Il complesso della patria assente

per Gabriella
Autore originale del testo: Francesco Bonicelli

di Francesco Bonicelli 14 settembre 2018

Gli ungheresi scrivono le date e i nomi al contrario di come fanno gli altri europei, e pare, se si dà retta a Emil Cioran, filosofo romeno transilvano (i cui genitori parlarono per tutta la vita ungherese), “piangono ridendo e ridono piangendo”.

La storia ha dimostrato che condannare un popolo intero per colpire il suo governo è un azzardo con pericolose conseguenze, da un punto di vista del calcolo politico pragmatico, un errore grave da un punto di vista della filosofia politica. Ciascun individuo ha infatti il diritto ad essere considerato nella propria singolarità, che non può mai essere puramente e soltanto funzionale a un sistema, ed un popolo ha il diritto ad essere letto come un’unità caleidoscopica e problematica di soggetti complessi.

La democrazia è piena di difetti ma sempre perfettibile e ciò la rende la migliore delle forme di governo testate nella storia, la forma di governo che ha permesso il più lungo periodo di pace in Europa, traguardo preziosissimo che si sta perdendo di vista per una visione falsata del mondo, frutto di una idea di politica da “agenzia immobiliare” (come ha brillantemente scritto Madeleine Albright), una democrazia sempre meno partecipata e inclusiva, sempre più dominata dalla semplificazione pubblicitaria e dagli interessi finanziari improntati ad abusare della nuova tecnologia per massimizzare meccanicamente i profitti ridistribuendo sempre meno, dove per libertà si intende solo più libertà di consumare illimitatamente e a qualsiasi costo, e per governo un apparato impersonale che riesca ad accumulare voti in qualsiasi modo con qualsiasi slogan di moda per conquistare il potere e sopraffare gli avversari, anche cavalcando fenomeni sociali spaventosi, certamente per vie democratiche ma di bassa qualità democratica, culturale e umana.

In questa visione è evidentemente ammissibile identificare un popolo con il proprio governo, nella prospettiva falsata e nella percepita infallibilità e ricerca di consenso (per molti versi spinta a estremi non così diversi da un regime non democratico) e priva di cultura problematizzante, per la quale una maggioranza percentuale, relativa o assoluta che sia, calcolata sugli aventi diritto di voto che si siano recati a votare, sia esattamente e intimamente rappresentata poi dagli esiti del governo formato conseguentemente e che, soprattutto, quel governo rappresenti veramente anche la maggioranza reale, ovvero senza tener conto della somma di tutti gli altri: i non aventi diritto di voto, per motivi di età o altro, chi ha votato altri partiti, chi non è andato a votare pur avendone diritto, ma anche, in senso più alto, un popolo in generale nella propria complessità storica e culturale-filosofica.

La storia non ha un tribunale, non deve assolvere o giudicare, dovrebbe provare umilmente a capire. Senza conoscere una cultura, volendo togliere il sapore del racconto alla storia, ciò è forse impossibile e senza una retrospettiva storica problematizzante, di cui la politica internazionale manca forse oggi in maniera straordinaria, si perde lo spessore delle cose e si apprezza tutto solo come una emergenza contingente in cui disperdere le proprie azioni.

Si ha l’impressione, insomma, che anche le scelte di politica internazionale siano dettate sempre più da una superficialità che considera tutto solo nella propria dimensione immediata.

Örkeny Istvan, umorista grottesco ungherese, scrisse che la vita è come un mucchio di peperoncini, si può cercare di farne una collanina ordinata e consequenziale, con un filo e tanta pazienza, oppure si può prendere ognitanto un peperoncino a caso dal caos, come si ha l’impressione che l’UE stia facendo oggi, avendo da tempo perso di vista gli Stati Uniti d’Europa, sembra preferisca fare la figura di chi, annaspando, dà colpi di coda a caso, ostinandosi ad offrire letture superficiali e a non investire nella reciproca e profonda conoscenza dei popoli europei.

L’Ungheria ha forse da sempre, più di ogni altro paese europeo, un’anima bipolare incompresa, e, ridotta a un terzo del suo territorio storico, si è trovata in più occasioni, nel corso del secolo scorso, nelle condizioni del bambino preso a cinghiate da diversi padri lontani e prepotenti, e quando gioca a fare la dura è sempre stato forse per memorie traumatiche e per la percezione di essere isolata e ostinatamente incompresa. Psicologicamente più un elemento che si autopercepisce indifeso e accerchiato è messo all’angolo, più cercherà di alzare la sua posta per vender cara la pelle, anche oltre la propria reale volontà.

Walter Lippman disse un giorno: “Nessuno ha mai sentito parlare dei secleri, nei paesi occidentali, eppure ce ne sono 800mila e anche tutti loro, come le altre minoranze più note, avrebbero diritto ad un posto al sole”. Ebbene, obiettivamente questo è un governo che è tornato a sventolare la bandiera seclera, che fa sentire gli ungheresi della diaspora protetti dalla madrepatria, che come tanti altri governi campanilisti dà l’impressione di parlare con il cuore, rubando la scena a chi avrebbe più argomenti e coscienza forse, ma non sa buttare il cuore oltre il traguardo.

L’Ungheria, soffrendo anche di un artificioso pregiudizio secolare di potenza imperialista e razzista, duro a morire, si sente linguisticamente e culturalmente accerchiata e sempre minacciata da potenze che l’hanno schiacciata e ritagliata, con una vastissima popolazione all’estero (ancora più di un milione di ungheresi vive in Romania e quasi mezzo milione in Slovacchia, gli stati successori della Grande Ungheria smembrata nel 1918), quasi due milioni fra USA e Canada di discendenti di esuli ungheresi dalle varie fasi critiche fra i secoli XIX e XX e di ungheresi perseguitati nei nuovi stati post-bellici, 80mila in Brasile, 50mila in Argentina, 67mila in Australia, più di 200mila tra Francia e Germania. E nessuno si è preoccupato di parlare, per esempio, del recente divieto slovacco di doppia cittadinanza o dei preoccupanti episodi magiarofobi a Cluj-Napoca.

È probabile che le sanzioni non faranno altro che rafforzare il sostegno a un governo indesiderato, da parte di un popolo reale generalmente ospitale e generoso a tutti i livelli, e con una storia varia e lunghissima. Non solo, tale decisione ha l’aggravante di dare l’impressione a tutti, che davvero nelle alte sfere UE non si riesca che a ragionare in freddi termini quantitativi: non si compra l’anima di un popolo solo con generosità di fondi, né lo si educa chiudendo i rubinetti, lo dice la storia. E non ci si può ricordare di un paese solo quando fa qualcosa di sgradito, come innalzare l’età pensionabile dei giudici e impedire alle banche la speculazione criminale in costituzione, perché, prima della censura e dei respingimenti e dei muri, tutto è iniziato così, sette anni fa, e occorre ricordarlo, perché allora, quello che è seguito da parte di Budapest, da allora ad oggi, si potrebbe anche maliziosamente vedere come una sorta di susseguirsi di risposte spavalde e arroganti (talvolta crudeli e disumane), da parte di un governo campanilista e incauto, a continue provocazioni capziose da parte di istituzioni lontane e forse non meno arroganti, sicuramente non intenzionate a negoziare e capire le radicali ragioni di un certo esecrabile nazionalismo e a capire in profondità le storie e le culture dei popoli.

Se diamo ascolto allo storico ungherese medievale Kezai Simon, il primo mitico re ungherese fu Attila, in realtà re degli unni, un popolo uralo-altaico su cui gli storici ungheresi medievali e rinascimentali fantasticarono e dal quale fecero discendere il popolo ungherese. In realtà non sembra così fantastica la parentela fra gli uomini di Attila e gli uomini di Arpad, dato che anche questi ultimi, non-indoeuropei, provenienti dalla stessa area degli unni, si andarono ad insediare, secoli dopo la misteriosa scomparsa di Attila, proprio nello stesso bacino dove si era stabilito il re degli unni. Re che scompare appunto improvvisamente dalla storia, eternizzandosi, continuando ad essere venerato come mitico e misterioso capostipite da molti ungheresi (come è testimoniato anche dall’uso del nome Attila), sebbene abbia seminato il panico in Europa occidentale, lasciando ancora a distanza di più di mille anni traccia di sé in proverbi spaventosi. Re che scompare lasciando tracce profonde nell’immaginario dei suoi presunti discendenti, come una sorta di saudade danubiana, ante-litteram, il complesso del re assente e della potenza perduta.

Non sorprende che questo complesso abbia anche segnato il destino della storia ungherese, segnando momenti di depressione mistica collettiva, quasi nichilistica, dopo periodi particolarmente tragici, come le devastazioni mongole, la catastrofica battaglia di Mohacs contro i turchi – che aprì la strada a secoli di pretendenti, i Zapolya, Thököly, i Rakoczi, i Bathory e i Bethlen vari, dando anche occasionalmente un re al Madagascar: Moric Benyovsky (1746-1786) – passando per la guerra dei trent’anni, altre devastazioni ottomane, il 1848, il 1867, anno in cui la corona ungherese di Santo Stefano fu data a Francesco Giuseppe, dopo anni di repressione e infine dopo la prima guerra mondiale la corona tornò ad essere vacante, nel lungo periodo di reggenza dell’ammiraglio senza flotta Horthy, per due volte minacciato (nel ’20 e nel ’21) dal pretendente Carlo d’Asburgo. Il primo dopoguerra fu un momento tremendo, portò poeti come Jozef Attila a scrivere che il piatto nazionale fosse un piatto vuoto e Ady Endre: “Dio non abbia pietà, io sono ungherese”, già Kosztolany Dezso aveva scritto che qualsiasi cosa sia esistita il vuoto ne prenderà il posto, Ödön von Horvath descriverà in un suo romanzo “La gioventù senza Dio”, tanto per dare un’idea del momento e del senso annichilente di catastrofe.

Sul finire della Grande Guerra, mentre il cugino di Francesco Giuseppe, soprannominato Joe Habsburg, offriva la corona ai Windsor, il discendente di Batthyany Lajos (capo della rivoluzione ungherese ucciso nel 1849), Batthyany Ervin, esprimendo una parte dell’anima ungherese, fondò una delle più importanti e autentiche comunità anarchiche della storia, a Bögöte. Nello stesso momento anche due suoi nobilissimi parenti optavano per prendere la strada della propria spogliazione redentiva  per salvare la nazione in sfacelo: Moric Eszterhazy (nonno dello scrittore Peter e del calciatore Marton, e nipote di Miklos, mecenate di Haydn) e suo cugino Karoly Mihaly, capi della nazione sconfitta, a distanza di pochi mesi, che sommavano centinaia di migliaia di ettari, avevano cercato, senza successo, di effettuare una grande riforma agraria e sociale, per uno stato multinazionale confederato, smettendo di competere in magnificenza con un imperatore e re di nuovo assente.

D’altra parte nemmeno i regimi comunisti ungheresi rinunciarono all’idea millenaria di missione unificatrice del bacino carpatico-danubiano e di ricostruire la patria assente, in una lettura magiara dell’internazionale proletaria, non solo durante la breve Repubblica dei Consigli del 1919, ma anche poi Nagy Imre, nel 1956, fu animato dall’idea di una confederazione balcanica per un socialismo alternativo a quello sovietico.

Per questo forse soprattutto quella rivoluzione fu repressa nel sangue dai carri armati sovietici, come narrato da Indro Montanelli, nella totale scandalosa indifferenza del mondo libero, nell’autunno di sessantadue anni fa.

Tuttavia quel tragico momento mise al potere una sorta di nuovo “re ungherese”, aprendo a un nuovo e raro momento di “espansione” nella storia ungherese moderna e contemporanea, in cui lo slancio nomade dello spirito ungherese è per lo più stato sotto le ceneri delle tante sconfitte e repressioni. Fu Kadar Janos, prima repressore del ’56, poi “padre della patria”, a ricostruire un’idea nazionale forte di Ungheria, aprendola al commercio internazionale, rendendola il più ricco fra i Paesi del Patto di Varsavia, fingendo di battere i pugni sul tavolo con i russi, ricevendo onori dalla Thatcher e da Reagan, fino a riportare dagli USA la Corona di Santo Stefano, nel 1978 e ad essere riconosciuto come guida benevola di una transizione sorprendentemente pacifica alla democrazia, già dal 1988.

Non si può nemmeno dimenticare che le potenze vincitrici della prima e della seconda guerra mondiale hanno dato man forte a lungo agli stati successori nelle loro angherie ai danni dell’Ungheria nel primo dopoguerra, armando l’avanzata degli eserciti romeno e cecoslovacco ben oltre le linee etniche, senza sanzionare i loro abusi sulla popolazione sconfitta, non permettendo di esprimere il proprio parere agli ungheresi rimasti oltre i nuovi confini e lasciando inascoltati per decenni le loro denunce e il loro malessere. Ciò non ha fatto che rafforzare il nazionalismo ungherese fino al secondo conflitto mondiale, con le note tragiche conseguenze, al termine del quale, quelle stesse potenze riconobbero, dopo solo due anni di un governo di unità nazionale, il colpo di stato di Rakosi Matyas, facendo poi finta di niente davanti alle drammatiche invocazioni di aiuto da parte di Nagy, appena otto anni dopo, temendo la distruzione dell’equlibrio fra blocchi.

Lo stesso nazionalismo horthysta e dei gruppi ancora più estremi come Magyar Szemle o dei banditi proto-nazisti magiari (che poi eventualmente confluirono nelle croci frecciate), si cibarono del senso di frustrazione, di persecuzione reale, di accerchiamento, di deliberata indifferenza e incomprensione della realtà magiara, da parte delle potenze, esacerbando il conflitto prima di tutto culturale fra la posizione ungherese e il resto del mondo. I criminali di Pronay Pal, soldati allo sbando e dediti al saccheggio, all’uccisione di socialisti, liberali, ebrei, zingari, dopo la grande guerra, non avevano un nome grandioso e altisonante, si chiamavano Guardia Stracciona.

Forse l’UE, nel suo complesso, dovrebbe considerare l’Ungheria come un compagno di strada dalla repressa anima nomade (come il Sindbad di Krudy), con motivati complessi di persecuzione e di impotenza, che più che prepotente e pericoloso, se sempre messo all’angolo, considerato inferiore, giudicato dall’alto in basso, con paternalismo e scarsa conoscenza della storia, colposa ma talvolta volontaria e compiaciuta, con un senso di superiorità da “fratelli maggiori”, senza una promozione di una vera conoscenza orizzontale e multiculturale fra pari, con pregiudizi e stereotipi incancreniti attraverso i quali si voglia modellare l’Europa di domani, che ormai sembra un cavallo stanco e assetato, l’Ungheria vedrà l’UE sempre più come quella grande balena ingombrante e misteriosa, piombata da chissà dove e chissà come nel centro di un villaggio, come nel romanzo “Melancolia della resistenza”, di Krasznahorkai, reso cinematograficamente da Tar. Solo con il rispetto, la solidarietà, l’empatia e la conoscenza culturale ampia, libera e reciproca, anche l’accoglienza degli altri e il multiculturalismo diventeranno valori non negoziabili di un’Europa che li sancisce quando vengono apertamente e volgarmente perseguitati da qualche capro espiatorio da sanzionare, ma non ha nemmeno il coraggio di applicarli davvero appieno laddove potrebbe.

L’UE è uno spazio di libertà e diritto che non ha eguali al mondo e prima di tutto deve costruire il multiculturalismo fra i propri membri, senza autoritarismo e senza puntare a tornare a far parlare di sé in occasione delle malefatte di un membro da sanzionare, ci auguriamo di cuore che possa far parlare di sé per altro e trattenere i suoi membri in altri modi, che non diventi una patria assente dei propri popoli.

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