Cosa significa “sostituzione etnica”

per Gian Franco Ferraris
Autore originale del testo: Livio Ghersi

 

Cosa significa “sostituzione etnica

 

La complessiva problematica dei migranti fa pensare ad una tragedia, come prova la vicenda dei tanti morti di Cutro vicino Crotone. Si richiede rispetto nei confronti di un’umanità sofferente.

La difficoltà inizia laddove alcuni presumono che non possano sussistere argomentazioni razionali contro la politica dell’accoglienza più ampia possibile dei migranti. Come se ad opporsi fossero soltanto i razzisti, i primatisti bianchi, gli egoisti.

Fin dalla prima elementare, la scuola pubblica insegna ai nostri bambini il valore primario e fondamentale dell’uguaglianza. Andando avanti negli studi, manca il senso critico che soltanto un buon insegnamento della Storia potrebbe assicurare. Si studia sempre meno la storia della filosofia; si ignora la geografia. Si fa credere agli studenti che il genere umano proceda necessariamente verso il meglio, che il progresso sia assicurato, che ogni singolo abbia diritto alla felicità personale. Per questa via le nuove generazioni sono sempre più fragili ed insicure. Stentano a fare i conti con il principio di realtà. Sono dunque spiazzate di fronte ad eventi quali i mutamenti climatici, la pandemia del Covid 19, la guerra intrapresa dalla Russia contro l’Ucraina. A nessuno verrebbe in mente poi che la scuola pubblica sarebbe tenuta a fornire agli studenti italiani una visione di cosa debba intendersi per identità nazionale italiana.

Avverto l’esigenza, all’inizio di questo articolo, di esprimere la mia piena solidarietà al ministro Francesco Lollobrigida, ed ai suoi familiari, ultime vittime dei pregiudizi del “politicamente corretto”.

Sembra che i nostri progressisti, paladini dell’uguaglianza, non possano sopportare, letteralmente, che si pronuncino alcune parole. La prima parola ostracizzata è, ovviamente, “razza”.

Il grande filosofo Immanuel Kant teorizzò, tra l’altro, l’imperativo categorico, secondo il quale ogni singolo essere umano rappresenta un fine (uno scopo) in se stesso, mentre il suo valore non deve mai essere abbassato a quello di semplice mezzo (strumento) per perseguire fini di altri.

Eppure anche Kant non resisterebbe oggi agli strali della censura del “politicamente corretto”. Alla fine del XVIII secolo, infatti, si occupò delle razze. Non perché fosse razzista, ma per la semplice circostanza di essere un serio studioso, appassionato cultore della antropologia. Quale studioso realista, Kant vedeva che gli esseri umani possono apparire anche molto differenti fra loro: per il colore della pelle, dei capelli, per il taglio degli occhi, la forma del naso, la corporatura, l’altezza media. Riconduceva tali differenze al fatto che, nel corso dei millenni, gli esseri umani si fossero dovuti adattare a condizioni ambientali e climatiche molto diverse, nei vari contesti geografici. Tali differenze fisiche tendevano a mantenersi nel tempo, anche quando gli insediamenti originari fossero stati abbandonati.

Il razzismo è una teoria sbagliata ed anche stupida. Dà importanza alle caratteristiche fisiche, ossia all’apparenza. Al contrario, si dovrebbe puntare tutto sulle caratteristiche spirituali. Mi riferisco all’indole morale (bontà, altruismo, capacità di ascolto, spirito di carità). All’intelligenza (la forza del pensiero, tanto nell’analisi, quanto nella sintesi). Al carattere ( la forza di volontà, la tenacia nel perseguire i propri obiettivi, la costanza ed il rigore negli studi, lo scrupolo nella esecuzione del proprio lavoro)- Alla creatività (nella letteratura, nella poesia, nella pittura e nelle altre arti figurative, nella musica, nel teatro, nella danza).

Il purismo linguistico/ideologico – che ha molto in comune con la tendenza detta della Cancel Culture, che si è manifestata negli Stati Uniti d’America – oggi sembra non tollerare nemmeno il termine “etnia”. In proposito, è fuori luogo ogni interpretazione che rimandi alla “pulizia etnica”, tristemente famosa ancora alla fine del XX secolo, al tempo della dissoluzione della Jugoslavia come Stato unitario; quando, ad esempio, la Bosnia conobbe le violenze dei Serbi.

Il concetto di etnia è molto simile a quello di nazione; non implica giudizi di valore. Semplicemente denota, all’interno di una organizzazione statuale più ampia, la presenza di gruppi sociali di minoranza, con proprie caratterizzazioni (linguistiche, religiose, storiche, culturali). Come dire che, in Italia, c’è una minoranza etnica tedesca, ubicata nell’Alto Adige. È la presa d’atto della realtà, non una offesa.

L’espressione “sostituzione etnica” è stata evocata in un significato meramente economico. Alcuni commentatori più o meno autorevoli, tra i quali il Presidente dell’INPS in carica, hanno espresso la loro preoccupazione per la sostenibilità, nel tempo, del complessivo sistema pensionistico italiano.

Preoccupa, in particolare, la prospettiva della riduzione della popolazione dell’Italia; preoccupa, soprattutto, l’allungamento della vita media: il quale comporterà che le persone attive (che lavorano) diminuiranno nel tempo, a fronte di una crescita del numero delle persone che percepiscono una pensione. Il Presidente dell’INPS, come è costume dei politici italiani, dimentica di precisare che i conti dell’INPS non potranno mai essere in equilibrio, perché l’Ente è chiamato ad erogare pensioni sociali (che prescindono dai contributi versati) e ad assolvere tanti altri compiti di Welfare State.

Chi consentirà, grazie ai propri contributi lavorativi, di assicurare la copertura economica degli oneri dovuti ai percettori, presenti e futuri, di pensioni?

Questo ruolo dovrebbe essere assolto dai lavoratori immigrati, entrati in Italia in modo regolare e legale. Tale teoria, a ben vedere, fa acqua da tutte le parti. Gli immigrati regolari finora hanno lavorato prevalentemente come: a) badanti per l’assistenza degli anziani, dei malati e dei disabili; b) lavoratori stagionali in agricoltura, con particolare riferimento alla raccolta di determinate derrate (ad esempio i pomodori); c) manodopera non qualificata da utilizzare nei settori della edilizia e della ricezione turistica. I predetti lavoratori immigrati sono tutti utilissimi; ma è impensabile che i contributi da loro versati (di entità modesta) possano coprire il fabbisogno complessivo del sistema pensionistico italiano.

Poiché non ho alcun complesso di inferiorità nei confronti dei progressisti, e non mi astengo dal contrastare il “politicamente corretto”, aggiungo che, dal mio punto di vista, deve certamente essere rispettata la dignità di tutti gli esseri umani. Non ritengo però che siano fra loro uguali; soprattutto credo che non siano fungibili tra loro. Che chiunque possa sostituire un altro essere umano.

Cento italiani, nati negli anni Cinquanta e Sessanta del secolo scorso, in teoria sono perfettamente sostituibili con cento lavoratori immigrati, provenienti dall’Africa Subsahariana. Anzi, questi ultimi hanno dalla loro parte i vantaggi della gioventù e della vitalità. Verranno, tuttavia, immessi in una realtà sociale e culturale quella italiana, che è profondamente diversa da quella dei loro Paesi di origine.

Qualora i nostri progressisti, paladini della uguaglianza, fossero sinceri, ammetterebbero che a loro non importa alcunché della fisionomia culturale, delle lingue e della storia dell’Italia, così come degli altri Stati membri della Unione Europea. Il loro reale obiettivo, infatti, è quello di instaurare, nel nostro continente, una società quanto più possibile multietnica. Sognano un grande “meticciato” universale. Io tengo, invece, a che in Europa continuino ad esistere davvero italiani, francesi, spagnoli, tedeschi, austriaci, polacchi, ungheresi, cechi, rumeni, danesi, svedesi, olandesi, belgi e tutti gli altri popoli, che, nella loro meravigliosa varietà, hanno costituito e spero possano continuare a costituire, l’autentica ricchezza dell’Europa.

Ci sarà certamente spazio per l’inserimento nella società italiana di quantità significative di lavoratori immigrati regolari; deve essere garantita loro una buona integrazione, nel senso di condizioni eque (quanto a salario, alloggio, assistenza sanitaria, ricongiungimento familiare, istruzione per i figli). In quantità numeriche tali da non alterare, però, gli equilibri complessivi della popolazione italiana, oltre una certa soglia programmata.

Con riferimento alla problematica della immigrazione, la sinistra politica, dominata dall’idea dell’uguaglianza, continua a dimostrare due vizi, dai quali non riesce ad emanciparsi: a) la presunzione di avere il monopolio della moralità, cosicché quanti espongono argomenti contrastanti sarebbero “necessariamente” in mala fede; b) l’intolleranza, che non si tenta nemmeno di mascherare, ma che viene manifestata nel modo più aggressivo e fazioso.

In occasione della tragedia di Cutro, vicino Crotone, il ministro dell’Interno, Matteo Piantedosi, fu pressantemente invitato a dimettersi per essersi limitato ad affermare che: 1) l’imbarcazione partita da Smirne, in Turchia, e che ha attraversato tutto il Mar Mediterraneo fino alla nostra Calabria, non sarebbe dovuta partire, in relazione alle caratteristiche e alla vetustà dello scafo, al numero delle persone imbarcate (circa duecento), alle condizioni climatiche; 2) i genitori dovrebbero avvertire l’elementare senso di responsabilità di non esporre i propri bambini, e comunque figli minorenni i quali non sappiano nuotare, a pericolosissime avventure, in condizioni climatiche avverse. Affermazioni di semplice buon senso.

Il punto sub 1) chiama in causa le grandi responsabilità della Turchia, ossia di un grande Stato, ex potenza imperiale ed oggi membro importante della Alleanza Atlantica (Nato); la Turchia, nota per l’autoritarismo del suo attuale governo, evidentemente non si vergogna di lasciare, a Smirne, campo libero agli scafisti, diventando così corresponsabile dei loro crimini.

A fondamento della intolleranza della sinistra politica sulla problematica dei migranti c’è la convinzione di essere dalla parte giusta della Storia. Vediamo, dunque, di analizzare tale convinzione. A) Tutti gli esseri umani avrebbero diritto di lasciare i Paesi di origine per cercare migliori condizioni di vita nei Paesi supposti “ricchi” (in primo luogo gli Stati Uniti d’America, ma anche molti Stati membri della Unione Europea e, fra loro, l’Italia). B) Il fondamento giuridico della predetta teoria dovrebbe limitarne l’applicazione a quanti siano riconosciuti meritevoli di protezione internazionale. Sia la dichiarazione universale dei diritti dell’uomo (approvata dall’ONU), sia la Costituzione della Repubblica italiana prevedono, al riguardo, il diritto di asilo. C) Nella euforia suscitata dalla fine della seconda guerra mondiale, tanto i nostri Padri costituenti, quanto i non numerosi Stati che materialmente approvarono la Dichiarazione sui diritti, largheggiarono in promesse. Il diritto di asilo è stato configurato come un diritto assoluto, da applicarsi comunque, senza condizioni, ossia a prescindere dalle coperture economiche. D) La razionalità vorrebbe, invece, si tenesse conto che gli Stati tenuti a farsi carico del diritto di asilo non dispongono di risorse economiche illimitate. Non è logico, non è neppure giusto, che debbano farsi carico di eventi che, senza una loro diretta responsabilità, si producono ovunque, anzi con sempre maggiore frequenza e gravità, nel mondo. Mi riferisco a dittature, guerre, conflitti tra diversi gruppi etnici, carestie, situazioni climatiche estreme (siccità, desertificazione, eccetera)- E) Poiché una interpretazione molto estesa della protezione internazionale non appare sufficiente, viene negato che possano operarsi distinzioni fra le persone  alle quali spetta il diritto di asilo e le persone che migrano al solo scopo di migliorare le proprie condizioni di vita (cosiddetti migranti economici). La concezione così riassunta si traduce, quindi, nel rivendicare un dovere generale di “accoglienza” dei migranti, indipendentemente dal loro numero e dalla provenienza geografica).

Può capitare che oggi un dato Paese dell’Africa Subsahariana abbia un tasso di natalità tale che ogni donna, mediamente, metta al mondo otto o più figli. In tale ipotesi, noi italiani, noi europei, noi occidentali, non avremmo diritto di domandarci perché in quel dato Paese non debba valere il principio della procreazione responsabile, che noi ci sforziamo di applicare. Vengono in considerazione maschi abituati a dominare le loro donne, tanto da renderle continuamente gravide. C’è una assoluta irresponsabilità dei predetti maschi. Non sembra loro importare che i bambini così messi al mondo saranno condannati a confrontarsi con condizioni di estremo disagio: insufficienza alimentare, povertà, ignoranza, malattie.

Che i tassi di natalità continuino pure a crescere senza limiti: per la nostra sinistra egualitaria, tutto si risolve sempre con il nostro dovere di accoglienza illimitata.

La sinistra politica, oggi maggioritaria in Europa, muove da “una visione “giacobina” del Parlamento Europeo. Ad esempio. tutte le problematiche relative alla libertà di orientamento sessuale (quella alla quale si riferisce l’acronimo LGBTq) dovrebbero essere decise a colpi di risoluzioni di maggioranza.

Alcuni Stati membri della UE hanno dato vita al gruppo cosiddetto di Visegrad (Polonia, Slovacchia, Ungheria, Repubblica Ceca, Austria). Questi Stati sono le autentiche bestie nere dei nostri progressisti giacobini. Perché, per la loro tradizione prevalentemente cattolica, i predetti Stati non lasciano campo libero alle problematiche LGBTq. L’altro torto imperdonabile sarebbe quello di rifiutare un riparto, pressoché automatico, dei migranti fra tutti gli Stati membri della UE, in proporzione alla rispettiva popolazione.

Per quanto finora sostenuto, i Paesi di Visegrad, secondo me, hanno ragione. Va da sé, tuttavia, che una questione così complessa, quale, quella della gestione dei flussi dei migranti, debba essere affrontata, non dai singoli Stati, ma dalla Unione Europea nel suo insieme. In altra sede, alla quale qui mi limito a rinviare, ho auspicato l’istituzione di “Centri di prima accoglienza ed identificazione” dei migranti. Questi, pur essendo ciascuno ubicato nel territorio di uno Stato membro, si configurerebbero come avamposti, piccole porzioni, della Unione Europea, intesa come soggetto unitario. Si avvarrebbero del lavoro di personale e Forze armate della medesima Unione. Il loro scopo istituzionale sarebbe quello di contrastare l’immigrazione irregolare e tutelare le frontiere esterne.

Non è vero che il futuro della Unione Europea non possa fare propria l’impostazione del blocco di Visegrad. Non è vero che tali Paesi siano malati di “sovranismo”. Non è più tempo di sovranismo statuale. Nessuno Stato europeo sarebbe in grado di resistere, da solo, alla competizione che si sviluppa nella dimensione internazionale. Gli Stati membri della UE devono avvertire, come dovere di sopravvivenza, l’esigenza di condividere alcune competenze in settori strategici e di garantirne una efficiente comune gestione: penso, ad esempio, alla gestione di una moneta comune, l’euro, alla ricerca scientifica, alla innovazione tecnologica, all’approvvigionamento energetico, alla protezione dell’ambiente naturale, alla politica estera, a quella della difesa, ai criteri fondamentali da seguire nel commercio con l’estero, alla cooperazione internazionale con i Paesi in via di sviluppo.

Tutto ciò potrebbe rendersi possibile grazie ad un nuovo assetto istituzionale, espressione di una nuova maggioranza in seno al Parlamento Europeo. Confido che tanti Stati membri possano tuttora riconoscersi in quella parola d’ordine che, con felice linguaggio, fu espressa dal generale Charles De Gaulle: Europa delle Nazioni. Poche funzioni rilevanti gestite in comune e, per il resto, la più ampia autonomia dei singoli Stati. La vera ricchezza dell’Europa è consistita, infatti, nella grande varietà dei Paesi europei, nel valore del pluralismo.

Senza essere utopisti e sognatori, si può immaginare un assetto istituzionale dell’Unione Europea, di tipo confederale (o, limitatamente, federale), che faccia funzionare la UE assai meglio di quanto ora non avvenga.

In conclusione, occorre avere la forza, la capacità e la pazienza di non lasciarsi risucchiare nella trappola dell’intolleranza. I diversamente pensanti non sono necessariamente in mala fede. Sono stati formati dall’attuale scuola pubblica italiana. Ciò basti.

Palermo, 25 aprile 2023

Livio Ghersi

 

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