Ricordando Eco. Due postille e un lascito

per stefano01

   di Stefano Casarino   25 febbraio 2016

Per più di quarant’anni (dal 1975 al 2016) Umberto Eco è stato professore dell’Alma Mater Studiorum, l’Università di Bologna, la prima, più antica università del mondo occidentale (nata presumibilmente nel 1088).  Un notevole lasso di tempo, che lo accosta ad un altro grande intellettuale del passato, oggi ingiustamente dimenticato, quasi rimosso dai programmi scolastici e snobbato dalla critica recente:  Giosuè Carducci, che vi insegnò dal 1860 al 1904 e che nel 1906 fu insignito, primo italiano, del Premio Nobel per la letteratura.

Pur molto diversi per indole e temperamento, imparagonabili per scelte estetiche e convinzioni politiche, Eco e Carducci hanno però almeno altri due punti in comune, oltre alla “longevità” accademica: la passione per l’insegnamento (la “libido docendi”, com’è stato detto) e il conseguimento di un enorme successo e di una vasta popolarità già durante la loro vita.

Nessun altro autore italiano di oggi ha ottenuto il plauso mondiale di Eco: autore da trenta milioni di copie (tante ne sono state vendute de Il nome della rosa, tradotto in più di quaranta lingue: i romanzi posteriori, però, non riscossero un successo neppure lontanamente paragonabile a questo); insignito di più di quaranta lauree honoris causa in Europa e in America, Eco è stato il volto più “pubblico”, più immediatamente riconoscibile della cultura italiana, un imprescindibile modello di letterato postmoderno, contraddistinto da una sterminata (spesso compiaciuta) erudizione e da un raffinato senso dell’ironia.

Sarebbe inutile ora ripercorrere per l’ennesima volta il suo itinerario artistico e culturale: ma dei tanti aspetti della sua poliedrica attività forse uno è rimasto un po’ in ombra, quello di compilatore di introduzione a testi particolari.

Ne cito due esempi: due “postille”, appunto.

Eco ha scritto un “Saggio introduttivo” a Homo Ludens fi J.Huizinga, testo del 1939 uscito per la prima volta in traduzione italiana nel 1946.

Rileggerlo oggi, ci permette di comprendere alcune costanti del suo pensiero.

Anzitutto, l’interesse per tutto ciò che è “gioco”, “leggerezza”, “ironia”: e il libro di Huizinga non poteva non riscuotere il suo interesse, visto che legittima autorevolmente la cultura come “gioco dei giochi”, proponendo addirittura l’equazione “homo sapiens = homo ludens”.

Un’affermazione come la seguente, che riporto integralmente, permette – a mio giudizio – di entrare in sintonia sia con Huizinga che con Eco e il postmoderno.

 

Una volta identificate le caratteristiche del gioco si arriva all’assunzione che i caratteri del gioco sono quelli della cultura e che quindi la cultura sin dall’antichità si manifesta come gioco. E in questo senso si esce subito dalle malinconie apocalittiche di chi vede la modernità come degenerazione ludica della cultura: la prospettiva è anzi rovesciata, la ludicità è contrassegno delle culture classiche e (semmai) viene messa in crisi dalle degenerazioni della cultura contemporanea (le parate di Norimberga sono manifestazione di “puerilismo” e non hanno le caratteristiche sovrane del gioco, la sua fondamentale serietà, la sua adesione a regole razionali, la sua capacità di fondere, sia pure nella competizione, convivenza e civiltà).

 

Il lettore attento avrà subito colto la latente polemica contro gli “apocalittici” (Apocalittici e integrati è il fortunato ed originalissimo – per i tempi – saggio del 1964) da parte dell’allora “integrato” Eco (salvo poi diventare un tantinello “apocalittico” pure lui negli ultimissimi tempi, se si rammenta la sua violenta “scomunica” del web, che tanto ha fatto discutere, nel giugno 2015 in occasione del conferimento della laurea honoris causa all’Università di Torino in Comunicazione e cultura di massa e il suo atto di fede nei confronti della stampa: Sono fedele ad Hegel che diceva che la lettura del giornale è la preghiera quotidiana dell’uomo moderno).

In modo opposto agli intellettuali “passatisti” che deplorano la modernità perché fa trionfare il futile e l’impoetico, Eco ritiene che la vera cifra della cultura non sia la seriosità, ma la verve, il brio, la “leggerezza” e che in questo ci sia una sostanziale continuità con la tradizione classica.

Viva, quindi, il gioco, ma un gioco razionale, scrupolosamente rispettoso di regole precise e complesse. Un gioco, comunque, che non prescinda mai da “convivenza” e “civiltà”: dell’uomo e per l’uomo, con una convinta impostazione antropocentrica.

Pur apprezzando indubbiamente Huizinga, però, Eco sale un po’ in cattedra e si mette a fare il professore: proseguendo la lettura del suo “Saggio”, constatiamo che sembra quasi compiacersi di registrare le insufficienze e le contraddizioni di quell’opera.

Prende la penna rossa e segnala: “rischia di non fare una storia di idee bensì di sentimenti” (e dove starebbe, di grazia, qui, il difetto?); “non è relativista abbastanza”; “non ordina il materiale sistematicamente”; “non fa una teoria del gioco ma del comportamento ludico”.

Ma quando sembra che il povero Huizinga ne esca distrutto, ecco che Eco smette questa sua apparente acrimonia, se ne fa quasi beffe, affermando: stiamo chiedendo a Huizinga qualcosa che gli non pensava di darci e lo stiamo rileggendo dopo aver letto i testi della teoria dei giochi, i paralleli saussuriani con gli scacchi, Lévi-Strauss e Lacan.

In definitiva, quindi, non dobbiamo infierire su un libro che, scritto in altra epoca, era estraneo ai problemi che gli poniamo.

Cioè, non dobbiamo fare quello che abbiamo appena smesso di fare!

Se non c’è ironia qui…!

Al termine del saggio, Eco segnala un rischio, quello di perdersi nella contemplazione del gioco. Forse è proprio il rischio che ha corso, più o meno consapevolmente, il postmoderno.

Di genere diverso è, invece, l’introduzione ad un’altra opera, un divertente romanzo di David Lodge, Small World: an Academic Romance, uscito nel 1984 e tradotto in italiano nel 1990, con un titolo che si discosta parecchio dall’originale: Il professore va al congresso.

Anche Lodge è un autore che ha più di un’affinità con Eco: quasi coetanei (Eco era del 1932, Lodge è del 1935), entrambi docenti universitari, critici e scrittori; entrambi di formazione cattolica (Eco in gioventù si impegnò nell’Azione Cattolica ma si allontanò dopo i vent’anni dalla Chiesa; nei romanzi di Lodge la religione compare spesso: un esempio ne è proprio l’opera citata) ed entrambi fortemente critici nei confronti della religione (Lodge arriva a definirsi un “cattolico agnostico”; Eco ha affermato che proprio lo studio di S. Tommaso lo aveva miracolosamente curato dalla fede); entrambi, soprattutto, dotati di uno spiccato sense of humour.

La nota introduttiva che Eco dedica al libro di Lodge ha un titolo azzeccato: Piccolo mondo modernissimo. Subito si afferma che si tratta di un “cult book” e si chiarisce il perché del diverso titolo italiano: In italiano con titolo diverso per colpa di Fogazzaro e di Guareschi che hanno occupato in anticipo il territorio dei Mondi Piccoli e dei Piccoli Mondi.

Anche questa precisazione è una perfetta rivelazione dell’arguto stile di Eco.

In sole tre paginette introduttive, poi, Eco con piglio manzoniano appella direttamente i gentili lettori, raccomandando loro di non autoescludersi da questo libro, di non privarsi della sua lettura perché tratta di un mondo, quello accademico, di cui la maggior parte di loro non ha diretta esperienza.

E commenta, con ironico ricorso alle interrogative retoriche:

 

Forse che voi siete mai stati pirati della Malesia, a giorno di ogni vela di un praho di Mompracem? Forse che voi siete mai stati invitati a cena a palazzo Volkonskij e sapevate come conversavano tra loro, e in francese, i nobili moscoviti? E davvero sapevate come vivesse un medico condotto della provincia francese, prima di leggere Madame Bovary? E conoscevate un macello prima di leggere Zola? Sapevate della terra dello Hobbit prima di leggere Tolkien? Da dove avete tratto le vostre nozioni sulla Londra del secolo scorso se non da Oliver Twist e le nozioni sulla Parigi misteriosa dello stesso periodo se non da Senza Famiglia?

 

Come si vede, un appello ad un pubblico comunque di lettori eclettici, di medio-alto livello. Mi chiedo se oggi, a ventisei anni di distanza, Eco manterrebbe inalterato questo appello: Tolkien a parte, è così scontata oggi la lettura di Salgari, Tolstoj, Flaubert, Dickens e Malot?

Detto tra parentesi, poi, si noti l’eterogeneità della “sesta compagnia”, per dirla con Dante: tre classici (Tolstoj, Flaubert e Dickens) e tre autori decisamente più “pop” (Salgari, Tolkien, Malot), almeno per quei tempi, oggi Malot e Salgari non credo godano di così buona salute. Come si vede, neppure qui Eco rinuncia alla commistione di “alto” e “basso”!

Leggere –  ribadisce Eco – significa sempre e comunque imparare: I romanzi si leggono anche per apprendere le nozioni che vi consentiranno di leggerli. Essi ci introducono a mondi che ci erano ignoti, e ce li rendono familiari.

Ecco qui la fiducia nella conoscenza che deriva dall’apprendere delle storie, dal sapere narrativo. Ora che tace una delle voci più autorevoli che la esprimeva,  sarà ancora condivisa e resterà salda ancora a lungo questa fiducia?

Di Lodge Eco apprezza due cose: l’ironia e la cattiveria. Ai lettori assicura che quel libro è divertente (Leggete Lodge. Avrete conquistato un mondo, e vi sarete divertiti come non mai): ed ha perfettamente ragione, il consiglio è assolutamente condivisibile.

E poi aggiunge: Ma Lodge, oltre che divertente, è cattivo. Credo che sia uno degli uomini più cattivi che esistano. In fin dei conti, parla male (ma con quale delizia) del mondo in cui vive. Ma, in fondo, questa è la missione del Grande Narratore.

Non si potrebbe dire lo stesso proprio di lui? Credo che forse ne sarebbe contento.

Ed anche qui, da professore che deve catalogare e mettere tutto al suo posto, non manca la definizione e la classificazione (eredità della tomistica? vezzo accademico?): Se proprio si dovesse darne una definizione per generi e capitoli di una storia della letteratura, ebbene, Lodge ha inventato con questo libro il picaresco accademico.

Chapeau! Non si sarebbe potuto dire meglio e credo che oggi non si possa prescindere da ciò per una piena comprensione del godibilissimo romanzo di Lodge.

 

Parlando degli altri autori, siano essi critici o romanzieri, Eco ci parla di sé, ci rivela tratti del suo carattere riscontrandoli in loro. È, in fondo, il processo di immedesimazione di  ogni lettore appassionato, più o meno esperto di critica letteraria, di strutturalismo o di post-strutturalismo. Anche questo è un aspetto imprescindibile della sua personalità.

Da lui dovremmo imparare questo, il piacere indispensabile e la necessità vitale della lettura,  la dipendenza dal libro, che lui pienamente incarnava.

Ma un’altra sua lezione mi piace ricordare, riprendendo il suo capolavoro, Il nome della rosa, che divenne film nel 1986 senza che Eco gradisse particolarmente tale trasposizione e che egli sottopose ad una revisione (operazione manzoniana anche questa?) nel 2011, giustificandola come lavoro di “cosmesi” e però suscitando le critiche di chi l’ha ritenuta un’indebita opera di semplificazione.

Un libro che Eco arrivò quasi a disconoscere, ad esecrare pubblicamente ( Io odio questo libro e spero che anche voi lo odiate. Di romanzi ne ho scritti sei, gli ultimi cinque sono naturalmente i migliori, ma per la legge di Gresham, quello che rimane più famoso è sempre il primo: anche qui, non manca l’esibita erudizione della citazione, forse però non calzantissima, della legge di Gresham, che riguarda la monetazione).

Libro che legittima molteplici piani di lettura, è certamente uno dei risultati migliori e più convincenti del postmoderno e contiene tutti i migliori ingredienti dello stile di Eco (con sua buona pace: ma si sa, quasi mai gli autori sono critici attendibili delle loro stesse opere). C’è in particolare un’affermazione che Guglielmo fa al suo pupillo Adso che voglio trascrivere:

 

Temi, Adso, i profeti e coloro disposti a morire per la verità, ché di solito fan morire moltissimi con loro, spesso prima di loro, talvolta al posto loro.

Parole scritte nel 1980: allora il riferimento era al terrorismo politico, si vivevano ancora gli Anni di Piombo. Ma non è davvero difficile attualizzare il tutto nei nostri tempi odierni, nei quali al terrorismo politico si è sostituito  – e su scala planetaria – quello religioso. Queste parole di Eco, divertito e appassionato studioso del Medioevo  – che ha interpretato più sulla scia di Huizinga che di Burckhardt –, arrivano fresche ed immediate sino a noi, fanno appello alle nostre risorse di intelligenza e di ironia: gli unici antidoti, oggi e sempre, alla recrudescenza del fanatismo di ogni genere.

 


 

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