrà condurre all’assemblea nazionale che – ne siamo tutti consapevoli – non dovrà essere un congresso, o una conferenza di organizzazione. Nella quale non ci saranno delegati e non si parlerà di prossime scadenze elettorali – sarebbe fatale, in questo contesto politico generale, lanciare messaggi autoreferenziali, che parlino a noi e non al “resto del mondo” -, ma in cui sarà invece importante rendere visibile la nostra proposta “ambiziosa”, non minoritaria, non burocratica, innovativa, EUROPEA, aperta a un futuro ampio più che ripiegata sull’immediato passato, sperando di avere con noi Alexis Tsipras.

E’ in quella sede che dovremo, a mio avviso, in primo luogo, decidere insieme cosa fare nei prossimi 6 mesi (nei quali, non dimentichiamolo, Renzi guiderà il semestre Europeo, offrendoci un’ottima occasione per fare politica Europea incidendo in Italia): quali campagne, scadenze e appuntamenti far vivere nei territori e nei comitati. In una parola, come rendere visibile all’esterno l’esistenza della “Lista Tsipras”. E, insieme, lavorare sulla nostra soggettività politica, cosa delicata ma necessaria, aprendo (con un lavoro di medio periodo) un confronto sulle forme del nostro stare insieme, su alcune, semplici e basilari, norme di condotta e su alcuni temi intorno a cui costituire gruppi di lavoro per i mesi successivi (con come scadenza, diciamo, l’autunno). Solo su questa base – come conseguenza dunque di una maggior chiarezza sul progetto e sul percorso e non come premessa – potremo procedere alla formazione di un gruppo di gestione del programma lì definito, che sia non tanto piccolo da apparire un’oligarchia né tanto ampio da essere ingestibile. Partendo da un’evidenza oggettiva: che il nostro gruppo parlamentare ha bisogno di un soggetto di riferimento, e che quel soggetto, a tutt’oggi, non c’è: sta dentro un percorso che dovrà compiersi in stretto rapporto con una situazione politica generale in rapido mutamento, misurandosi con opportunità fino a ieri impensabili e con sfide dall’esito non scontato e dipendente, in buona misura, dall’intelligenza, dalla flessibilità e dalla coesione che riusciremo a mettere in campo.

C’è molta materia su cui lavorare serenamente. Buon lavoro a tutti.

Marco Revelli

– See more at: http://www.albasoggettopoliticonuovo.it/2014/06/contributo-alla-discussione-di-marco-revelli/#sthash.NZNLMVal.dpuf

Parlando di Pirlo tutti i commentatori di calcio – in questi giorni ancora più loquaci della pur rumorosissima nostra comunità – non mancano di sottolineare che la differenza tra un campione e un normale giocatore sta nel fatto che il primo alza la testa per guardare il campo mentre il secondo guarda il pallone (o le caviglie di chi gli sta intorno). Uso questa metafora calcistica perché credo che, nel nostro attuale dibattito, sia necessario un “cambio di sguardo”. Il passaggio a uno “sguardo lungo”, dall’analisi acribiosa dei giorni o delle settimane alla considerazione dei mesi o degli anni.

Proviamo a pensare, per esempio, come sarà considerato tra un paio di anni – non voglio dire “in prospettiva storica” perché sarebbe ampolloso, ma su un arco di tempo ragionevole in prospettiva politica – il risultato della lista L’Altra Europa con Tsipras alle elezioni europee del maggio 2014. Credo che tutti converrebbero sul fatto che il merito più evidente della lista è stato quello di aver portato nel nuovo Parlamento europeo l’eredità politica e culturale di Altiero Spinelli, rappresentata da quella che unanimemente viene considerata una delle migliori conoscitrici e commentatrici delle questioni europee, e di averlo fatto nell’ambito di un gruppo parlamentare non numerosissimo quantitativamente ma eccellente qualitativamente, comprendente oltre a Barbara una figura di primo piano del giornalismo politico italiano come Curzio Maltese e una studiosa di valore del pensiero politico come Eleonora Forenza (ma Marco Furfaro non sarebbe stato da meno). Il nostro gruppo parlamentare – il gruppo parlamentare della sinistra italiana – è un gruppo di alto profilo che fa onore a noi e al nostro paese (cosa che è stata ampiamente riconosciuta fin dal primo arrivo a Bruxelles dei nostri rappresentanti).

Un secondo elemento, è il fatto che per la prima volta dopo anni di sconfitte, una lista di sinistra alternativa (diciamo così) è entrata, con le proprie sole forze (senza cioè apparentamenti o pratiche di coalizione) in un’istituzione di prima grandezza, invertendo una tendenza e soprattutto marcando una presenza autonoma. Non è cosa di poco conto. Non solo perché questo è avvenuto nelle condizioni ambientali peggiori: una soglia di sbarramento e una legge elettorale (probabilmente destinate a essere dichiarate incostituzionali) pensate esplicitamente per elevare barriere all’entrata; una competizione ridotta mediaticamente alla polarizzazione Renzi-Grillo; uno schieramento mediatico ostile pressoché totale e totalitario, che ha oscurato sistematicamente le nostre proposte e il nostro programma (i nostri reali punti di forza). Ma anche e soprattutto perché il superamento della soglia ha aperto una “breccia culturale”. Ha significato che “si può”.

Certo si potrà recriminare che il margine è risicato (risicatissimo, chi lo nega?). Che rispetto alle potenzialità e alle necessità è poco (pochissimo, molto sotto la media delle altre sinistre-sinistre europee). Ma resta il fatto che quella maledetta asticella, posta volutamente “in alto”, è stata superata. E la distanza tra un risultato e l’altro possibili, è infinitamente più lunga di quei benedetti 8.000 voti che ci hanno separati dall’abisso. E’ la differenza tra esserci e non esserci. Tra l’essere tra coloro che esistono oppure precipitare tra quelli che non esistono: le elezioni europee del maggio 2014 sono quelle in cui noi non siamo tra i sommersi. Costituiamo una (piccola certo, minima) testa di ponte nella terra di mezzo della rappresentanza. Se non ce l’avessimo fatta non si sarebbe più parlato di liste alternative per almeno un decennio.

Un terzo elemento, non rilevato nei commenti a caldo, ma importante per lo sguardo lungo, è che per la prima volta si è materializzata una proposta politica a dimensione meta-nazionale: una lista elettorale che si qualifica per l’appartenenza a una costellazione di forze multinazionali e con un programma organico di dimensione e di natura continentale, con nella propria stessa denominazione il nome di una figura (Alexis Tsipras) simbolo di un approccio ormai compiutamente proiettato oltre i confini dei singoli stati.

Tutto questo nessuna recriminazione contingente, nessun retrogusto amaro per questa o quella scelta individuale, nessun – sia pur fondato – malessere per le modalità del percorso più che dell’esito possono togliercelo. E allo stesso modo del futuro, lo “sguardo lungo” può essere applicato al passato: non alla settimana immediatamente successiva al 25 maggio, ma ai sei mesi nel corso dei quali il progetto è nato come embrione, si è strutturato e applicato, ha mosso i primi passi e poi si è misurato nella campagna elettorale. Quali sono stati i nostri punti di forza, che spiegano quel milione e centomila elettori che alla fine ci hanno creduto? Anche qui ne indicherei tre:

Il primo sta senza dubbio nell’aver offerto un orizzonte ampio e tendenzialmente condiviso di convergenza, capace di segnare una discontinuità di stile e di linguaggio rispetto alle più recenti esperienze e di lasciare immaginare, in prospettiva, la nascita di una sinistra non minoritaria, non litigiosa e non “micro-identitaria”, così come è stato espresso nella formula della “lista di cittadinanza sostenuta dalle molteplici realtà organizzate compresi i partiti”. Una lista, quindi, collocata fuori dai tradizionali steccati e oltre le fastidiose e artificiali contrapposizioni: tra società civile e partiti, in primo luogo, e poi tra generazioni (nuovo contro vecchio, giovani contro anziani…), tra identità politiche autoreferenziali, tra puri e impuri, ecc. Determinata a valorizzare più ciò che unisce di ciò che divide, proponendo un denominatore comune anche per le questioni italiane, costituito da pochi punti ma discriminanti. Credo che sia stata questa promessa di rottura rispetto alle esperienze deludenti del passato proprie di una sinistra frammentata e divisa in poccoli partiti tra loro competitivi, ben espressa nel Manifesto “L’Europa al bivio”, nella scelta di escludere dalle candidature figure che avessero ricoperto cariche elettive di livello o ruoli dirigenti in organismi di partito e di formare le liste non attraverso negoziazioni burocratiche o applicazioni da manuale Cencelli, il fattore che ha generato un’energia inedita e attratto le simpatie di un cerchio più ampio di elettorato radicalmente democratico, scoraggiato dalle pratiche tradizionali ma ansioso di partecipazione.

Il secondo punto di merito è stata la forza culturale schierata in campo. Il nostro potenziale intellettuale, ben rappresentato dalla schiera di sostenitori – la parte migliore della cultura italiana -, da Rodotà a Zagrebelsky, da Odifreddi a Camilleri, da Paul Ginsborg a Petrini, per non parlare dei nostri candidati capolista: Adriano Prosperi, Moni Ovadia, Ermanno Rea, o dalle nostre candidate, da Loredana Lipperini a Valeria Parrella, e faccio solo i primi nomi che mi vengono in mente. Se confrontiamo questo sommario elenco con la stentata, quasi deserta lista del pie’ veloce Renzi – e pensiamo che cos’era stata l’egemonia culturale del vecchio Pci – abbiamo la misura di una sproporzione di forza a nostro vantaggio che spiega ampiamente il successo da noi riscosso tra gli strati più acculturati dell’elettorato. Nell’epoca in cui la cifra culturale del governo renziano è rappresentata dalla volgare polemica contro i “professoroni”, il nostro essere il “partito del pensiero” e “del sapere” non è stato certo poca cosa.

Infine il programma, chiaro, articolato, argomentato e spiccatamente europeo: quello sintetizzato nei 10 punti elaborati dai “garanti” o quello, simile, steso nel lungo testo di Alfonso. E’ il valore che ha fatto la differenza rispetto agli slogan e agli strepiti degli altri, impegnati in una rissa da cortile nel pollaio italiano, provinciali e approssimativi, reticenti e volgari. Chi ha avuto modo di ascoltarci, al di là della barriera mediatica, e ancora concepisce la politica come qualcosa di serio, ci ha votato. Di quest’area, che certamente è più vasta del 4%, non ci ha votato chi non è stato raggiunto dal nostro messaggio (molte realtà periferiche, in cui la forma principale di comunicazione resta quella televisiva, o le pagine di Repubblica), o ne è stato solo sfiorato cadendo nella trappola del pericolo grillino, o si è fatto abbacinare dalla più tipica delle profezie che si auto-adempiono costituita dai sondaggi allarmistici che ci davano sistematicamente sotto la soglia.

Io credo che siano questi i tre pilastri su cui poggia lo zoccolo duro dei nostri 1.102.000 elettori. E’ di qui che dobbiamo ri-partire. Sapendo che sono un composto eterogeneo: un intreccio di “pubblici”, tra loro anche diversi, tutti da rispettare nelle loro diversità e da tenere insieme, consapevoli di quelle diversità. E’ un pubblico, ce lo siamo ripetuto tante volte in queste settimane, prevalentemente urbano: non è casuale se nelle città medio-grandi, diciamo nei capoluoghi di provincia e ancor più in quelli di regione, quasi senza eccezioni, abbiamo superato il 6%, con punte sopra l’8% in città come Firenze o in molti quartieri di Roma. Sono quelle dove più si è concentrata la nostra campagna, dove più dense sono le comunicazioni, più diffuso lo strato di popolazione ad alta intensità di informazione. Con significative eccezione, nei centri più piccoli in cui si sono avute azioni civiche o mobilitazioni di territorio (Val di Susa, dove siamo mediamente sopra il 10-12%, comuni interessati dal Terzo valico, il comune di Domenico Finiguerra dove abbiamo superato il 19%, l’area no-muos). O quelli in cui “ci siamo accampati” per settimane, come la Valle d’Aosta, dove la task force di Rosa per la raccolta delle firme ci ha fruttato un 7% che batte il record di sempre delle sinistre in valle… E’ un pubblico colto: tra gli altamente scolarizzati – diplomati e laureati – sfioriamo il 10%, tra gli insegnanti andiamo oltre. Tra i giovani siamo fortissimi (8,8%). Cadiamo invece tra gli anziani, i pensionati in particolare, e le fasce culturalmente basse, così come nei quartieri periferici delle ex città industriali (a Torino, per es., dove abbiamo ottenuto un buon 6,57%, nelle circoscrizioni del Centro e Precollina abbiamo ballato intorno al 10%, il doppio del Nuovo Centro Destra, il triplo della Lega, mentre a Barriera di Milano, a Mirafiori Sud o alle Vallette, dove hanno fatto il pieno Renzi e anche Grillo, abbiamo superato di misura il 4%). Potremmo dire che siamo stati la lista del “ceto medio riflessivo” – una grande testa con un piccolo corpo, grandi idee e poco popolo, con una eccezione, però: l’area del precariato. E’ l’unico vero insediamento sociale visibile della nostra lista: lavoro precario intellettuale, soprattutto. Lavoro giovanile tipico. Non dobbiamo mai dimenticarcelo. Come non dobbiamo dimenticarci che, in quanto ad appartenenze politiche, non ce ne sono di nettamente prevalenti: abbiamo raccolto sia tra i critici radicali dei partiti che tra gli elettori residui dei due partiti Sel e Prc, e anche di Azione civile; sia tra i militanti dei tanti movimenti, sia in una fascia di opinione genericamente di sinistra, democratica e disgustata dalla deriva renziana del Pd o da quella dispotica di Grillo… Tutti egualmente preziosi, di cui dovremmo proporci, d’ora in avanti, di non smarrirne neppure uno, per settarismo, supponenza, trascuratezza. Muovendoci secondo il modo di agire di Syriza: innovativo, inclusivo, rispettoso, pragmatico, attivo nella ricerca di ciò che unisce e, insieme, nel radicamento negli strati popolari.

Spero che di questo, e non di altro, si parli il 19 luglio. Di come ripartire da quel milione e centomila, guardando avanti, non indietro. Pensando a come allargare quella base di partenza, non a come amministrarla. Guardando al campo, appunto, e non al pallone. Sarebbe un errore gravissimo se si pensasse, il 19, a come “gestire” quel 4,03%. Come se fosse un punto di arrivo. Come se si dovesse formalizzare un involucro, un soggetto in sé compiuto, un organigramma. Il 19 dobbiamo avviare un percorso, non chiuderlo. Immaginare come si rifonda una sinistra in Italia, obiettivo rispetto al quale quello compiuto in questi mesi rappresenta pochi metri rispetto a un cammino lungo parecchi chilometri. Ha ragione, nonostante il tono antipatico, Asor Rosa, sul Manifesto del 18 giugno, quando dice che il compito deve essere ambizioso, perché la vecchia sinistra è sparita. Con il mutamento genetico del PD di Renzi (con la sua trasformazione in forza destabilizzante della democrazia rappresentativa nel nostro Paese, in connubio con Berlusconi e la Lega, cioè con la peggiore Italia) si apre un vuoto gigantesco, ampliato dall’irreversibile processo dissolutivo della galassia grillina, aperto dalla convergenza con Farage in Europa e l’abbandono di ogni appeal a sinistra, in un quadro generale – “di sistema” – spostatosi improvvisamente e drasticamente a destra. Riempirlo, quel vuoto, vuol dire mettere al lavoro tutte le risorse disponibili. In primo luogo quelle mentali, un grande sforzo di mobilitizione culturale-politica, per immaginare che cosa possa essere una sinistra post-novecentesca, capace di abitare uno spazio politico inedito, non più chiuso nei confini dello stato-nazione, e di operare oltre la tradizionale forma-partito inventando modalità adeguate di decisione collettiva, democratica ed efficace insieme, in grado di adattarsi alle sfide della rete senza arrendersi alle sue derive dissolutive o adrenaliniche. E poi attivare tutte le altre componenti, quelle che ancora abitano le vecchie case in disarmo delle identità consolidate (nessuna delle quali avrebbe raggiunto la soglia, ma senza nessuna delle quali noi avremmo potuto superarla). Quelle che da tempo le hanno abbandonate e stanno in stand by nella terra di nessuno dell’astensione. Quelle che erano sopravvissute in sofferenza nel recinto del Pd, e aspettano una proposta credibile per esodare. Quelle che si sono impegnate senza riserve nei movimenti ma che si rendono conto di aver bisogno di una sponda di rappresentanza e di un orizzonte comune.

Nel corso della campagna elettorale si era prodotta una piccola chimica, forse solo una scintilla, ma che aveva generato un embrione di comune sentire tra chi vi si era impegnato. Accanto, ancora, a tanti ritardi. A tante riserve mentali. A tanti usi strumentali, o competitivi, o identitari. Ma una prima forma di contaminazione reciproca c’era stata. Bisogna riprodurla su scala allargata, su un grande schermo, sapendo che i tempi non saranno istantanei. Che ognuno avrà bisogno dei propri tempi per maturare i mutamenti di sé necessari a rendersi compatibile con gli altri. Questo è il PERCORSO: per le componenti di Sel che devono rielaborare la propria collocazione dentro un processo di selezione doloroso che proprio oggi fa registrare fratture irreversibili, per quelli del Prc che devono superare il proprio culto della primogenitura solitaria per risocializzarsi in un contesto non programmaticamente minoritario e testimoniale, per quelli di Alba (di cui mi sento parte) che debbono imparare l’arte della convivenza e della contaminazione pragmatica, per i cultori del rifiuto della politica che devono conciliarsi con l’idea che quel processo di rilievo nazionale a cui guardiamo, per trasformarsi in pratica storica,  presuppone la partecipazione anche di “pezzi di ceto politico”, fratture verticali nei corpi politici esistenti (penso in primo luogo al PD, nel cui elettorato poco succede se non avviene contemporaneamente qualcosa dentro la nomenclatura). Lo dico perché non credo all’hegelismo fuori tempo di Paolo Flores, secondo cui dall’idea scaturirebbe di per sé il corpo che la materializza, e da un suo gesto i milioni di elettori di un grande girotondo puritano.

La forza del progetto in itinere sta nel fatto che nello scenario che si prepara non c’è più spazio per nessuna delle identità esistenti. O cambiare tutti, o morire tutti. Tertium non datur. La sua debolezza sta nell’assenza, a tutt’oggi, di una leadership autorevole capace non di guidare il soggetto, ma più modestamente di orientare il percorso (lungo, lo ripeto) della sua genesi. E come avviarne la formazione è il grande compito, creativo, di queste settimane e il nodo da sciogliere dell’assemblea del 19. Ho l’impressione che tra le tante opzione, prevalentemente organizzative, sotto i tanti e intollerabili veleni di questi giorni, ci sia una discussione non esplicitata su questo nodo. Che invece bisogna affrontare in modo esplicito, considerandone tutta la portata, alzando la testa dai nostri piedi e guardando lungo, senza nasconderci le difficoltà, le contraddizioni, i punti di vista diversi, ma soprattutto considerando l’articolazione e la complessità delle variabili in gioco.

In questo i cosiddetti “garanti” non servono più granché. La costituzione di quella cuspide della piramide era stato un espediente valido per avviare “dall’alto” un processo che doveva trovare le proprie migliaia di gambe nei territori. E in parte ha funzionato, almeno come start up. Ma ora è fuori corso, intanto perché abbiamo automaticamente cessato di funzionare come garanti di alcunché nel momento stesso in cui Barbara, nella settimana successiva al voto, ha deciso di procedere “in solitudine” ad operare la propria scelta di collegio con un’opzione esplicitamente politica. E poi perché non sarebbe giusto, ora che la nostra comunità si è materializzata in un corpo collettivo, e che la “lista appartiene al suo popolo”. Possiamo ancora essere utili, non lo nego (per quanto mi riguarda rimarrò a disposizione, per funzioni prevalentemente culturali, ma non certo di direzione operativa o politica), ma la governance di questa fase richiede strutture molto più legittimate sulla base di un serio e aperto confronto politico capace di coinvolgere tutte le componenti in gioco. Ci sono i giovani, e sarebbe non solo giusto ma sacrosanto che si prendessero il posto che si meritano (sono loro la componente più densa del nostro elettorato) e facessero emergere un gruppo di quadri dirigenti che diano una faccia nuova alla lista (non dimentichiamo che l’età media dei garanti era sui 70 anni – di più quando c’era ancora Camilleri – mentre la maggior condensazione di elettori sta sotto i 30). In una logica non antagonista alle altre classi di età, evitando come il veleno retoriche rottamatorie in stile renziano, devono entrare in cabina di regia. C’è il piccolo esercito dei candidati, la rete dei grandi collettori dei voti raccolti, quelli che hanno avuto il contatto più diretto con la parte attiva del corpo elettorale insieme ai comitati (là dove hanno effettivamente funzionato come punti di aggregazione di energie nuove e non semplici intergruppi), e ci sono i titolari della memoria e del sapere dei due mesi di campagna, il cosiddetto Gruppo operativo. Senza dimenticare l’Associazione L’altra Europa con Tsipras, legale rappresentante della Lista, che non ha solo un ruolo notarile o solo il peso dei debiti contratti, ma una responsabilità pubblica relativa al suo destino. Mentre un discorso a parte merita il gruppo parlamentare, che costituisce, inutile nascondercelo, un’anomalia. E’ infatti l’unico gruppo parlamentare “senza partito”: privo cioè di una struttura formale a cui rispondere ma con all’origine – come “committente”, diciamo così -, una sorta di public company disseminata e articolata, composta da molteplici soggetti e soggettività. Per questa ragione credo sia fondamentale l’assoluta trasparenza della comunicazione e dell’informazione: sulla gestione delle risorse del finanziamento, che dovranno essere rendicontate pubblicamente nel dettaglio, sulla scelta del personale, e sull’attività politica all’interno del GUE e nelle commissioni, con report periodici frequentissimi. Così come la co-organizzazione di frequenti iniziative unitarie in Italia, in modo da assicurare la costante osmosi tra “esterno” ed “interno”, tra rappresentanti e rappresentati, tra azione parlamentare e insediamenti territoriali.

Domando, in vista del 19: può un aggregato così articolato generare un piccolo gruppo, in grado in pochi giorni di coordinare il percorso verso l’assemblea nazionale? Forse sì, lavorando molto sulla “chimica” che ci ha tenuto insieme nella campagna elettorale, e provando a intrecciare tra loro le tante proposte che sono state formulare in questi giorni nelle varie mailing list cercandone un denominatore comune che le renda convergenti. Per esempio, perché non sfruttare l’appuntamento del 5 luglio – già indetto nell’incontro tra il gruppo parlamentare e l’Associazione – per farvi confluire le altre componenti del nostro puzzle, i rappresentanti dei comitati che più e meglio hanno discusso in queste settimane, i candidati che possono venire, i giovani che a loro volta si sono incontrati, qualche decina di persone, forse un centinaio, che potrebbero individuare il “gruppo di contatto” che nelle due settimane successive ci dovrà condurre all’assemblea nazionale che – ne siamo tutti consapevoli – non dovrà essere un congresso, o una conferenza di organizzazione. Nella quale non ci saranno delegati e non si parlerà di prossime scadenze elettorali – sarebbe fatale, in questo contesto politico generale, lanciare messaggi autoreferenziali, che parlino a noi e non al “resto del mondo” -, ma in cui sarà invece importante rendere visibile la nostra proposta “ambiziosa”, non minoritaria, non burocratica, innovativa, EUROPEA, aperta a un futuro ampio più che ripiegata sull’immediato passato, sperando di avere con noi Alexis Tsipras.

E’ in quella sede che dovremo, a mio avviso, in primo luogo, decidere insieme cosa fare nei prossimi 6 mesi (nei quali, non dimentichiamolo, Renzi guiderà il semestre Europeo, offrendoci un’ottima occasione per fare politica Europea incidendo in Italia): quali campagne, scadenze e appuntamenti far vivere nei territori e nei comitati. In una parola, come rendere visibile all’esterno l’esistenza della “Lista Tsipras”. E, insieme, lavorare sulla nostra soggettività politica, cosa delicata ma necessaria, aprendo (con un lavoro di medio periodo) un confronto sulle forme del nostro stare insieme, su alcune, semplici e basilari, norme di condotta e su alcuni temi intorno a cui costituire gruppi di lavoro per i mesi successivi (con come scadenza, diciamo, l’autunno). Solo su questa base – come conseguenza dunque di una maggior chiarezza sul progetto e sul percorso e non come premessa – potremo procedere alla formazione di un gruppo di gestione del programma lì definito, che sia non tanto piccolo da apparire un’oligarchia né tanto ampio da essere ingestibile. Partendo da un’evidenza oggettiva: che il nostro gruppo parlamentare ha bisogno di un soggetto di riferimento, e che quel soggetto, a tutt’oggi, non c’è: sta dentro un percorso che dovrà compiersi in stretto rapporto con una situazione politica generale in rapido mutamento, misurandosi con opportunità fino a ieri impensabili e con sfide dall’esito non scontato e dipendente, in buona misura, dall’intelligenza, dalla flessibilità e dalla coesione che riusciremo a mettere in campo.

C’è molta materia su cui lavorare serenamente. Buon lavoro a tutti.

Marco Revelli

– See more at: http://www.albasoggettopoliticonuovo.it/2014/06/contributo-alla-discussione-di-marco-revelli/#sthash.NZNLMVal.dpuf

Babelezon bookstore leggi che ti passa

Articoli correlati

Lascia un commento

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.