LA PASQUA AL TEMPO DELLA CRISI

per Gian Franco Ferraris
Autore originale del testo: Franco Cardini
Fonte: Minima Cardiniana

LA PASQUA AL TEMPO DELLA CRISI
Pasqua. Anche quest’anno una festa cristiana preceduta, come sempre le feste cristiane, dalle solite polemiche. Perché imporre nel calendario civile di una società ormai multiculturale una festa confessionale? Gli ebrei hanno la loro festa, i musulmani celebrano la loro fine del Ramadan senza per questo turbare la vita quotidiana e il ciclo produttivo (a parte lo scandalo di una scuola che ha chiuso i battenti per l’inizio del Ramadan in quanto i suoi allievi sono musulmani al 40%; e al solito si è trattato di un equivoco, di un dialogo fra sordi); e gli altri, i “laici”, i non-credenti, visto che per loro questo è comunque un giorno libero dal lavoro, non avrebbero forse il diritto di celebrare il rito settimanale della domenica portando i bambini a fare il loro bel giro al Centro Commerciale che ormai ha sostituito la messa domenicale?
Sappiamo bene che ormai i parroci visitano le famiglie della loro parrocchia per benedirle – secondo il vecchio rito della cosiddetta “benedizione delle case”, che fino a una o due generazioni fa era in quasi tutte le case italiane, se non altro, una buona occasione per le pulizie di primavera: e magari anche per conoscersi tra vicini, che non era poi un gran male… – soltanto on demand, per non urtare la sensibilità di eventuali presenze musulmane, o ebraiche, o buddhiste, o agnostiche. Qualcuno ha anche avanzato il dubbio che quella visita rituale potesse essere un modo, da parte della Chiesa, di “schedare” le famiglie, come facevano durante gli Anni Quaranta-Cinquanta nella “cintura rossa” d’Italia (Emilia, Romagna, Toscana, Umbria) gli agit-prop che battevano sistematicamente casa per casa la zona loro assegnata per vendere “porta-a-porta” e giorno per giorno “l’Unità”, e se la compravi bene, altrimenti venivi iscritto nella lista dei Nemici del Popolo. Io, ex-ragazzo-di-San-Frediano, cresciuto tra ’45 e ’66 (quando andai a vivere altrove) in una famiglia rossa (per quanto cattolica) del quartiere più rosso della rossa Firenze, mi ricordo bene tutto questo: come ricordo perfettamente quel 14 luglio del ’48, il giorno dell’attentato a Togliatti, quando furono in parecchi a temere il peggio; e ricordo la notte di veglia e i falò accesi agli angoli delle strade nella notte successiva a quel fatale 5 marzo del ’53, quando si sparse la notizia che la luce del “Faro dei Lavoratori” si era spenta, e i muri erano pieni di manifesti listati a lutto con la Sua effigie in uniforme di generalissimo dell’Armata Rossa; e ricordo di aver visto tante di quelle care vecchie facce rugose degli artigiani e degli operai del mio rione rigate di lacrime sincere, e sento ancora le campane di qualche chiesa che sonavano “a morto” (poi si disse che i parroci erano stati costretti da alcuni ex-partigiani: ma non era vero). Eppure, oggi capisco che la gente che manifestava così il suo credo politico e il suo dolore era ancora profondamente, irreversibilmente cristiana, e riversava su quel vecchio ex-chierico georgiano e sulla sua memoria il suo senso del Sacro tanto radicato da sembrare innato. Ed era gente che ogni quaresima aspettava con impazienza che il prete visitasse la sua casa, e avrebbe (“superstiziosamente”, d’accordo) considerato un tremendo segno di malaugurio se ogni primavera le sue quattro mura non fossero state spruzzate dall’acqua benedetta e decorate dal ramicello di ulivo benedetto. Questa era l’“umìle Italia” di una volta. Che cosa ne resta adesso, a parte la reiterata polemica degli animalisti contro l’annuale ecatombe dell’agnello per il barbaro rito del pranzo pasquale?
E allora, domandiamocelo: ha ancora un senso, oggi, celebrare la Pasqua? Per gli ebrei e i cristiani in genere, senza dubbio sì. Ma la nostra società laica e incamminata sia pur in mezzo a mille difficoltà e contraddizioni verso un futuro “multiculturale” (“cosmopolitico”, si diceva una volta), la nostra società atea e agnostica per quanto pervasa da mille fremiti di “ritorno selvaggio del Sacro” (l’ambiguo “Sacro” delle neoreligioni), può continuare a mantenerla come giorno festivo? O deve lasciar le cose così come sono solo in vista della loro brava valenza consumistica (l’arrosto d’agnello peraltro contestato dagli animalisti, le uova sode – ricche, attenzione!, di colesterolo –, quelle di cioccolato – che contiene comunque la benefica lecitina di soia –, le colombe – ma attenti agli zuccheri e ai carboidrati –, gli agnelli di zucchero – vedi supra –, le campane, i coniglietti e così via…)? O va derubricata a festa dei bambini, più o meno come il Natale, a parte poi il successivo “Lunedì di Pasqua” che in quanto festività nuoce alla produzione ma inaugura la stagione turistica e dà lavoro in quel settore, fondamentale perla nostra economia? Ed è comunque ragionevole in quel giorno continuar a tener chiusi negozi e Centri Commerciali, visto che si tratta di un giorno in cui i consumi lievitano e magari la gente ha più tempo per lo shopping? E poi in fondo, come si diceva, il Centro Commerciale ha sostituito la chiesa parrocchiale e la messa della domenica: e in fondo ognuno ha i templi e i riti che si merita.
Chi si e vi chiede tutto questo non è un cinico utilitarista: al contrario, è un cattolico tradizionalista che ogni notte pasquale celebra seriamente l’accensione del Fuoco Nuovo – il Lumen Christi – secondo l’antico rito nato sembra nella chiesa della Resurrezione di Gerusalemme (se ne suppongono radici etiopiche)fa benedire le uova sode e a pranzo consuma devotamente, insieme con esse, il suo agnello arrostito in ricordo dell’esodo d’Israele dall’Egitto, nella memoria simbolica dell’Agnus Dei qui tollit peccata mundi e sfidando allegramente pressione sanguigna e colesterolo.
Per me e per chi la pensa come me, tutto ciò ha un senso profondo. E proprio per questo, dal momento che sono consapevole di non vivere più in una “Cristianità” – vale a dire in un mondo che accetti in modo integrale la fede del Cristo come modello di vita comunitaria, che ad essa si ispiri sul piano non soltanto religioso, bensì anche politico, civile, sociale, culturale, addirittura scientifico (perché solo a queste condizioni una società è una “Cristianità”) –, bensì in un mondo istituzionalmente agnostico nel quale esiste tuttavia una maggioranza di cittadini che personalmente e più o meno formalmente sono o si sentono o si dicono ancora cristiani, a dirla tutta mi dà perfino un po’ fastidio lo spettacolo del giorno della Resurrezione del Signore ridotto a occasione per abbuffate e scampagnate. Almeno il Natale ha ancora un senso come festa che si cerca di vivere in famiglia, con uno speciale riguardo per i bambini e con tutta la paramitologia parallela pagano-santoral-consumistica di san Nicola di Bari travestito da Papà Natale e abbigliato con i colori prestatigli dalla Coca-Cola dell’Albero solstiziale rivisitato da Martin Lutero e promosso, da Iggdrasil-Axis Mundi, ad annunzio del glorioso Arbor Crucis. Bene quindi per il solstizio d’inverno ancora festa cristiana ben metabolizzata dalla società dei consumi: ma quanto all’equinozio di primavera, in fondo si è sempre detto “Natale coi tuoi e Pasqua dove vuoi”. E allora?
Il punto è forse che la Pasqua, per gli ebrei celebrazione del plenilunio del mese di Nisan, coincide per noialtri gente mediterranea con l’equinozio di primavera, momento anche per i vari culti pagani del nostro clima temperato sacro al risveglio della natura, alle prime floragioni, al parto delle femmine delle greggi, alla nascita dei piccoli. Un momento nel quale ci si lasciava alle spalle gli stenti e le febbri invernali e si ricominciava a vivere il ciclo produttivo dell’anno; e che non si poteva quindi lasciar passare senza un segno celebrativo. L’uomo, ch’è tale in quanto è anzitutto “animale simbolico” (la lingua parlata e scritta, il pensiero stesso, procedono per simboli), può anche fare a meno di Mosè e di Gesù, ma non di simboli: non può far a meno di ordinare qualitativamente la sua vita secondo ritmi e gesti materiali che lo rinviano all’universo dei valori immateriali dalla presenza dei quali si sente circondato. Chi crede il contrario incorre nell’errore della misera colomba immaginata da Immanuel Kant: che, faticando nel volo a vincere la resistenza dell’aria, sogna un mondo vuoto senza capire che, senz’atmosfera, non solo essa non potrebbe sostenersi in volo, ma nemmeno vivere.
Uno dei pericoli che più minacciano la Modernità è la “desacralizzazione”, la perdita della capacità simbolica di vedere “oltre” le cose fisiche e di ordinarle secondo princìpi metafisici attraverso i quali l’essere umano si sente parte del cosmo e della natura. Purtroppo Orwell era buon profeta, con la sua società-formicaio: ma sembriamo non accorgercene, o averlo dimenticato, o averlo scambiato semplicisticamente per un profeta del “passato pericolo” totalitario che era solo uno dei volti del Moloch moderno, mentre consumismo, primato dell’economico e materialismo non “scientifico” bensì esistenziale ne sono altri.
Avanti così, dunque. Seguiamo fino in fondo la ferrea logica della Modernità. Uccidiamo i miti, tutti i miti: e i simboli che ne sono la chiave. Abbracciamo coraggiosamente il razionalismo integrale del quale “noi occidentali, eredi del logos ellenico”, andiamo tanto fieri. Aboliamo le feste, sostituiamo fast food e piatti precotti al cibo festivo ritualmente preparato, chiudiamo chiese e sinagoghe e apriamo centri commerciali. Via le quaresime e gli agnelli sacrificali, via i kosher e gli halal che insidiano le mense delle scuole, degli ospedali e dei penitenziari: in fondo, da maiale al verme, son sempre e soltanto tutte proteine democratiche e bisogna essere razionali, che diàmine. Cancelliamo la differenza tra le festività e giorni feriali, così come stiamo cancellando quella tra uomini e donne e ci piacerebbe tanto, a colpi di Viagra e di Cialis, cancellare quella tra giovani e vecchi. Eliminiamo le differenze, che sono tanto antidemocratiche e magari perfino criptorazziste. Avanti verso la riduzione della persona a individuo. Avanti verso omologazione e livellamento. Continuiamo così. Continuiamo a farci del male, come dice Nanni Moretti. Non tarderemo, siatene certi, a raccogliere i frutti dei veleni che andiamo seminando.
Franco Cardini

P.S. Sia detto tanto per amor di chiarezza: il logos enunziato da Platone e sistematizzato da Aristotele non è il Logos enunziato nel Prologo al Vangelo di Giovanni e spiegato da Paolo nella Lettera ai Colossesi, 1, 5-6. Si può bensì legittimamente parlare, sotto il profilo filosofico, d’“ispirazione neoplatonica” di Questo nel riferimento letterale a quello; ma il punto è che, tra il logos degli antichi greci e il Logos di Giovanni c’è il Cristo sulla Croce e la rivelazione trinitaria della Persona di Cristo come Sophia. Il Logos che si fa carne – et Verbum Caro factum est – e che scende realmente anziché simbolicamente nell’ostia consacrata scardina i princìpi di qualunque possibile logos platonico-aristotelico. È questo che i finissimi controversisti musulmani adepti della falsafa non comprendevano, quando irridevano le “pretese” cristiane di possedere il Logos (la croce è difatti “scandalo per i giudei, follìa per i pagani”); è questo che hanno dimenticato di recente perfino taluni alti prelati cattolici, pretendendo – in polemica contro la pretesa “illogicità”, quindi “irrazionalità”, dell’ Islam che nel nome della Potenza Assoluta di Dio rifiuta il principio della Sua Potenza Ordinata, la quale ponendo un limite a Quella finirebbe de facto con il negarLa – che il Logos sia integralmente riducibile al logos e che quindi il cristianesimo sia “logico” (cioè “razionale”) nel senso filosofico (e immanente?) del termine.

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