Non sono liquida, sono povera

per Gian Franco Ferraris
Autore originale del testo: Maria Angiola Gallingani / Fausto Anderlini
Fonte: facebook

di Maria Angiola Gallingani

A proposito anche di patrimoniale, TFR, Irap e quant’altro…

Io a questo sciopero, di cui Fausto narra con lo stile e l’intelligenza consueti. non c’ero. Non ero neppure in giro a far da “contorno”.
Pur condividendone pienamente le ragioni, e riconoscendo i meriti della CGIL, a questo sciopero, come ad altri prima, non ero presente.
Se davvero siamo tornati all’Ottocento, e al di là delle etichette con cui si denomina la funzione che ricopro nella vecchia e morta Provincia, per un complesso di ragioni che attengono soprattutto il noto funzionamento delle reti di protezione familiare, appartengo a una quota marginale del ceto medio che è stata precipitata dagli eventi direttamente nel lumpenproletariat.
Non è una condizione piacevole da esibire. Specie per chi, almeno nell’animo, non è ‘lumpen’.
Mi fa piacere certo che ben 30.000 persone a Bologna siano riuscite a scioperare – non mi fa altrettanto piacere non aver potuto essere tra quelli.
La condizione lumpen tende a isolare ed emarginare – il rigetto dell’organizzazione e della condivisione funziona ahimè nei due sensi, ci si può escludere volontariamente, o si può restare esclusi perchè costretti.
Penso però, guardando fuori e oltre Bologna, a questo nostro disgraziato paese, che molti altri siano in condizioni simili. Non è per me motivo di allegria, nè mi sento meno sola.
E’ però una delle chiavi, quanto mai solide, di comprensione della constatata disaggregazione.
Un motivo brutalmente materiale – così come brutale è il pacchetto di tributi a vario titolo ‘patrimoniali’ (perchè, cara Camusso, la patrimoniale esiste eccome, e non il contrario) che proprio nel giorno di ieri hanno celebrato un’importante dolorosa scadenza – in un paese in cui la diffusa proprietà dell’abitazione, perpetuata lungo molteplici assi ereditari dai tempi in cui all’abitazione di proprietà ai ceti popolari era possibile ancora l’accesso, è in molti casi l’ultimo ‘rifugio’ di gente che – accade – non ha più alcun reddito.
In questo senso, a proposito della diseguaglianza crescente, è utile compulsare le ‘mappe’ della TASI nelle principali città italiane, per constatare come la tanto decantata ‘sussidiarietà comunale’ abbia prodotto una vera e propria giungla, non solo delle aliquote applicate, ma anche e principalmente dei diritti alle detrazioni – talora basate sul valore catastale degli immobili, talaltra sui componenti il nucleo familiare, talaltra ancora sui livelli di reddito, e così di seguito – disegnando un diritto/dovere letteralmente a macchia di leopardo, in cui l’orwelliano ‘più uguale degli altri’ diviene la regola e non più l’eccezione.
Una delle ragioni per cui, nei confronti europei, il risparmio degli italiani appare in media più elevato di quello degli altri cittadini europei è il fatto che per la quasi totalità gli italiani sono proprietari della casa in cui abitano.
Il combinato disposto di una piccola e all’apparenza innocua norma costituzionale (Art 47, comma 2), e dell’assoluta pluridecennale carenza di programmi di edilizia economica e popolare su larga scala – a differenza del nucleo UE originario -, hanno prodotto questa situazione, rendendo l’affitto quantitativamente residuale e qualitativamente inaccessibile – destinato, questo sì, a quella sorta di nuovo jet-set che è l’originale società liquida descritta da Bauman, che quando non vola in business si rilassa in questo o quell’altro tra i pied-à-terre dispersi nel mondo.
Su questo ‘patrimonio’ dei ‘proletari difettosi’, quali risultano essere gli italiani-proprietari, infuria la giungla che dà voce all’augusta intoccabile autonomia comunale.
I vostri genitori, a un certo punto della loro vita, hanno pensato bene di investire nella casa di proprietà i propri risparmi?, Bè, mal ve ne incolse – a voi eredi – che magari avete pagato anche e ripetutamente le tasse di successione, prima che Berlusconi pro domo sua le abolisse. ora non avete un mano più che cespiti d’imposta… Altro che rifugio.
Più in generale, il risparmio non è pratica apprezzata, di questi tempi. Le elucubrazioni dei tanti (troppi) sul tema ‘come mettere le mani sul TFR dei dipendenti’ sono eloquenti. Come a dirci sottilmente ‘del diman non v’è certezza’, le Sirene/Cassandre del rilancio della domanda via TFR si prodigano nei tentativi più vari di liberare risorse per il consumo qui e ora (alcuni tra questi di autoappellano keynesiani) – nell’implicita consapevolezza che, quando avremo raggiunto quella vecchiaia per cui il TFR è stato accantonato, o saremo già morti (e finalmente potranno ‘consumarlo’ allegramente i nostri eredi-cicale), o comunque non staremo senz’altro troppo bene…
Qualunque medico – il vostro medico di base, per esempio – vi potrà dire che sono allo studio ipotesi di trasformare le prestazioni oggi gratuite in prestazioni a pagamento.
Da ultimo, viene il taglio dell’Irap (il secondo), celebrato come il ‘primo provvedimento che abbassa le tasse’ – ma non dichiarato nella sua prima conseguenza…
Già destinata a finanziare la spesa sanitaria da parte delle Regionale, l’Irap, che è appunto imposta regionale, cesserà di finanziare quella spesa nella stessa misura in cui sarà abbassata per le imprese. A spolpare il resto delle risorse sanitarie ci penserà o il DEF – o qualche manova correttiva che potremo aspettarci a giungo dell’anno prossimo se non anche prima…
Saremo curati meno, saremo curati peggio, non saremo curati affatto se non siamo in grado di pagare. Moriremo presto – magari prima di aver incassato il TFR – per non parlare della pensione…
Ciò che, è il caso di dirlo, è ‘scandalo agli occhi di Dio’, in un paese in cui il prelievo fiscale si attesta in media oltre il 40 %.
Moriremo presto.
Perchè non subito, uno dice (e si domanda nel profondo del cuore…).
Perchè i tempi della vita sono quelli del piano di rateizzazione, e a nessuno farebbe piacere, lui, che ha avuto in eredità la sua casa, d lasciare ai propri figli debiti e protesti…

Se dovevamo tornare all’Ottocento, mio caro Kapital non c’era poi bisogno che tu la facessi così complicata…
Ci saremmo tenuti le topaie di cui parla Engels, e la sera saremmo andati all’osteria a ubriacarci.
Saremmo morti anzitempo di cirrosi o di polmonite o di tbc – ma non avremmo conosciuto la parabola triste e bruciante d’illusione-delusione che ha attraversato le ultime tre generazioni, dai nostri genitori ai nostri figli…
Ora però (al di là delle preferenze personali circa l’alcool) anche le ‘osterie’ sono diventate, per noi lumpen-Denker, quasi off limits…

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di Fausto Anderlini

Lo Sciopero. Ritorno all’origine (del mondo).

Sciopero politico, forte e solitario. La Cgil regionale ha portato a sfilare per le vie di Bologna fra le 25/30.000 persone. L’avanguardia militante degli associati. Donne, molte lavoratrici, gente nel fiore dell’età, neppure tanti anziani targati Spi. Con al centro la Fiom. Una massa notevole e compatta. Piazza ricolma, anche se è mancato quel flaneur di girovaghi – studenti, simpatizzanti, curiosi, perdigiorno, pubblici impiegati, ceti medi ‘riflessivi’, ceti politici (neanche uno del Pd, neppure i candidati regionali) ecc. – che l’avrebbe resa traboccante. Era cioè assente (questa è la mia impressione) il ‘contorno’, meno prosaicamente, quell’opinione pubblica ‘progressista’ che in tempi precedenti usava mettersi a rimorchio. Dovessi trarre una sintesi direi questo: prova di forza organizzativa pienamente riuscita, ma che sconta la disaggregazione, cioè la liquidificazione (e per molti aspetti anche la liquidazione) del popolo di centro-sinistra. Cioè la frattura delle cinghie egemoniche. Questa è in effetti la situazione: sindacato senza partito. Un corpo solido di organizzazione radicato nella società, che non ha più il referente politico. Evaporato, quest’ultimo, come audience pseudo-elettorale oggetto di manovra di un ceto di potere autoreferente. E comunque la Cgil c’è. Corpo solido dotato di cultura, tradizione, identità, organizzazione, apparato. Che non si è lasciato irretire dalle sirene del gattopardismo rampante, dal futurismo privo di scopo, dalla fregola di una post-modernità di vernice ad usum delphini. L’apparato Cgil, come viene chiamato con disprezzo, è tutto quanto è rimasto della sinistra. Oserei dire, la sua parte sensibile e concreta, il centro della sensualità: carne, ideali, umanità, sentimento, dignità. Una lotta di resistenza. Siamo tornati all’ottocento. Siamo cioè daccapo.

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