C’era una volta il riformismo, oggi approvano una impresentabile autonomia differenziata. La secessione dei ricchi

per Gian Franco Ferraris
Autore originale del testo: Ida Dominijanni
Fonte: facebook
C’ERA UNA VOLTA IL RIFORMISMO
Oggi sono vent’anni che mio padre se n’è andato e che mi manca, oggi esattamente come vent’anni fa. Ma gli anniversari tondi hanno un potere evocativo, ci fanno fare i conti col tempo che passa, con le cose che ritornano e con le cose che cambiano, nonché con le cose che ritornano cambiate. Così nelle settimane scorse mi sono messa a rileggere pezzi del suo archivio di politico meridionalista con un occhio all’oggi e a come la questione del dualismo italiano sta tornando in tempi di autonomia differenziata e di devastazione del welfare e in specie del sistema sanitario nazionale. È stato un tuffo nel laboratorio politico italiano in cui ho avuto la fortuna di crescere e di cui oggi restano solo macerie, ma anche nelle radici di quella fine della cosiddetta prima repubblica che solitamente datiamo ai primi anni ‘90 dimenticando tutto quello che la prepara negli ‘80 anzi già a fine ‘70.
Due momenti a titolo di esempio. Da assessore regionale socialista alla sanità, mio padre fu fra i protagonisti nazionali del percorso che portò all’istituzione del sistema sanitario nazionale nel ’78 (ministra Tina Anselmi), e contribuì alla sua attuazione con un piano sociosanitario, il primo del Mezzogiorno, del quale lui stesso ricorda, in un’intervista del 1988, che “si impose all’attenzione di tutta Italia e fu discusso in innumerevoli tesi di laurea nelle università” (e fu abbandonato quando lui passò ad altro incarico, perché in Italia in generale e in Calabria in particolare si ricomincia sempre daccapo). Rileggerne oggi i principi ispiratori fa uno strano effetto, come se nel frattempo ci fossimo trasferiti su un altro pianeta per poi scoprire, con la pandemia, che il pianeta giusto era quello di prima ostinandoci tuttavia a perseverare nell’errore. La sanità come diritto universale e gratuito, il servizio sanitario come sistema integrato di prevenzione, cura e riabilitazione, l’ospedale ridimensionato a vantaggio della medicina di territorio (non era quello che avremmo dovuto riscoprire dopo il Covid?), la professione medica orientata al servizio (pubblico, e all’epoca incompatibile con l’esercizio nelle strutture private), la salute mentale (senza manicomi) in posizione eminente. Soprattutto, la concezione della riforma sanitaria come tessera di un processo di democratizzazione e partecipazione che doveva coinvolgere – e all’epoca coinvolse effettivamente – i territori, le comunità, i sindacati, i medici, gli operatori, gli esperti: il riformismo un tempo era questo, prima di consegnarsi, in epoca neoliberale, al codice del profitto, della prestazione e del darwinismo sociale. Non che fossero rose e fiori: fra Nord “avanzato” e Sud “arretrato” era guerra guerreggiata già allora. Oggi si discute dei Lep senza approdare a nulla, allora la contesa riguardava i parametri per la ripartizione del fondo nazionale di assistenza ospedaliera, con vari trucchi escogitati dalle regioni ricche per accaparrarsi la fetta più grossa della torta. Ma il laboratorio italiano girava ancora in senso progressista malgrado la crisi energetica del ’73, e le battaglie egualitarie si potevano ancora fare e vincere, in nome di un regionalismo concepito come decentramento solidale e non come separatismo concorrenziale. In campo sanitario mio padre ne fece e ne vinse più d’una.
Pochi anni, e il quadro muta radicalmente. Secondo momento, 1980. Quando mio padre passa – prima volta di un socialista – alla guida della Regione, la crisi energetica è già diventata una crisi di sistema nazionale, che il conto più salato lo fa pagare, neanche a dirlo, al Mezzogiorno, fra l’altro sospendendo per cinque anni l’intervento straordinario senza implementare quello ordinario. La deindustrializzazione distrugge i già fragili poli di sviluppo impiantati in precedenza in Calabria, la disoccupazione cresce, la precarietà comincia a marcare il destino delle giovani generazioni. Sarebbe il momento di ripensare l’intero modello di sviluppo nazionale in senso post-industriale, puntando sull’ambiente e sul terziario neo-tecnologico e cogliendo l’occasione per accorciare le distanze fra Sud e Nord; invece, la deriva è quella di “aiutare il sistema produttivo dove c’è e lasciare che non sorga mai dove non c’è”. È allora che la narrativa mediatica comincia a cambiare, dalla centralità della questione meridionale a quella, presunta, della “questione settentrionale”, con relativa criminalizzazione del Sud: “Ogni volta che c’è un periodo di crisi, per sottrarre risorse al Mezzogiorno si tira fuori la storia che il Mezzogiorno non sa spendere e che le risorse pubbliche finiscono alla mafia, come se la mafia non fosse dappertutto e non prosperasse oramai soprattutto nelle città del Nord”. È la costruzione politica, mediatica nonché giudiziaria di quel “pregiudizio di Stato” di cui parla un recente libro di un altro ex presidente della Regione Calabria, Mario Oliverio. Da notare che fin dai primi anni 80, in prima linea nella guerra contro il Sud “parassita” c’è un Veneto late comer, smanioso di incassare i risultati del suo recente ingresso nel club delle regioni ricche. Per la Calabria intanto si prepara l’ennesima trappola, l’imposizione di una megacentrale a carbone, inquinantissima e del tutto superflua in una regione che di energia ne produceva all’epoca e ne produce oggi una quantità assai superiore al suo fabbisogno. Solo che all’epoca c’era una classe dirigente capace di opporsi. Mio padre disse no, in una audizione parlamentare non esitò a definire l’ipotesi della centrale “un ulteriore atto di colonizzazione” rivelatore di “un atteggiamento razzista” e attorno a questo no si coagulò un vasto movimento di sindaci, sindacati, intellettuali. La costruzione di quella centrale venne sventata, e quel movimento gettò le basi di una sensibilità ecologica che si riversò peraltro nel successivo lavoro di mio padre alla direzione del Parco naturale dell’Aspromonte.
Il regionalismo, intanto, mostrava già allora i primi segni di crisi, fra spinte neo-centraliste e resistenze locali alla funzione di pianificazione delle Regioni. Ma il rischio che si avvertiva era semmai quello di una secessione dei poveri, non dei ricchi. Nel 1984 mio padre avverte: “Abbiamo, in Calabria e in altre regioni meridionali, tensioni che non esito a definire separatiste. Se qualcuno si mettesse alla testa di un movimento di questo genere farebbe molti proseliti. Noi non vogliamo questo. Vogliamo l’unità reale di un’Italia che non sia solo un’espressione geografica”. Qualcuno, pochi anni dopo, approfitterà del crollo del sistema politico della prima Repubblica per mettersi alla testa della secessione dei ricchi.
IMPRESENTABILE
E’ inutile girarci attorno. L’approvazione dell’autonomia differenziata segna il trionfo del progetto secessionista che la Lega persegue da più di trent’anni, e che consiste nella “liberazione” delle aree più ricche del paese dal “peso” di quelle meno ricche. Solo in apparenza questo progetto è in contraddizione con quello nazional-sovranista di Fdi e di Giorgia Meloni. In realtà le due istanze, nazional-statalista e federal-secessionista, convivono da sempre nella destra triciipite messa al mondo da Berlusconi nel ’94 – esattamente trent’anni fa, neanche a farlo apposta -, si sostengono a vicenda sulla base di un interesse economico comune e trovano infatti pieno coronamento nella doppietta che affianca all’autonomia differenziata il premierato monarchico. Doppietta che a sua volta porta a compimento il progetto originario della destra tricipite suddetta: fare fuori – fare a pezzi, letteralmente – l’ordinamento della Repubblica delineato dalla Costituzione antifascista.
Non è ancora detto, ma è molto probabile in assenza di una mobilitazione straordinaria della società civile, che questo progetto vada in porto. E va accolta positivamente la promessa del Pd e di Si-Verdi di indire un referendum abrogativo dell’autonomia differenziata, da affiancare al prevedibile referendum contro la riforma costituzionale sul premierato. Però, anche su questo è inutile girarci intorno, anche questo sfascio dell’autonomia differenziata lo dobbiamo in gran parte all’inisipienza colpevole del Pd. Non solo perché tutto comincia con la dissennata riforma del Titolo V della Costituzione, voluta da un governo di centrosinistra per rincorrere la Lega sul suo terreno. Né solo perché sull’autonomia differenziata si sono allineati Bonaccini e altri governatori Pdini, o per fare a loro volta gli interessi delle aree ricche del paese o per consolidare i propri califfati locali. Ma perché nel corso degli ultimi trent’anni il Pd nel suo insieme si è accodato alla narrativa leghista del Sud assistito e piagnone, sotterrando qualunque istanza meridionalista o, che è lo stesso, qualunque lettura critica del capitalismo nazionale e delle sue iniquità e disuguaglianze. Con i risultati che oggi si vedono.
Da ultimo e non per ultimo: risparmiatemi commenti ispirati a una fantomatica visione “di sinistra” dell’autonomia differenziata. Uno Stato arlecchino, con competenze differenziate su materie come la sanità, al scuola, i trasporti (ma guarda caso non l’energia, perché se ci fosse una gestione regionale delle fonti energetiche questa sì che andrebbe a vantaggio del Sud), e senza meccanismi perequativi non è uno stato federalista, è semplicemente uno stato sfasciato e diviso per 21. Uno stato di staterelli uno contro l’altro armati, com’era l’Italia preunitaria, e soprattutto uno stato con al suo interno livelli disegualissimi di cittadinanza. In una parola, uno stato impresentabile.
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